Far East 2009 – Fiction

Fiction

Che il cinema Indonesiano abbia dei problemi, questo si sa. Forse lo tsunami, forse tutta quell’umidità , non saprei. Eppure sembra un bel posto. Comunque. Fiksi (Fiction, in inglese) è l’ennesima storia di un amore ossessivo, di un rifiuto, di una mente distorta nel corpo di una bella ninfa intelligente e artisticamente dotata.

Questo in teoria.

In pratica, Fiction è la storia di una figlia di papà  traumatizzata dal suicidio della madre che decide di fuggire dalla bambagia in cui è stata tenuta per anni e di sperimentare la vera vita in un casermone popolare. Personaggio stereotipato come più non si potrebbe, Alisha è attorniata da altri personaggi altrettanto prevedibili, scontati e con un destino chiaramente segnato fin dall’inizio: la morte. Tutti quanti, infatti, devono morire per permettere allo scrittore geniale che partorirà  le storie da cui è tratto il film stesso (metareferenzialità  da bar, purtroppo) di trovare una degna conclusione per ognuno dei suoi racconti.
Il film è un buon tentativo di fare qualcosa di vendibile e, probabilmente, in parte originale, ma purtroppo fallisce nel suo intento: è scontato, prevedibile, piatto e addirittura noioso. Le scelte di musica e audio, tanto incensate dalla critica, si sono rivelate piuttosto fastidiose e anziché sottolineare il pathos e la suspense sortivano l’unico effetto di innervosire. Probabilmente anche il livello dell’audio, troppo alto, in sala, non ha aiutato…
Voto: 1 su 5 nonostante l’impegno

Far East 2009 – 4bia

4bia

Il bello del Far East è che ti fa ricredere, sempre e continuamente.
Parlavo dello “squallore” annunciato dell’horror day? Beh, mi sbagliavo.
Per 4bia avevo diversi pregiudizi:
1- è un film horror tailandese, brividi
2- quelle simpatiche canaglie dei veneti che mi accompagnano in questa avventura mi hanno spiegato che “forbìa” in veneto significa “pulita”. Per cui io mi immaginavo un film su dei filippini che fanno le pulizie
3- è un altro film a episodi e, dopo Takut: Faces of Fear del pomeriggio mi sentivo lievemente preoccupata

Paura eh?
E invece no.
O meglio, sì. Paura di quelle belle, da film dell’orrore che ti fa saltare e abbracciare lo sconosciuto vicino, di quelle che “tanto me l’aspetto” ma che poi alla fine non riesci a resistere e lanci un piccolo urlo effeminato sperando che nessuno ti senta.
A parte il secondo episodio (bullismo scolastico sconfitto con la magia nera che, tuttavia, non lascia vincitori), le quattro storie sono raccontate in modo veramente efficace. Come ogni buon horror, 4bia fa leva su contesti ben conosciuti ed emozioni ben note allo spettatore: la paura di una casa al buio e di un cellulare che continua a squillare, una nottata in campeggio, un volo aereo decisamente inquietante.
Le storie sono semplici ghost stories che fanno leva su situazioni e paure ben conosciute da chi guarda (inaspettati scambi di SMS con uno sconosciuto, una tranquilla notte in campeggio, un volo aereo un po’ turbolento) e, nonostante il target giovane e la semplicità  del “pacchetto”, 4bia mi ha fatto ampiamente rivalutare il cinema thailandese e, in particolare, la giornata horror del Far East Film. Come se fosse possibile avere dei dubbi 🙂

Voto: 3 su 5

Far East 2009 – Departures

Departures

Gli americani sono dei puzzoni, ma non tutti, ovviamente.
Sicuramente non quelli che hanno scelto il film straniero vincitore degli Oscar 2009.
Chi mi conosce sa che ci sono tematiche che sono un punto fisso nella mia vita e che devo ancora trovare il modo di raccontare davvero nelle mie storie, anche se ogni volta che scrivo un racconto sto un po’ meglio, piango, rido e tutto intorno…
Dire che la morte è come un viaggio, un cancello verso qualcosa di nuovo, non è qualcosa di particolarmente originale e, peraltro, non è nemmeno qualcosa in cui credo davvero. Anzi. Penso che con la morte finisca tutto. Però la morte è sicuramente una parte inevitabile della vita dei vivi, ed è questo che in Departures mi ha insieme straziato ed emozionato. Perdere il proprio padre, che sente il cuore come un macigno eppure “parte”, non ricordare più il suo volto, non riconoscerlo nemmeno quando lo si vede, tutto questo fa parte della mia “storia” interiore e mi sorprende sempre scoprire che c’è qualcuno, dall’altra parte quasi esatta del mondo, che prova le mie stesse senazioni e che viene travolto dai miei stessi pensieri.
Mai come in questo caso, l’atto di piangere è stato catartico. Piangere, ovviamente, nei momenti più impensati, nei momenti magari “sbagliati”, però i film orientali mi hanno insegnato che è sempre il momento giusto per piangere, se ti commuovi.
Quello che invidio ai personaggi di questo film e, in particolare, al protagonista è di aver trovato il suo posto nel mondo, di aver smesso di dibattersi inutilmente senza però rassegnarsi, senza farsi sconfiggere, lasciandosi andare lentamente alla felicità  nascosta nello scoprire quello che si è, nell’accettarlo e nell’amarlo.
Ridere lievemente delle piccole e buffe coincidenze della vita.
La cucina e l’amore per il cibo.
La disarmante verità  per cui “we eat the dead to live”.
La dignità  acquisita attraverso i fatti e non per mezzo di lunghe, verbose e inutili giustificazioni.
Departures è un film intenso che probabilmente merita una seconda, una terza, una quarta visione, ma io non sono sicura di farcela. Non perché sia troppo straziante, ma perché è un film così perfetto che mi ha parlato chiaramente già  la prima volta. La colonna sonora, in particolare, è una chicca. A dire la verità , c’è un passaggio di questa musica che ogni volta che arriva mi fa scoppiare in singhiozzi più o meno trattenuti.

