
Gli americani sono dei puzzoni, ma non tutti, ovviamente.
Sicuramente non quelli che hanno scelto il film straniero vincitore degli Oscar 2009.
Chi mi conosce sa che ci sono tematiche che sono un punto fisso nella mia vita e che devo ancora trovare il modo di raccontare davvero nelle mie storie, anche se ogni volta che scrivo un racconto sto un po’ meglio, piango, rido e tutto intorno…
Dire che la morte è come un viaggio, un cancello verso qualcosa di nuovo, non è qualcosa di particolarmente originale e, peraltro, non è nemmeno qualcosa in cui credo davvero. Anzi. Penso che con la morte finisca tutto. Però la morte è sicuramente una parte inevitabile della vita dei vivi, ed è questo che in Departures mi ha insieme straziato ed emozionato. Perdere il proprio padre, che sente il cuore come un macigno eppure “parteâ€, non ricordare più il suo volto, non riconoscerlo nemmeno quando lo si vede, tutto questo fa parte della mia “storia†interiore e mi sorprende sempre scoprire che c’è qualcuno, dall’altra parte quasi esatta del mondo, che prova le mie stesse senazioni e che viene travolto dai miei stessi pensieri.
Mai come in questo caso, l’atto di piangere è stato catartico. Piangere, ovviamente, nei momenti più impensati, nei momenti magari “sbagliatiâ€, però i film orientali mi hanno insegnato che è sempre il momento giusto per piangere, se ti commuovi.
Quello che invidio ai personaggi di questo film e, in particolare, al protagonista è di aver trovato il suo posto nel mondo, di aver smesso di dibattersi inutilmente senza però rassegnarsi, senza farsi sconfiggere, lasciandosi andare lentamente alla felicità nascosta nello scoprire quello che si è, nell’accettarlo e nell’amarlo.
Ridere lievemente delle piccole e buffe coincidenze della vita.
La cucina e l’amore per il cibo.
La disarmante verità per cui “we eat the dead to liveâ€.
La dignità acquisita attraverso i fatti e non per mezzo di lunghe, verbose e inutili giustificazioni.
Departures è un film intenso che probabilmente merita una seconda, una terza, una quarta visione, ma io non sono sicura di farcela. Non perché sia troppo straziante, ma perché è un film così perfetto che mi ha parlato chiaramente già la prima volta. La colonna sonora, in particolare, è una chicca. A dire la verità , c’è un passaggio di questa musica che ogni volta che arriva mi fa scoppiare in singhiozzi più o meno trattenuti.
Non voglio che sembri che piango per qualunque cosa. O meglio, nella vita è così, ma non al cinema. La maggior parte delle volte nonostante la willing suspension of disbelief, resto più o meno impassibile. E’ una realtà , però, che la quasi totalità dei film che mi hanno fatto e che mi fanno tuttora piangere sono giapponesi, cinesi e coreani (non posso non menzionare Old Boy). Piangere in un contesto pubblico è ormai così desueto che ogni volta che mi succede lo ricordo con esattezza. Piangere al cinema è più socialmente accettato, ma comunque mi accorgo di essere quasi sempre l’unica che ha le guance rigate e gli occhi così rossi che sembra mi sia morto un parente stretto.Con Departures, però, tutta la sala era evidentemente commossa. E’ stato come un rito: scoprire la verità e piangere, di amarezza e di gioia insieme.
Quindi, sicuramente Departures è un film legato alla vita, alla morte, al pianto e alle risate, ed è bello, ancora, a trent’anni, rifugiarsi in un nascondiglio così accogliente come una sala cinematografica e sapere che ne puoi uscire, se non proprio sconvolta, almeno totalmente commossa ed emozionata.
Voto: 5 su 5