Non capita tutti di essere invitati dalla propria relatrice a passare sei giorni in Austria al festival di Arte Elettronica più longevo (credo) del mondo. E’ stata una bella fortuna. Soprattutto sono stati sei giorni più che pieni.
Prima tappa a Vienna, giro della città per conto mio. Bel posto. Spettacolari i tram che ti portano tutto intorno al centro. Ho mangiato cibo indiano in un parco enorme e ho camminato per ore nella luce chiara del sole e del bianco degli edifici.
Poi treno e poi Linz.
Linz, cittadina che sembrerebbe di provincia, ma con questo Ars Electronica Center che esiste da 25 anni e che sovvenziona, promuove, incoraggia, foraggia eccetera le iniziative di sperimentazione tra tecnologie emergenti e nuove forme d’arte. Spazi allestiti alla perfezione, servizi inappuntabili, pulizia, professionalità . Tipico dei tedeschi. Anche se questi sono austriaci, insomma. Le strutture, in particolare, erano qualcosa di esagerato.
Grazie al mio nuovo palmare, ultimo regalo di compleanno, mi connettevo via rete wireless dalle decine di hot spots seminati in giro per la citta (in piazza, nel palazzo delle conferenze, in caffetteria, ovunque) e controllavo la posta.
La dimensione di questo evento è più che internazionale e multidisciplinare: c’erano artisti e relatori provenienti da America, India, Italia (pochi), Belgio, Olanda, Giappone, Canada e ognuno aveva una formazione diversa, più o meno umanistica, tecnica, filosofica, artistica, accademica.
C’era varietà , insomma, possibilità di confronto.
Però.
Io sono famosa per i miei “però”: non mi accontento mai e, da 25enne sprovveduta che ha imparato a pensare da poco (ahahah, ho imparato?) mi arrogo il diritto di lanciare critiche e di fare osservazioni. Ma questo è il mio spazio e tutto questo scrivere mi serve da psicanalisi, quindi.
Il fatto è che, ad Ars Electronica di Linz 2005, ho visto tutto, tranne l’arte.
E’ stato questo il problema. Ho visto sperimentazione. Ho visto ibridi tra organismi biologicio e macchine. Ho visto intertestualità , rimandi ad altre arti (vedi le gigantografie di bambini che imbracciano armi tratte dal videogioco Half Life). Ho visto infelici scarafaggi passeggiare su palline che muovevano girelli robotici. E poi macchine che disegnavano sul muro immagini variabili a seconda dell’umidità del’aria, macchine per farsi i tatuaggi, ricostruzioni tridimensionali, ventilatori, pseudo eco-sistemi fatti da piante e mini-elfi alimentati a energia solare.
Ma se a livello inventivo ed estetico non posso dire che ci fossero carenze, a livello emotivo e comunicativo ho sentito un vuoto enorme. Non c’è niente che mi abbia emozionato. Niente che mi abbia trascinato nel vortice di una “Sindrome di Stendhal”, niente che abbia sognato la notte o che sento influenzerà il mio modo di scrivere, di (cercare di) fare arte, di vedere il mondo.
E allora ho fatto una telefonata di mezzora, dal cellulare all’italia, perché c’è un Work In Progress che non devo lasciarmi sfuggire. Perché se viene considerata arte una povera bestiola incollata a un macchinario abominevole per farla deambulare in modo innaturale, che comunica solo sadismo e nerdismo, io ho avuto un’illuminazione, ora SO, ora vedo. Qui si tratta di mettersi a FARE, di realizzare e concretizzare queste Malinconie Urbane che abbiamo in mente da troppo tempo.
E’ stata una telefonata strana, e strano è stato il sentimento che mi è rimasto addosso per tutto il tempo del viaggio-studio. Mi sono sentita in colpa e stupida, superficiale e pigra. Perché Ars Electronica (e tutte le installazioni che ho visitato con Paola, e sono state tante) mi ha dimostrato che l’unica che mi manca è l’iniziativa, è l’azione, è lo svincolarmi da tutta questa cerebralità e mettermi a lavorare sul serio.
Ecco, cosa ho imparato dai sei giorni a Linz.
Che per quanto sperimentale, vuota, semplicemente tecnologica, l’arte (o la pseudo arte) che ho visto almeno ESISTEVA. Può essere migliore o peggiore di quella che posso (o credo di poter) realizzare io, ma finché non farò nulla, finché mi limiterò ad almanaccare su fogli bianchi e a pensare che il mondo dell’arte fa schifo le cose non cambieranno.
E ora, al lavoro.
Cioè, all’arte.