Quando ho la febbre…

… sto sempre nello stesso modo. Prima mi viene da piangere e non capisco perché, è come se il mondo stesse per finire. Una sensazione netta e precisa, ma che ogni volta mi frega e mi sembra solo di essere triste.

Poi è sempre buio. Buio come le sette di sera quando stavo male da piccola e mia madre tornava tardi dal lavoro e io restavo con la nonna. Quando stavo male, guardavo tantissima TV. Più del solito. E la sera arrivava presto, troppo presto, anche alle cinque a volte, e dalle cinque alle sette era tutto così strano. Buio, nero, sembrava notte e mia mamma non c’era e io stavo male e mi sentivo un po’ sospesa, ma avevo qualcosa di preciso da aspettare, che lei con i suoi tacchi ovattati e le calze di nylon chiare, un profumo sempre uguale e il foulard di seta viola screziato tornasse e mi desse un bacio e mi facesse passare la febbre.

E poi ci sono i giganti. Quando la febbre è alta, ma alta davvero, sento come la presenza di un essere enorme, dalle mani giganti, con la barba, che mi osserva dalla porta della stanza. Sempre. E poi è anche un po’ come se ci fosse qualcosa di enorme, che però non è una persona, ma un’idea, che mi attanaglia, e non importa se mi giro sul fianco sinistro e cerco di non vederla. Lei sta sempre lì, con il suo gigantismo disagevole.

La fine del mondo. Il buio. I giganti. Questo è quello che mi accompagna quando ho la febbre.

Ora, perché ne scrivo? Perché da qualche giorno non ho la febbre, eppure mi accompagna la fine del mondo e il buio. Ogni tanto – ma solo una o due volte – anche i giganti. E io non capisco cosa significa, perché a parte il raffreddore sto bene, non ho la febbre e sono alquanto “conscia”. Però loro sono lì. Il buio, ad esempio, adesso è qui fuori dalla finestra, e mi guarda, e mi ha anche fatto dimenticare che ore sono. Mi sembra un momento eterno prima di cena, dalle 19 alle 20, in cui sono in camera e aspetto.

O la fine del mondo. La fine del mondo è qui, hanno ragione quei predicatori pazzi che a L.A. se ne stanno con un cartello in mano ai bordi delle strade ad avvertire tutti. Loro hanno capito, hanno capito che il mondo è finito. Certo, il pacco è che non sanno come spiegarlo. Anche io, ad esempio, me ne sto qui al margine di una strada virtuale a gridare continuamente che moriremo tutti, che il mondo è finito, che l’apocalisse è vicina, e però non è che so spiegare esattamente perché. Quindi forse mi prendono per pazza. Non che mi interessi un granché.

Sarà  forse per colpa dei giganti. Queste presenze che sembrano protettrici e che invece forse sono cannibali, che aspettano un minuto in più che tu abbassi la guardia, che la febbre salga di un grado, che la forza diminuisca di un joule, per aggredirti e strapparti anche la pelle, dopo che ti hanno tolto tutto quello che avevi intorno. Non so se sono davvero cattivi, i giganti, so però che sono lì che mi guardano da sempre, e non so che farci con loro, perché almeno fossero un qualcosa da combattere, imbraccerei le armi e saprei cosa fare, invece sono lì zitti, e magari sei tu che ti sbagli, magari la stronza sei tu che pensi sempre male. E quindi non fai niente. Niente di niente. Il peggio.

Forse sto impazzendo sul serio. Forse la mia mente si è stancata di aspettarmi e si sta psicanalizzando da sola, come può.

Mi chiamo Valentina e sono incatenata alla mia roccia di Prometeo da tre cose: la fine del mondo. Il buio. E i giganti.

Il mio “programma”

Sono anni, da una chiacchierata delle nostre nel giorno di Natale, quando c’era ancora il Pietro, sono anni che quando scrivo qui penso che nemmeno questa volta ho un “programma”. Che è l’ennesimo sbrodolare di parole senza senso, il solito insulso diario online, e che invece gente come Calvino, come la Dickens, come la Wolf, come chiunque fosse un vero scrittore, ecco loro avevano un programma. Erano partiti da un punto e volevano arrivare a un altro punto e hanno “remato” con la penna per tutta la vita.

