Ho scoperto questo libro perché la scrittrice era una delle relatrici della Conferenza sui Videogiochi che si è tenuta a Milano a Novembre. Ho letto un po’ la trama qua e là su qualche sito, alquanto scettica, pensando che fosse la solita storia tipo Matrix, o Existenz o insomma quel genere di realtà virtuale succedanea della realtà reale eccetera.
Invece no, questo libro è diverso, molto diverso. E’ scritto chiaramente da una persona che videogioca. E non poco. Anzi, la stessa Alessandra C. ha ammesso di essere “assuefatta” ai First Person Shooter. Gli sparattutto. Ed è proprio di questo che parla il libro. Di un Gioco, IL Gioco, che in un futoro (?) non troppo lontano è diventato il fenomeno di intrattenimento mondiale più seguito e più importante. Ha soppiantato calcio, formula 1, reality show. Tutto. C’è la Lega del Gioco, organismo invisibile e onnipotente, che controlla tutto, dal regolamento alle vite dei giocatori. Il pubblico è lo spettatore (poco) silenzioso degli scontri all’ultimo sangue che i giocatori compiono in Arene super-tecnologiche, novelli stadi post-umani.
In questo Gioco (che è in pratica una specie di Unreal, o di Quake Arena) i giocatori sono dei ragazzini giovanissimi very skilled, abilissimi, dei draghi con tastiera e mouse, che conoscono a memoria le mappe, gli armamenti, le tattiche. Il campione in carica, Skin, 23 anni, è un già troppo “vecchio”. Dovrebbe lasciare il posto alle nuove leve. E non sono solo i suoi avversari a pensarla così. Anche la Lega fa pressioni…
Oltre al tema, evidentemente videoludico, anche la struttura del romanzo è chiaramente ispirata al videogioco. I capitoli corrispondono aii vari mesi del Campionato, ma in realtà sono paragonabili a livelli da superare, attraverso i quali Skin, uno dei protagonisti, deve passare e che deve superare indenne per arrivare alla Finale. I personaggi sono caratterizzati bene, ma in modo nevrotico e compulsivo. Più che dei volti, più che delle persone, sembra di vedere degli avatar che sfrecciano davanti ai nostri occhi, desiderosi di mostrarsi e insieme di sfuggire al nostro controllo (o ai nostri colpi).
Skill è un libro elitario, secondo me: un non-giocatore non può percepire e comprendere completamente il clima di ossessione maniacale, le emozioni suscitate da un agguato o l’insonnia e le ore passate attaccati a una consolle. C’è il chiaro tentativo di descrivere a parole quello che invece è sensazione irrazionale, che dal cervello parte e contagia e permea tutto il corpo. C’è il disperato e ossessivo tentativo di descrivere la dipendenza dal Gioco (ma in realtà da qualsiasi gioco).
Alessandra ci prova, e ci riesce. Con me ci è riuscita benissimo. Mi sono rivista mentalmente intere sessioni di Half Life in multiplayer, o sanguinarie partite a Unreal, in cui un ragazzino di 12 anni mi distruggeva costantemente e senza pietà .
Un consiglio, magari, prima di leggero. Passate qualche ora in un First Person Shooter. Anche da soli. Anche contro tristi mezze-intelligenze virtuali.
Sicuramente capirete di più e “sentirete” meglio.
Se passassero mezza giornata a casa tua mentre io e tutta la tua famiglia ci massacriamo ad Half Life, capirebbero tutto anche senza leggere il libro.
Ma hai letto il libro in un giorno?
Io ci ho messo più o meno quel tempo, e alla fine ero abbastanza confuso ma soddisfatto. In realtà mi sono reso conto poi che l’idea non mi piaceva, perché raccontava il gioco (quel gioco) attraverso una delle aberrazioni che sono nate da quel gioco, il lingo di tecnicismi, misto americanismi e acronimi. Quasi un manuale tecnico di un ipotetico crossover tra unreal e quake.
Mentre leggevo il libro mi ha entusiasmare sapere che ero uno degli eletti che poteva capire quello che c’era scritto, ed eventualmente visualizzare le scene che disegnava a suon di frag e bind.
Ma il concetto di casta in fondo è sbagliato, perché impedisce ai videogiochi di avere un riconoscimento universale, perché rafforza la ghettizzazione che ci autoinfliggiamo. Se posso dire una cosa non proprio gentile, Skill è un libro masturbatorio: appaga chi lo legge con la rappresentazione posticcia di un piacere reale (giocare a quake). Non fa nessuno sforzo per spiegare che cosa significa giocare a un profano, ma lo tiene volutamente fuori.
Facciamo finta che io sia Algirdas Julien Greimas, il grande semiologo, e tu una bambina di cinque anni. Se davvero volessi farti capire cos’è la semiotica, perché la amo, cosa farei: ti soffocherei di citazioni incrociate sull’evoluzione del concetto di senso, o inizierei disegnando un topo sulla sabbia e dicendoti: questo è un segno e significa topo, vedi come…
Skill è un libro che è scritto per appagare chi di videogiochi quasi vive, e forse per appagare chi lo ha scritto. Io cercavo un libro che con semplicità facesse capire alle persone a cui vorrei spiegarlo “perché è bello giocare”. MI ha molto deluso.
