Bologna.
Arrivo di giovedì pomeriggio, dopo aver, tutta fiera, preparato il mio mitico zaino da montagna, inserendo, nell’ordine, due asciugamani, due gonne, quattro magliette, svariate calze e mutande, un paio di scarpe che non userò mai, caricabatterie per qualunque dispositivo digitale concepito dall’uomo (computer, palmare, fotocamera, cellulare), un libro di merda con la copertina nera e rosa su Virginia Woolf, un sacco a pelo e un tappetino bigusto azzurro e argento, i miei preziosi quaderni dei racconti.
Viaggio in Eurostar: omissis.
Fotografo la stazione perché è tanto che non lo faccio. E’ sempre sporca allo stesso modo, c’è sempre il solito odore di grasso e di polvere. Almeno so di essere viva.
Arrivo con 15 minuti di ritardo e Paolo mi aspetta in stazione e mi saluta con un “Sei in ritardo”. Lo so, ma ci facciamo aspettare, noi esseri senza pene. Si offre di portare il mio zaino di 35 chili o almeno la borsa con il computer, ma rifiuto seccamente, da suffragetta femminista quale sono.
Prendiamo l’autobus e, personalmente, inauguro la serie di effrazioni più lunga della mia vita. Non pago un biglietto che sia uno. Una volta ci provo, ma Paolo mi ringhia contro e mi dice “Non ci provare”. Mi convinco che sa qualcosa che io ignoro sugli autobus di Bologna e sul sistema di multe, ma mi fido.
Arriviamo a casa sua, passando per infiniti portici, e scopro con gioia che la casa è adesa a una caserma (meno male che non ho portato il mio famoso sacchetto invecchiato di ormai sette mesi) ma che soprattutto è il covo più intellettual-comunista-studentesco che si possa immaginare. Mobili scompagnati, bagno allagato, mancanza di acqua calda, muri umidi, un frigo nel corridoio che funge da armadio comune, pavimenti a mosaici raffazzonati, soffitti alti, la Repubblica del giorno al bagno (allagato). E poi la camera di Paolo. Minimal, radical chic con poster di Copenhagen alle pareti, due scrivanie, un armadio, un letto e uno specchio che taglia la testa. E poi la libreria. Monoblocco, ma con tutto quello che serve. Testi di Eco, di Deleuze, di Semiotica, di Wittengstein, di vari ludologi o game studiologi, roba così complicata che anche io rischio di classificarla come “minimalismo polacco” (in tono di disprezzo). Ma evito, perché in realtà sono ammirata.
Disfo lo zaino e si crea il caos primigenio in una camera che fino a poco prima era essenziale ma onesta e ordinata. Libri inutili sparsi ovunque, sacco a pelo e tappetino ordinatamente disposti, sparagmòs rituale di capi di vestiario variopinti. C’è una bella finestra che dà su un cortile, penso che starò bene.
Dopo l’acclimatamento, ci avviamo verso la location del festival elettronico motivo del mio viaggio. Paolo finge più volte di perdersi per rendere più interessante una strada dritta. Arriviamo in un centro sociale dove suona un certo Postalmarket e mi accorgo che di elettronico c’è solo la marea di cavi collegati alle prese e di arte c’è solo… La birra che rende tutto artistico.
Comunque, faccio la sborona col palmare e controllo la posta con il wireless, mangiamo un piatto misto di difficoltà cinque stelle e beviamo una birra e mezza chiacchierando di Gonzalo Frasca, Jesper Juul, la Ludologia, la scarsità di prospettive di carriera in Italia, e il fatto che tutte le idee sui videogiochi che ho per l’università io oggi, in Danimarca ci sono già da anni e anni. Non mi demoralizzo e fumo, tanto va bene così.
Bologna fa da sfondo al resto delle chiacchiere. Strade, fiumiciattoli che spuntano dal nulla, portici e ggggiovani che si accalcano. Poi Piazza Maggiore, le Torri (una di Cioccolato e una vera), e Piazza Santo Stefano, altro ritrovane gggiovane dove si beve birra comprata dai pachistani, si fuma di tutto e si suonano fastidiosi bonghi che ammazzano la conversazione.
Paolo ha la tisi ma non vuole ammetterselo, e si ritrova a sputare sangue con me che gli dico “Forse uno sciroppo…”
L’omino della farmacia notturna pensa che vogliamo fare un festino a base di LEVOtuss. Noi non capiamo perché finché non leggiamo nelle controindicazioni che “Attenzione, provoca SPERSONALIZZAZIONE”. Siamo perplessi ma in effetti è fico, dopo che ne hai bevuta una bottiglia in due non ti senti più responsabile delle tue azioni. E non è colpa tua!
