Una mattina alle cinque ho preso un treno con mia sorella e sono andata a Venezia per vedere la mostra di Dalí. Questa è un’altra storia, ma la mostra merita sicuramente qualche parola.
Anche solo arrivare alla sede della mostra, Palazzo Grassi, è suggestivo: si deve attraversare Venezia di dicembre, piena di mercatini natalizi, di negozi addobbati a festa, di strade silenziose e labirintiche.
Io e Giulia ci prepariamo mentalmente già durante il percorso, per farci travolgere dalla fantasia immaginifica dello spagnolo coi baffi all’insù.
La mostra era organizzata in modo coerente, divisa per periodi, dalle prime opere e le prime ispirazioni fino alle sperimentazioni e gli studi più recenti.
Un Paranoico Critico, ecco cos’era Dalí. E non sono io a dirlo, ma egli stesso si definiva in questo modo. Era grazie alla sua Paranoia Critica che riusciva a guardare il mondo diversamente, a scomporlo secondo le nuove teorie della relatività appena scoperte e diffuse da un altro genio. Era grazie alla sua pazzia accettata come tale, inesorabilmente, e, anzi, sfruttata, accresciuta, stimolata, che è riuscito a produrre opere così visionarie e poliedriche.
Insieme alla costante disgregazione della materia, sono sempre presenti inquietanti ambiguità nelle proporzioni. Osserva tutto con occhi nuovi, riconfigura gli oggetti e le loro funzioni. In un periodo, prende addirittura il corpo come metafora dell’archiettura, e costruisce schiene e dorsi di amanti sulla base armonica ed equilibrata di cupole di cattedrali. Passa a fasi più grottesche, in cui il corpo mutilato viene esposto in un equilibrio precario. La fisicità viene scomposta e sezionata, ma non solo attraverso una geometria scientifica: Dalí lascia emergere anche le proprie viscere, sulla tela, fa sì che il sangue, il fango, la mente, l’immaginazione assoluta contaminino l’arte.
Interessante è l’accanimento critico nei confronti di Piet Mondrian. Dalí vuole inserire sangue ed elementi morbidi nella rigidezza pittorica di una certa corrente artistica, che egli non apprezza e in cui non si riconosce. Professa il caos come base assoluta della creazione (sia reale che artistica).
La sua Concretezza Irrazionale si sostituisce allo sterile perfezionismo che egli tanto disapprova. Il fatto che alla base dei suoi dipinti, in fondo, quasi inconsciamente, stiano la teoria atomica e la psicanalisi, novelle scoperte del 1900, è fortemente indicativo: Dalì cerca l’anima dell’uomo nella scomposizione fisica, ma non solo. Indaga irrazionalmente, seguendo un percorso in cui la guida è la sua fantasia sfrenata.
Certo, bisogna ricordare che alle spalle del genio c’era un artista che si è dedicato unicamente e per tutta la sua vita all’arte. Era un personaggio in grado affascinare il pubblico, accattivante, istrionico, che sapeva trasformare l’occhio di una statua neoclassica su una rivista patinata nella sua bocca baffuta e ghignante.
Mi sono resa conto di quanto sia faticoso seguire una mostra dei suoi dipinti. Non per altro, è che ognuno avrebbe bisogno di ore di contemplazione, un esempio su tutti, l’Enigma senza fine. All’interno di questo dipinto ci sono svariate figure (un levriero, un saggio che legge con la testa piegata, una donna di spalle, e altre) ed è alquanto complicato individuarle tutte.
Questi giochi ottici sono un tema ricorrente, i quadri nascondono più di quello che l’occhio può percepire ad una prima occhiata, hanno bisogno di un’analisi dettagliata, che però va oltre alla razionalità dell’analisi formale e stilistica, prevede anche una sorta di immedesimazione fluente, di abbandono estatico e di coinvolgimento fisico.
L’opera che personalmente preferisco è La tentazione di Sant’Antonio : la trovo potente, incombente, mi ha trasmesso un vivo senso di fatica e di oppressione dell’uomo da potenze e tentazioni, appunto, più grandi di quanto si possa tollerare. Questo quadro mi causa una sensazione di smarrimento, in una parola è sublime. Sublime nel senso classico del termine, ossia affascinante, da cui è impossibile distogliere lo sguardo, che quasi ipnotizza e cattura, ma che insieme spaventa, destabilizza, fa quasi tremare. La leggiadria e la pesantezza si alternano incomprensibilmente, lasciando l’osservatore (o meglio, lasciando me) aggrappato con gli occhi e con la mente a un’enormità deforme e confusionaria.
Sarebbe bello essere proiettati nei dipinti di Dalí. All’interno, proprio.
Sarebbe bello esplorare tridimensionalmente quegli spazi onirici.
Con molta concentrazione e lasciandosi andare ad una salutare sindrome di Stendhal, forse è possibile farsi risucchiare e immegersi in una sana contemplazione estatica.
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