Una giornata di settembre

Il 23 settembre, un mese esatto dopo il mio compleanno, quest’anno, ha fatto un caldo incredibile. Il cielo era terso e sembrava un’alba estiva più che un inizio di autunno. Certo, poi vedi le viti cariche d’uva, i fichi spiaccicati sulle strade e nei giardini, ti ricordi che è appena passata Mabon, la festa del raccolto, e quindi sai che è autunno. Ma a volte non si riesce ad essere molto razionali.

La casa è come addobbata a festa. Tutta pulita, in ordine, piena di cose da bere e da mangiare, perché era logico che ci sarebbe stata una specie di invasione. Era già  successo quattro anni fa, ora si ripete. Ci sono decine di persone in giro. Alcuni sono seduti sulle sedie in veranda, altre passeggiano per il giardino, altri ancora stanno in salotto, e bisbigliano.
Io mi aggiro, cercando facce conosciute, cercando di salutare, di riconoscere, di ricordare. Penso che a lui sarebbe piaciuto tutto questo. Forse non la confusione, ma sicuramente sarebbe rimasto tutta la mattina insieme agli operai mentre montavano l’impalcatura per i teli fuori dal garage.
Fa caldo, e vado in casa a posare la giacca. Esco e mi sembra di essere a un matrimonio. Se solo non fosse per la faccia da funerale di mia madre e mio zio.

Quando ci incamminiamo, sento tutta la pensatezza di quelle nenie “paleocristiane”, e mi sale una specie di insofferenza. Per fortuna non sono da sola, c’è mia sorella Giulia di fianco a me, ci teniamo sottobraccio, e lei ha un’idea spettacolare. Come in quel film, si mette a canticchiare sottovoce una canzone che non c’entra niente, ma che è perfetta per la situazione. Ci lasciamo un po’ troppo andare e forse cominciamo a cantare a voce alta, ma intorno a noi nessuno sembra accorgersi di nulla, continuano con la loro lenta cadenzata cantilena. E io, almeno io intendo, mi trovo altrove, perdo per strada i pezzi di strada, non sento più troppa tristezza, sono quasi sollevata. Se non fosse per le gomitate di mia sorella che si accorge che sto proprio cominciando a cantare a voce alta e per l’arrivo in chiesa.
Ascolto parole insulse di peccato e di perdono, ma la mia mente è altrove. Mi ricordo tutte le cose che faceva per me in vita, sono troppe, non si possono elencare. Alla fine, per noi, l’addio c’era già  stato la sera prima, lì nel garage addobbato, seduti per terra con un enorme rotolo di cartaigenica ai piedi della bara, a ricordarlo, a ridere, a piangere.

Il funerale (perché di funerale si trattava) era quello di mio nonno. Morire a ottantun anni, su un balcone affacciato almare, non è poi così male. Certo, ora mi chiedo, chi poterà  i pini del nostro giardino? Chi costruirà  impalcature inverosimili per arrampicarsi ovunque? Chi mi parlerà  delle notti nel deserto e di come ci si orienta tra le dune? Tutto quello che prima fingevo mi annoiasse, ora mi mancherà .
Forse per lui mi immaginavo una morte avventurosa com’è stata la sua vita. Magari in guerra, quella che si ricordava tanto e di cui ci ha raccontato mille episodi. Oppure cadendo da un albero mentre cercava di potarne i rami. Meglio così, però.
Natan se lo immagina che guida un camion nel deserto e cerca la strada. Lui si sa orientare ovunque.

Spero che la prossima vita ti vada bene come questa.

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