Io invece mi siedo colpevole dietro la mia comoda tastiera e scrivo cose a casaccio, con questo peso sul cuore di non sapere dove sto andando, che storie sto raccontando, perché.

E’ per questo che ho sempre paura di morire, perché non riesco ad essere significativa. Non significativa per il mondo, intendo per me stessa.

E’ per questo che per me la gente è insignificante. Tutti con i loro album di nozze, con le loro feste per rimarcare con amici e parenti la felicità  conquistata, le vacanze, i Natali passati, la poesia degli sguardi… Per me sono carne insignificante che si aggira per il mondo, credendo di valere qualcosa e invece non valete un cazzo di niente. Avete capito? Un cazzo di niente. Voi e i vostri vestiti per l’occasione giusta, voi e il vostro Faccio questo lavoro da trent’anni, voi e la banalità  delle vostre facce.

Perché tutti si dovrebbero accorgere che sono sbagliati. Che sono incompleti, ridicoli, ottusi, conformisti. Che non hanno un programma. Che non stanno lasciando nessun segno.

Che vivete in case da milioni di euro o in appartamenti angusti nella periferia di Milano, che passate la vita a fare i passacarte, i burocrati, gli impiegati, i ricercatori e fate pena, fate, nel vostro essere così convinti che tutto abbia un senso. Andate a messa, pregate il Signore, fate volontariato. Comprate i vestiti ai saldi, comprate i vestiti a Roma perché costano di meno, leggete Il cacciatore di aquiloni e lo trovate un bel libro, ecco voi, sì proprio voi mi fate pena. E non sono migliore di voi. Solo che non capisco come facciate a non vedere il vostro essere insignificanti. Non capisco quanto bisogna essere egoisti ed egocentrici per essere davvero convinti di stare facendo qualcosa di importante, anche solo di sensato, di passabile, di decente.

Io un programma non ce l’ho. Ho solo questa sensazione che sta andando tutto a rotoli, che il mondo è finito e noi stiamo ancora qui a mandare cazzo di curriculum vitae cercando un lavoro, e non ci sono più lavori, non c’è più niente. Non ci sono più sogni, perché quando hai fatto la brava tutta la vita, trent’anni di inutile vita, e ti ritrovi ancora che non ce la puoi fare da sola ti ritrovi a dover pensare Vaffanculo, io lo faccio e se poi non ci riesco qualcuno mi parerà  il culo, quando hai lavorato, hai studiato, tanto e bene, ti sei impegnata, ci hai provato e no, non funziona, non funziona mai da nessuna parte, e ci sono articoli di giornale con i pallini colorati sbagliati e un sacco, UN SACCO di bugie scritte dentro e tu ti arrabbi e fai le polpette di melanzane perché nessuno ti veda e porca merda non hai un cazzo di programma, non hai un’idea di come uscire da tutto questo e non puoi nemmeno decidere il nome di un cazzo di gattino… Ecco allora capisci che è tutto finito. Che non c’è speranza. Non c’è speranza, niente da fare, il mondo è finito e non ce ne siamo accorti, è come nei film in cui muori ma non lo sai e giri da fantasma nel tuo ex-mondo e nessuno ti vede, e non riesci a toccare le cose, e non riesci a far sentire la tua voce, e sei da solo in mezzo a tutti gli altri e vai fuori di testa.

E anche scrivere tutte queste cose al nulla, al niente, a gente che nel migliore dei casi farà  finta di nulla, nel peggiore fingerà  di interessarsi a come sto per 5 minuti, a cosa serve? Non serve a niente.