Tornata a casa, temo di non riuscire a dormire, come mi capita da mesi a questa parte. Tanto più che non sono a casa mia e che dormo per terra. E invece mi addormento come un bambino e dormo filata per otto ore, cosa che non succedeva da millenni. Paolo la mattina mi sveglia con dei dolci calci nei reni.
Venerdì è una giornata speciale, perché sarà giorno di doccia. Dovremo chiedere asilo nientemeno che a Marco Benoit Carbone, che in effetti un po’ fa paura, ma poi passa. Mangio una mela a colazione, perché sono salutista, poi ci scofaniamo due etti a testa di pasta alla carbonara io, Paolo e le coinquiline ventenni, seduti sul tavolino del cortile, sotto il sole e le frasche dell’albero. Sembra di essere al mare, io porto le palette e tu il secchiello?
Commetto l’errore peggiore del viaggio: gioco a Wario Ware sul DS e decido che la mia vita deve essere così, una serie inutile e convulsa di minigiochi insensati.
Nel pomeriggio, prima del fatidico momento doccia, Paolo mi porta in un parco lì vicino. Un parco enorme. Finge ancora di perdersi, sempre per rendere movimentata una strada dritta, e arriviamo in questa riserva naturale piena di nanetti urlanti di 5-10 anni, di esseri brufolosi di 12-17 anni e di subumani coi bonghi dai 19 in su.
Ci sdraiamo su un prato, parliamo di cose capitali quali Nintendo, il fatto che io VOGLIO IMMEDIATAMENTE il DS con Wario Ware e Mario Kart per giocare wireless con Paolo da casa mia, ovunque lui si trovi, e, ascoltando la colonna sonora di Old Boy (gentilmente fornita da mio padre, grazie papà ), ci addormentiamo. O meglio, io fingo di addormentarmi per fotografare Ruffino che dorme.
Andiamo a una mostra di Pop Art su fumettisti per me ignoti, ma in una bellissima galleria chiamata Ta Matete piena di libri enormi e di edizioni pregiate di roba contemporanea e con una stanza molto lynchiana con un orologio enorme e drappi e filmati inquietanti e privi di senso e una tavola rotonda.
Dopo aver attraversato Bologna a piedi, arriviamo da Marco Benoit e reclamiamo una doccia. Mentre Paolo si lava, io assisto a un unplugged a me dedicato di Marco e del suo bassista che mi cantano una canzone su “una brava ragazza che lo vuole in culo” (traduco liberamente il testo con i miei soliti francesismi). Resto piacevolmente stupita, ma anche Marco si impressiona quando parlo di odio per l’umanità e quando auguro alla Clerici che pattina sul ghiaccio di morire dissanguata con il cranio spezzato e il pubblico che applaude. La pizza faceva schifo, però il dopocena è stato ottimo: al radical-chic et social-popolare cinema Lumiére assistiamo a una proiezione gratuita di Manhattan di Woody Allen, ridendo di gusto alle battute di un frustrato psicopatico ma geniale sessuomane.
E’ a questo punto che Paolo se ne esce con la frase che coronerà la giornata successiva e che servirà da incipit per tutte le discussioni successive.
“Devo andare qualche mese a New York. Ormai per forza. Capisci, per forza”.
Perché hanno ripristinato voli low cost diretti Bologna-NY.
Perché ormai “questa città mi ha dato tutto quello che poteva…”
E quindi partono piani malvagi per trovare un motivo ufficiale e socialmente accettabile per eseguire il quinto trasloco dell’anno da un continente all’altro.
Io spero che vada, così poi mi auto-invito a casa sua anche lì.
Ancora birra in Piazza Santo Stefano, meno bonghi e più canne, la rivista della facoltà di Paolo, “pe_Rizoma” (sì, stanno male, ma fanno anche ridere, perdonateli) e poi passeggiata a casa per addormentarmi ancora come un sasso dopo tre pagine di quel famoso libro di merda nero e rosa su Virginia Woolf che ho citato righe e righe fa. Dormo e sogno lo Snark di Carrol che leggerò il giorno dopo, sogno Los Angeles e un ragazzino che deve intervistare Kyle e Jeremy, sogno il vino rosso e mille storie che la mattina mi dimenticherò ma che sicuramente erano bellissime.
