Cao Baoping crede nell’amore dolente, tragico. La sofferenza è il motore dell’uomo, secondo lui, e tutte le nostre azioni sono tentativi disperati di raggiungere una felicità a cui però non siamo destinati. Per questo tutto il film drammatico The Equation of Love and Death ruota intorno a una giovane tassista che approfitta del suo lavoro fortemente a contatto con la gente per cercare il suo fidanzato, scomparso nel nulla quattro anni prima.
Il film ha numerosi pregi, tra cui quello di essere chiaro e di concentrarsi su personaggi ben definiti, che aiutano lo spettatore a entrare in sintonia con le loro motivazioni. Il finale è forse un po’ confuso, con motivazioni di cui non sono sicura di aver compreso l’origine e con un esito decisamente inutile. Il voto che ho dato a questo film, però, è basso, e il motivo è ideologico. Probabilmente la mia opinione non è abbastanza attendibile e non voglio che questa osservazione sembri categoria, ma quello che ho percepito mentre guardavo il film è stato inequivocabile. Il regista Baoping ha avuto non pochi problemi nell’esportare Trouble Makers, in cui denuncia la corruzione capillare all’interno della società cinese e, probabilmente, non ha voluto ripercorrere la stessa strada di difficoltà e ha deciso di aderire a quello che io interpreto come un terribile compromesso. La trama del film prevede un’indagine, in cui viene coinvolta anche la polizia: ora, il ritratto che il regista fa della polizia cinese è a dir poco imbarazzante: agenti gentili, al limite del sottomesso, enormemente comprensivi verso la protagonista che, in preda a crisi isteriche, li getta a terra, li aggredisce, toglie loro le sigarette dalle mani con arroganza. Il comportamento degli agenti, in generale, è assimilabile a quello di un “padre buono” che osserva con dispiacere e tolleranza i capricci del figlio in fasce. Purtroppo, per quanto poco informata, non credo che questa sia la reale natura della polizia cinese. Continuamente, nella pellicola, da quando compare la polizia, la mia attenzione è stata totalmente veicolata a quegli scambi di battute (peraltro secondari), a quelle scene d’azione, a quei momenti di silenzio il cui unico scopo era quello di sottolineare ancora e ancora la natura magnanima del corpo di polizia. Le motivazioni del cittadino sono al primo posto. La dignità dello stato è messa in secondo piano rispetto ai sentimenti dei protagonisti. Certo, c’è sempre un’integerrima onestà da parte di tutti i poliziotti, ma anche una profonda e umana comprensione.
Posso capire le difficoltà del vivere in uno stato che pratica una censura così feroce.
Posso comprendere la volontà del regista di fare liberamente il suo lavoro e di parlare con il mondo, scendendo a compromessi nel suo paese e facendo una “marchetta” (peraltro, palesemente esagerata e quasi dissacrante) al regime.
Quello che non riesco a capire è come tutto ciò possa passare sotto silenzio.
Se fare film (così come scrivere, dipingere, come ogni forma d’arte o di comunicazione) significa semplicemente confezionare un prodotto e accettare tutti i compromessi possibili pur di arrivare a venderlo, allora non posso giustificare il regista, che ha sicuramente deciso di fare di tutto perché la sua storia raggiungesse il mondo (e questo, di per sé, è un bene) svendendo però i propri personaggi e la propria ideologia, nonché la spinta di dissidenza verso il regime che, in quanto artista di fama internazionale, possiede.
Se, invece, fare film e fare arte e comunicare significa dire quello che si ritiene eticamente giusto, sfruttare la propria posizione di potere non per lodare il sistema ma per cercare di cambiare quello che secondo la nostra coscienza ci sembra non funzionare, allora questo film è un fallimento totale, perché la storia d’amore drammatica in sé non è abbastanza forte da giustificare il compromesso della “sviolinata” alle forze dell’ordine cinesi.
Perché sì, ci sono storie che sono così forti da reggere anche terribili compromessi, ma questa non è una di quelle.
Magari la prossima volta andrà meglio.
Voto: 2 su 5