Quindi no, a distanza di anni ancora non ce l’ho un programma, perché me lo devi spiegare tu come si fa a costruire sulle macerie che ci avete lasciato, come si fa a fare un passo se poi c’è sempre bisogno che ci siate voi a tenerci la mano, come si fa a sognare ancora la notte quando sai benissimo che è tutta una presa in giro. Qualcuno me lo deve spiegare, perché poi da noi ci si aspetta il futuro, ci si aspettano i figli, ci si aspetta di tutto, ma noi non siamo capaci.

E allora almeno smettiamola, per favore, di far finta di essere speciali. Siamo solo forme di vita casuale che cercano modi originali di intrattenersi da qui alla morte. Non c’è niente di speciale. Niente di niente.

Autunno

E io ho voglia di poesia più che mai.

Come in primavera. Più che in primavera.

Ho voglia di poesia, di Chopin e delle foglie dei viali. Viali di ippocastani.

Che poi, sono tutti la stessa cosa.

Dammi il mio giorno (S. Quasimodo)

“Dammi il mio giorno;
ch’io mi cerchi ancora
un volto d’anni sopito
che un cavo d’acque
riporti in trasparenza,
e ch’io pianga amore di me stesso.

Ti cammino sul cuore,
ed è un trovarsi d’astri
in arcipelaghi insonni,
notte, fraterni a me
fossile emerso da uno stanco flutto;

un incurvarsi d’orbite segrete
dove siamo fitti

Foglie morte (N. Hikmet)

“Veder cadere le foglie mi lacera dentro
soprattutto le foglie dei viali
Soprattutto se sono ippocastani
soprattutto se passano dei bimbi
soprattutto se il cielo è sereno
soprattutto se ho avuto,quel giorno,
una buona notizia
soprattutto se il cuore,quel giorno,
non mi fa male
soprattutto se credo,quel giorno,
che quella che amo mi ami
soprattutto se quel giorno
mi sento d’accordo
con gli uomini e con me stesso.
Veder cadere le foglie mi lacera dentro
soprattutto le foglie dei viali
dei viali d’ippocastani.”

Dualismo (A. Boito)

“Son luce ed ombra; angelica

farfalla o verme immondo

sono un caduto cherubo

dannato a errar sul mondo,

o un demone che sale,

affaticando l’ale,

verso un lontano ciel.

Ecco perché nell’intime

cogitazioni io sento

la bestemmia dell’angelo

che irride al suo tormento,

o l’umile orazione

dell’esule dimone

che riede a Dio,  fedel.

Ecco perché m’affascina

l’ebbrezza di due canti,

ecco perché mi lacera

l’angoscia di due pianti,

ecco perché il sorriso

che mi contorce il viso

o che m’allarga il cuor.

Ecco perché la torbida

ridda de’ miei pensieri,

or mansueti e rosei,

or violenti e neri;

ecco perché con tetro

tedio, avvincendo il metro

de’ carmi animator.

O creature fragili

dal genio onnipossente!

Forse noi siamo l’homunculus

d’ un chimico demente,

forse di fango e foco

per ozioso gioco

un buio Iddio ci fe’.

E ci scagliò sull’umida

gleba che c’incatena,

poi dal suo ciel guatandoci

rise alla pazza scena

e un dì a distrar la noia

della sua lunga gioia

ci schiaccerà  col pie’.

E noi viviam, famelci

di fede o d’altri inganni,

rigirando il rosario

monotono degli anni,

dove ogni gemma brilla

di pianto, acerba stilla

fatta d’acerbo duol.

Talor, se sono il demone

redento che s’india,

sento dall’alma effondersi

una speranza pia

e sul mio buio viso

del gaio paradiso

mi fulgureggia il sol.

L’illusion-libellula

che bacia i fiorellini,

-l’illusion-scoiattolo

che danza in cima i pini,

-l’illusion-fanciulla

che trama e si trastulla

colle fibre del cor,

viene ancora a

sorridermi

nei dì più mesti e soli

e mi sospinge l’anima

ai canti, ai carmi, ai voli;

e a turbinar m’attira

nella profonda spira

dell’estro ideator.