Beh, capisco e condivido in pieno il fatto che è un libro per chi gioca. Però non me la sento di definirlo masturbatorio e “di casta”. O meglio, lo è, però non vedo questa cosa come un aspetto negativo. Sui videogiochi si scrivono tante ovvietà banali. Tanta gente che non ne ha mai usato uno ne fa recensioni, tanti giornalisti, parrucconi, sociologi da due soldi fanno “critica culturale e sociale” di un prodotto che non sanno nemmeno com’è fatto. E sinceramente ero stanca di queste ovvietà populistiche. E’ ovvio, un “profano” non può avvicinarsi al mondo dei VG e appassionarsi leggendo questo libro. Anzi, forse si sentirebbe aggredito e confuso. Però per questo microcosmo (mica tanto micro, poi) di videogiocatori hard core, come qualcuno ama chiamarli, è un modo di ritrovarsi.
E’ l’approccio che conta. Se uno si avvicina a questo libro per imparare e capire, allora resterà deluso. Se uno si avvicina per compiacersi o anche solo per “non sentirsi più da solo” nei propri deliri di onnipotenza ludica, allora troverà buon pane per i propri denti…
Che bel nick, Alan!
Tra le varie possibilità , mentre lo scrivevo, non ho mai considerato di spiegare a qualcuno che non gioca cosa voglia dire videogiocare. A parte il fatto che non ritengo sia possibile, trovo che un romanzo non è la sede più adatta.
Quello che volevo era costruire delle atmosfere, trascinare il lettore all’interno di una mappa (e molto altro ancora). Per farlo ho sempre tenuto in mente il tipico profano e non un giocatore esperto. Volevo che si emozionasse e si costruisse un suo percorso all’interno del gioco.
Credimi, ha funzionato, Skill in quattro mesi è arrivato alla seconda edizione.
Una delle regole ferree per costruire la narrazione è: dialoghi coerenti con il mondo rappresentato.
I miei giocatori parlano da giocatori, non potrebbe essere altrimenti, come hai detto tu, non è un manuale.
Per quanto mi riguarda in un romanzo non devo né spiegare qualcosa al lettore né istruirlo. Mi piacerebbe solo incuriosirlo.
Anche in questo caso, credimi, ha funzionato. Se vuoi ti mando un po’ di mail che mi hanno inviato.
Un’ultima cosa non sottovalutare il lettore non esperto, perché il lettore esperto ha altrettanti limiti, uno tra tutti: ha già una sua idea di quella storia.
Tu hai riconosciuto due giochi, hai applicato le parole su un tuo strato cognitivo ed emozionale già acquisito, ma Skill non è nato per appagare chi gioca o chi l’ha scritto. È semplicemente una storia nata in un certo ambiente, altrimenti “Alta fedeltà †sarebbe nato per appagare chi ascolta musica, “La metà oscura†per appagare l’ego degli autori e così via…
Valentie,
tu sei tu? O meglio tu sei tu con i ragazzi di The Ring?
Pax & Love
Wow, grazie, non c’è niente di meglio delle parole dell’autrice per capire!
Quand’è che ne scrivi un altro? Anzi, sai che ti dico? Ora mi leggo Webmaster!!!
E comunque… Sì, sono io, quella dopo la conferenza, con Cryo e UnNamed mentre tu fumavi fuori… 🙂
Ma pensa…
Sai dopo l’incontro con Cryo e UnNamed, che sono pure carucci, nonostante giochino alla parte dell’hardcore duro et puro, sono tornata a casa e mi sono imbattuta in una delirante discussione del tipo: “le femmine e il videogameâ€, sul forum TFP.
Ti ho pensato!
Ho iniziato a scrivere un articolo…
Ho inserito anche altri fenotipi, se ti va di partecipare, mandami una mail e io ti mando il resto. Così, in base alla tua esperienza, integri.
Io giocatore e le femmine.
Divisione per tipologia.
1) Solid Snake.
Chi è mio padre? Chi sono io? Chi sono le femmine?
Tale videogiocatore è ossessionato dalla sostanza, ma cambia facilmente idea a seconda del prequel o del sequel propostogli. In fondo è un confuso in cerca di un’identità . Vorrebbe le donne nel panorama videoludico, ma senza identificazione, perché si sa: i livelli di astrazione sono prerogativa maschile.
Donna sì, ma The SIMS e ai fornelli.
2) Master Chief.
Di mio padre non mi importa. Io sono IO e di donna ce n’è una sola, si chiama Cortana.
Tale videogiocatore si nutre di steroidi sotto forma di pixel. Ha tradito il PC per un PC travestito da console, ergo ha un debole per i trans, ma essendo homofobico non lo ammette neanche a se stesso. Gioca in rete dove ha trovato un’isola felice: Xbox Live. Più che felice, abbastanza deserta, popolata da rarissimi esemplari di femmina digitale. Esemplari da abbattere, con tutte e due le armi disponibili nell’arsenale, per evitare che copulino e si riproducano.
Donna sì, ma sotto forma di intelligenza artificiale che, come è noto, non è mai troppo intelligente.
Ora mi leggo il thread in TFP e vedo un po’ che dicono…
Cryu e UnNamed sembrano cattivi, ma in realtà sul Forum di Project Ring mi hanno sempre tratto benissimo…
Bella questa cosa dei “fenotipi”. Se posso contribuisco!