Non voglio che sembri che piango per qualunque cosa. O meglio, nella vita è così, ma non al cinema. La maggior parte delle volte nonostante la willing suspension of disbelief, resto più o meno impassibile. E’ una realtà , però, che la quasi totalità  dei film che mi hanno fatto e che mi fanno tuttora piangere sono giapponesi, cinesi e coreani (non posso non menzionare Old Boy). Piangere in un contesto pubblico è ormai così desueto che ogni volta che mi succede lo ricordo con esattezza. Piangere al cinema è più socialmente accettato, ma comunque mi accorgo di essere quasi sempre l’unica che ha le guance rigate e gli occhi così rossi che sembra mi sia morto un parente stretto.Con Departures, però, tutta la sala era evidentemente commossa. E’ stato come un rito: scoprire la verità  e piangere, di amarezza e di gioia insieme.
Quindi, sicuramente Departures è un film legato alla vita, alla morte, al pianto e alle risate, ed è bello, ancora, a trent’anni, rifugiarsi in un nascondiglio così accogliente come una sala cinematografica e sapere che ne puoi uscire, se non proprio sconvolta, almeno totalmente commossa ed emozionata.

Voto: 5 su 5

Far East 2009 – Takut: Faces of Fear

Takut: Faces of Fear

Ogni anno sappiamo in anticipo che l’Horror Day del Far East si chiama così non perché proiettino film dell’orrore, ma perché i film sono orribili. Si salvano, di solito, le proiezioni serali delle 20, 22 e mezzanotte, in cui i film in effetti sono fatti ad arte per farti saltare sulla poltrona.
Ma alle 16 di pomeriggio, “Takut: Faces of Fear”, film a episodi girato in Indonesia, era effettivamente come ci aspettavamo: terrificante e raccapricciante e non in senso buono.
A partire dal filmato iniziale in computer grafica, chiaramente privo di una direzione artistica, in cui appaiono un’accozzaglia informe di stereotipi del terrore (insetti, sangue che cola dalle pareti, mostri informi che divorano donne, uova (???), stanze fatiscenti, e così via, il tutto ovviamente BRUTTO), passando per le storie inconcludenti e banali, arrivando agli attori che, eccezion fatta per qualche bella gnocca, erano tutti indonesiani bruttini, bassi e inespressivi, il risultato del film era un insieme di sei episodi di cui solo l’ultimo, “Dara”, si poteva definire veramente di qualità .
Uomini che si fanno spaventare dalle nipotine, ragazze destinate a essere la reincarnazione di stocazzo (nel senso che non si capiva da chi e perché venivano possedute), zombie famelici con la plastilina rossa in faccia (giuro), guardoni a cui vengono strappati gli occhi (sì, è uno spoiler, spero che non lo vediate mai).
Solo “Dara”, dicevo, merita una menzione speciale. La storia non è particolarmente originale (bella donna gestisce un ristorante. Come tutti sanno, la carne migliore è quella umana. Lei, essendo gnocca, se la procura invitando sventurati maschi nella sua magione ed eviscerandoli con una sega elettrica, prima di smembrarli con cura), ma la protagonista, la regia, la fotografia, alcune interessanti trovate gore rendono il tutto godibile e diverse spanne al di sopra degli altri cinque corti.

D’altra parte, lo ripeto, l’horror day non è mai un granché. Ma mai dire mai. E poi ieri, tra The Way We Are e Departures sono partiti due 5. Direi che la qualità  non manca. E, per fortuna, c’è anche un po’ di sano e comico horror-pulp.