E sogno un’Arte eterea

che forse in cielo ha norma,

franca dai rudi vincoli

del metro e della forma,

piena dell’Ideale

che mi fa batter l’ale

e che seguir non so.

Ma poi, se avvien che l’angelo

fiaccato si ridesti,

i santi sogni fuggono

impauriti e mesti;

allor, davanti al raggio

del mutato miraggio,

quasi rapito, sto:

e sogno allor la magica

Circe col suo corteo

d’alci e di pardi, attoniti

nel loro incanto reo.

E il cielo, altezza impervia,

derido e di protervia

mi pasco e di velen.

E sogno un’Arte reproba

che smaga il mio pensiero

dietro le basse immagini

d’un ver che mente al Vero

e in aspro carme immerso

sulle mie labbra il verso

bestemmiando vien.

Questa è la vita! L’ebete

vita che c’innamora,

lenta che pare un secolo,

breve che pare un’ora;

un agitarsi alterno

fra paradiso e inferno

che non s’accheta più!

Come istrion, su cupida

plebe di rischio ingorda,

fa pompa d’equilibrio

sovra una tesa corda,

tal è l’uman, librato

fra un sogno di peccato

e un sogno di virtù.”

E buonanotte al secchio, anche.

Io e il mio amico Machete

Il giorno del mio compleanno mi sono regalata il biglietto per la prima di Black Swan al PalaBiennale, alla Mostra del Cinema di Venezia. Perché tanto sapevo che Giacomo e l’ottimo Gian sarebbero venuti con me senza colpo ferire. E così è stato. D’altra parte, quando si parla di cinema, gite insieme e giornate di chiacchiere e girovagare in completo relax, non ci tiriamo certo indietro, noi, mitico trio del Far East e di goduriose serate cinema-popcorn sempre e comunque.

Ieri è andato tutto liscio, dal cielo che era più blu del blu dipinto di blu, dai vaporetti in orario, al fatto che sono finalmente potuta entrare all’Hotel Excelsior anche se ero vestita come una sempliciotta di campagna, dagli innumerevoli panini mangiati ai VIPs avvistati. Che, a dirla tutta, non è che uno va lì per vedere attori & registi, ci vai a vedere i film, e poi scopri con estremo piacere che c’è Tarantino al bar che beve tranquillo, Stanis che si aggira tutto elegante, Danny Elfmann che rilascia dichiarazioni, Salvatores che sorride. Certo, il tutto era iniziato con Eleonora Giorgi e la Ventura che si facevano intervistare/fotografare, più la tristerrima Marina Ripa di Meana con quel cappello fallico ridicolo. Ma è pittoresco anche quello.

Comunque. Mentre stiamo andando via dall’Excelsior senza aver scroccato nemmeno uno spritz, perché siamo persone discrete, vediamo Denny Trejo che esce dall’ascensore e si dirige verso l’uscita, per andare verso la Sala Grande dove di lì a poco sarebbe iniziata l’inaugurazione. Viene assalito da gente più o meno educata. Gian si fa fare un autografo. Io constato da lontano che è proprio uguale a come appare nei film. Perché quest’uomo non solo è il mitico MACHETE, ma ha anche lavorato con il signorino Michael Mann in “Heat – La sfida”. Insomma.

Usciamo e temporeggiamo un po’, poi io in preda al delirio lascivo di questa bellissima città  che è Venezia decido che voglio delle sigarette e mi tuffo saltellando dentro un tabacchino. Pacchetto da 10 a caso. Frugo nella borsa per trovare il portafogli.
In quel mentre, accanto a me, un tizio parla in inglese con la cassiera: vuole comprare una macchina fotografica usa e getta, ma non ha euro, solo dollari. Un rotolone di dollari, peraltro. Io guardo la cassiera, poi guardo lui. O-MIO-DIO! Ma è MACHETE!