Ci svegliamo a mezzogiorno di sabato, e io ho dormito come un sasso per la seconda notte. Forse sono uno zingaro o un povero e non lo so. Fatto sta che il pavimento lo preferisco, a quanto pare.
Sabato è giornata di studio, Paolo affronta insulsi libri di logica in cui Pluto è il cane di Topolino e Pippo è un cane quindi Pippo è un cane di Topolino, oppure Pippo ama Topolino, che però ama Minny, che però in realtà è suo padre. Cose così.
Io decido di fare la donna di casa e di provvedere al pranzo. Per non insospettire Paolo però gli dico “Caro esco a comprare le sigarette” e gli prometto di tornare.
Compro due panini da mezzo chilo l’uno, due etti e mezzo abbondanti (“Che faccio, signorì, lascio?”) di mortadella bolognese DOC e un po’ di formaggio piccante. Torno e pranziamo con ingordigia nel cortile, sul tavolo, assaporando il panino alla mortadella più buono degli ultimi due anni, bevendo birra e facendo invidia a tutti i muratori della zona.
Nel pomeriggio Paolo continua a studiare, io invece scrivo avvinta il mio soggetto per i Racconti di Torino, quelli illustrati con i protagonisti che hanno bisogno o di morire o di trovare motivazioni, poi mi leggo The Hunting of the Snark di Lewis Carroll, gioco ancora a Wario Ware continuando a pensare che quello è il VERO senso della vita e poi ci rituffiamo in peregrinazioni per Bologna, prendendo altri mille autobus infrangendo la legge (mioddio come mi sento eversiva). C’è una deludente festa in centro, tanta gente, fuochi d’artificio che partono da gente sui trampoli, Marco Benoit Carbone e la sua ragazza Isabella che vagolano con noi nella notte, in Via del Pratello, bevendo birra e parlando della frigidità di alcune assistenti universitarie.
Marco e Paolo dissertano sulla dispendiosità della Next Gen e su altre questioni capitali che non sento, visto che sono impegnata a fotografarli di spalle.
Piove, e ringrazio i magici portici di Bologna che ci riaccompagnano a casa sani, salvi e asciutti.
E’ l’ultima notte che dormo a Bologna, resterò sveglia e penserò a tutto quello che è successo, raccoglierò le emozioni in tranquillità per meditare su quello da scrivere… TONF. Ricrollo sul mio pagliericcio senza battere ciglio.
L’ultima mattina, invece dei calci Paolo mi fa il caffé e me lo porta quasi in camera, se non che mi alzo mia sponte e lo incrocio davanti al frigo-armadio del corridoio, non lo riconosco perché senza lenti non vedo niente e gli dico “Grazie buonuomo”.
Ammucchio i miei vestiti con ordine svizzero, raccolgo i caricatori, cerco di rubare uno o due libri dallo scaffale di Paolo, poi penso che non se lo merita e lo saluto. Lui, incautamente, mi dice di tornare quando voglio. Non sa che lo prenderò alla lettera.
Fuori il cielo è bianco-grigio, io ho lo zaino in spalla e la solita colonna sonora di Old Boy nelle orecchie. Faccio qualche foto, cammino allegra per la città che ormai conosco un pochino, non so bene perché sono felice. Forse per il bel tempo trascorso. Per le chiacchiere.
Forse perché ho voglia di rimettermi a studiare come quando ero all’università e poi penso che all’università ci sono ancora e che ora per studiare mi pagano.
O forse perché sull’autobus ricevo una telefonata.
“Ciao!
Sì anche tu mi manchi.
Vengo mercoledì, ok?
Ma com’erano Kyle e Jeremy dal vivo?
Ah, fighi come sembrano?
Ah, mi hai preso un regalo?
Sì…
Sì…
Sì, anche io…”
Post-scriptum per Paolo (ma non ti arrabbiare): ti devo confessare che sull’ultimo autobus su cui sono salita ho pagato il biglietto. Volevo vedere com’era. Niente di che. E non è nemmeno passato il controllore. Come tutte le altre volte, d’altra parte…
Ma ora la pago: è notte e mi aspetta il mio letto e, ovviamente, non riesco a dormire. Ora prendo il sacco a pelo e il tappetino. Magari funzionano…
Last – Altre chicche importanti
1- il coniglietto di Gatsu sui cartelloni comunisti per strada
2- Unicredit Banca e i suoi sicurissimi e funzionali sportelli bancomat (con Windows XP impiantato)
3- “Io mi faccio le foto da sola“