Voto: 1 su 5
Voto per “Dara”: 3 su 5

Far East 2009 – Rough Cut

Rough Cut

Gangster movie in cui l’azione (e la fighezza) fa da protagonista su cui non spenderò troppe parole, non perché non le meriti ma perché mi rendo conto di non avere gli strumenti per commentare come si deve i film d’azione.
Godibile per la parte action, molto divertente il contesto meta-referenziale (nel film si gira un film), un po’ meno significativo per i discorsi incrociati sul significato del recitare e del vivere.
L’idea è godereccia: che succederebbe se invece di prendere un bravo attore, per una parte da gangster violento e prevaricatore, si scegliesse invece un gangster violento e prevaricatore vero? Era divertente pensare che – forse – come nella finzione i due attori protagonisti se le davano per davvero, anche nella realtà  del film era successo lo stesso. D’altra parte, però, se io fossi stata malmenata come quei due avrei riportato danni ben più gravi di qualche escoriazione in viso e di un labbro spaccato.
Non sono una fanatica di film d’azione, tanto che non riesco a dire molto più di questo su Rough Cut che resta un godibile film con un attore decisamente gnocco (il gangster vero), tante buone botte (d’altra parte, qualcuno ci insegna che per far colpo sulle donne ci vogliono “minchia, minchia, minchia e botte”) e qualche ambizione di troppo sul senso della vita.

Voto: 3 su 5

Far East 2009 – The Way We Are

The Way We Are

Doveva esserci, prima o poi, un film che mi avrebbe fatto smettere di dire “Vecchi di merda”. Quel film è The Way We Are, perché Hong Kong riserva sempre queste perle un po’ amare ma non troppo, al confine tra personaggi che sembrano indifferenti e piatti e un tumulto di emozioni che si agita nel loro cuore. Come in My Name Is Fame, che nel Far East 9 del 2007 mi aveva strappato silenziose lacrime in sala.
Anche quest’anno il primo film che mi ha fatto piangere in silenzio e asciugare le lacrime (e non solo) sulla manica corta della mia maglietta è stato un film dei finti cinesi, della regista Ann Hui che ovviamente non conoscevo ma che sembra una diquelle donne che raccontano storie (di donne, di uomini, di esseri umani) senza sfociare in un melenso femminismo o in un sentimentalismo fatto di grandi gesti.
D’altra parte, non ci possono essere grandi gesti nela vita di una vedova di cinquant’anni che vive vicino a Hong Kong, a Tin Shui Wai, citta che definire “quartiere dormitorio” è un complimento. Una casa logora, con le porte e i muri scrostati, le sedie scompagnate e le lenzuola di Topolino e Minnie nel letto sia della madre che il figlio sono la metafora della vita della protagonista, che vive lavorando in un supermercato e sembra leggera e indifferente nei confronti di una vita evidentemente squallida e solitaria. Il figlio è un ragazzo annoiato, ma l’autore e la regista hanno ben pensato di non trasformarlo nel solito disadattato che, in mancanza di una figura di riferimento paterna forte (suo padre è in effetti morto) si trasforma in un piccolo teppista delinquente. Il ragazzo è silenzioso, ordinario ma gentile. A entrambi i personaggi, madre e figlio, manca chiaramente qualcosa. C’è un vuoto strano, in quella casa stretta, in quella tavola che sembra essere a misura delle loro cene, in questa loro vita a misura di tutto e di niente insieme, perché fanno tutto quello che si deve fare – cucinare, lavare i panni, stendere, pulire, leggere il giornale – ma ogni gesto sembra veramente compiuto solo nell’attesa del giorno dopo, della sera in cui si andrà  a dormire e dell’alba in cui si andrà  ancora al lavoro. L’incontro con quella che io avrei definito una “vecchiah” (con “h” enfatica e aspirata alla fine) chiamata Granny, che ha perso il marito prima e la figlia poi, restando isolata dal mondo a osservare una città  in cui è dispersa, da un letto sfatto accanto a una finestra, questo incontro, dicevo, serve ai protagonisti per riempire un po’ delle loro giornate, stando insieme a una persona che è sola come loro ma che, come loro, ha la dignità  di chi sa convivere con la propria solitudine e, in generale, con la propria vita.
Che poi i momenti più toccanti sono quelli in cui i personaggi mostrano dei lampi di consapevolezza al limite della disperazione ma mai troppo appariscente, in cui usano gli occhi per piangere – da soli – o in cui usano gli occhi per guardare un mondo che sembra così difficile. Anche i letti delle due donne, che pur sono piccoli, rimarcano continuamente l’assenza di due uomini al loro fianco.

Cosa mi ha insegnato questo film? Cosa mi ha ricordato?
Che bisogna sempre portare cose buone da mangiare alla propria nonna malata in ospedale (e meno male che l’ho fatto, quando è stato il mio turno). Che si può piangere in silenzio, guardando fuori dal finestrino di un autobus, o voltandosi di più verso lo schermo, con l’oscurità  che ti copre. Due ricette che proverò di sicuro: riso con uova e piselli spiluccati da una ciotola con le bacchette e riso con i funghi, quelli secchi con la capocchia molto grande, il tutto sempre accompagnato da strane verdure che se vedrò saprò riconoscere. Che si può ancora raccontare storie di donne senza parlare di femminismo o di quanto siamo brave a cavarcela da sole: la solitudine si sente, siamo esseri umani, dobbiamo solo imparare ad affrontarla, un passo alla volta, una cena alla volta, fino a quando quel posto vuoto (a tavola, ma anche fuori) verrà  riempito da qualcuno di inaspettato.

Voto: 5 su 5