Denny Trejo è di fianco a me. Avrà  mille dollari in mano e la commessa non gli vende una macchinetta da 9 euro. A lui. Che è MACHETE. Voglio dire. Glielo dico anche, in effetti, alla cassiera:

“SCUSI, ma lei non sa che quest’uomo è MACHETE?!” mentre Denny Trejo mi guarda incuriosito.

Niente, la cassiera non demorde. I dollari non li vuole. Allora io che avevo giusto i soldi per le sigarette, esco, chiamo Giacomo il quale, salvifico, arriva e paga la macchinetta a Denny Trejo che, per ricambiare, mi dà  cinque dollari. Me ne voleva dare 20, ma io gli ho detto No sono troppi. E poi gli ho chiesto se quei 5 dollari me li firmava. E lui ha detto “Sì, certo.”

E quindi ora mi ritrovo con 5 dollari con su scritto: “I love you. Denny Trejo – Machete”.

Gli stringo la mano. Mi ringrazia. Gli auguro di divertirsi qui. Mi stringe la mano ancora. Addio, mio amico Machete. So che quando avrò bisogno di un favore, tu sarai lì per me. O almeno mi piace pensarlo.

A parte bullarmi tutto il pomeriggio e tutta la sera per questo evento che verrà  inserito per sempre nella mia mitologia personale, ci siamo visti l’ottimo Black Swan (più un altro film raccapriccio, invece, cinese) e ce ne siamo tornati di notte a casa, concludendo alle 3 con un ottimo panino-merda a Treviso.

Oggi ho un mal di testa formato famiglia, un sonno bestia, devo lavorare come non mai, ma non mi importa, perché “la Forza è con me”: ho i 5 dollari che mi ha lasciato il mio amico Machete, e va tutto bene.

I film, la casa in campagna e il karma…

Siamo in “ritiro forzato” nella casa di campagna veneta, che va presidiata finché i legittimi proprietari sono in vacanza.

Ora, se c’è un posto dove mi piacerebbe avere gli arresti domiciliari, prima o poi, è questo. Centinaia di metri (no, non è un’esagerazione) di giardino/parco con animali notturni e diurni, alberi di ogni sorta e rumori che risvegliano la bambina che è in me (facile, a dire il vero).

Mura di pietra, soffitti di legno, stanze diverse, ognuna con un colore, un odore e uno stile caratteristico.

Silenzio. Letti comodi. Divani ancora più comodi. Silenzio e fruscio delle foglie sugli alberi, o gorgogliare della canaletta per l’irrigazione, qui accanto. Sembra un relais in Toscana, di quelli dove si va a guarire dall’esaurimento nervoso. E invece è semplicemente la casa dei genitori di Giacomo, che si sono fidati (non è la prima volta, a dire il vero) e ce l’hanno lasciata in custodia per una ventina di giorni.

Non ci poteva essere posto migliore, allora, per organizzare la sessione più intensa mai realizzata finora di “brainstorming” sceneggiaturiale per i nostri progetti filmici e non, con Giacomo, ovviamente, ma anche con l’indispensabile Neme.

Abbiamo visitato due miniere, inventato una storia nuova, sistemato un soggetto vecchio, riflettuto su una storia altrui, chiacchierato, riso e guardato filmacci. Il tutto accompagnato da buon cibo, ottimo prosecco e qualche birra occasionale.

Da domani si ricomincia a lavorare, chi in ufficio, chi sulle traduzioni, chi su filmati vari ed eventuali, ma non si può dire che questa prima settimana in campagna ci abbia dato pochi frutti. Anche se l’orto è lontano (e anzi, presto vi mostrerò che razza di selva siamo riusciti a coltivare, in due e quasi totalmente inesperti), il karma ci ha voluto ricompensare con un piccolo, grande regalo.

Si chiama Cagliostro, detto anche Patacca, mi è corso in braccio nella strada sterrata dietro casa, mentre facevamo una passeggiata, venerdì pomeriggio, per schiarirci le idee e rimettere in moto le gambe.

Se qualcuno lo ha abbandonato, verrà  inserito nel dizionario come riferimento per la parola “pirla supremo”.

Se si è perso, non gli dispiace restare qui perché non lo teniamo chiuso in casa, anzi, scorrazza nel giardino liberamente e ogni mattina è felice di vederci e di bere un po’ di latte di capra.

Spero tanto resti qui, perché è un piccolo ricordo di questa bella settimana e della nostra presenza in questa casa.

Benvenuto, Cagliostro!

Cose che non avresti mai detto che ti sarebbero mancate

Lavorare in università .

Perché io fare il dottorato l’avevo preso come un lavoro. Non nel senso negativo, tipo “un lavoro”, ma nel senso dell’impegno. Tutto quello spazio, quelle risorse e quelle persone con cui cercare di costruire qualcosa. Imparare, ma da tutto, dalle lezioni a cui assisti, da quelle che tieni, dalla gente con cui parli a ricevimento, dalle pause caffé.

Non so se mi manca anche quel groppo in gola e quel terrore strisciante di quando le cose andavano male – e non ho mai capito perché, e non mi sarà  mai spiegato – ecco, quello non so se mi manca, però tutto il resto…

Fare ricerca è dura, si dice, in Italia. E’ vero, ci sono pochi fondi. Però quando sei in università  (e parlo delle facoltà  umanistiche, di quello che ho visto io), almeno ci puoi provare. Puoi costruire tanto con niente, perché se sei lì e hai tutto quel ben di dio a disposizione è un peccato non sfruttarlo, non inventarsi qualcosa, non cercare di impiegare il tempo in modo creativo. Sì, creativo, perché per me fare ricerca era un processo creativo E un lavoro di squadra. La solitudine, diciamocelo, l’ho sempre sofferta. La torre d’avorio non fa per me (tant’è che non ne faccio più parte). E’ più come svegliarsi un giorno e decidere di “cambiare il mondo”, almeno un pezzetto, almeno un poco, almeno qualche riga, e farlo, con calma, con pazienza, tutte le settimane alla stessa ora.

Non credo nei riti e tendenzialmente credo nella discontinuità  degli sforzi e nei lampi di genio, ma lavorare in università , con i ragazzi del GamesLab, invece, mi ha insegnato la pazienza della costanza, mi ha fatto vedere come dal niente nasce e cresce qualcosa, che magari alla fine si trasforma e se ne va altrove, ma intanto io c’ero, io l’ho visto, io ho anche fatto in modo che accadesse, anche se le vere forze erano loro.

Anche la mia tesi. Parole su parole che si sono ammonticchiate. Sensazioni e sentimenti legati a ogni pagina, a ogni capitolo, a ogni argomento. Ricordo quasi tutto, intendo ricordo dov’ero mentre scrivevo, quando mi sono venute certe idee, quando ho pianto di rabbia, quando ero a Londra e scribacchiavo e fotocopiavo libri, quando stavo male e però non riuscivo a smettere. Ricordo i “Non ce la farai mai” ma anche la gratificazione di discutere davanti a persone che alla fine il mio lavoro lo avevano letto davvero e che mi facevano obiezioni e critiche stimolanti che mi porterò con me e che non ho lasciato nel dimenticatoio di quel giorno.

Forse doveva passare solo un po’ di tempo perché riuscissi a ripensare agli anni del dottorato con un misto di malinconia, tristezza e soddisfazione. Malinconia perché sono passati ormai anni. Tristezza perché a volte mi sembra che sia finito tutto lì. Soddisfazione perché penso di aver dato tanto, non dico tutto ma sicuramente molto, di me intendo, e quindi ho la coscienza pulita e posso credere che anche quel percorso abbia avuto un senso. Forse.

Certo, ora non ho più le macchie sulla pelle, il mio fegato va alla grande, non resto allibita da una serie di circostanze raccapriccio che non scorderò mai, però in fondo sono felice di aver provato anche questo, nella vita, e di potermi portare nella memoria un pezzetto di persone che ho incrociato in quel mondo e che mi hanno dato tanto e a cui spero di aver restituito almeno un po’.