Di tradimenti reali o immaginari, di tempo che vola e di regali sotto l’albero

Ho 35 anni anche se tutti me ne danno 10 di meno. Il tempo sta galoppando in un modo che mia madre mi raccontava, ma io non ci credevo. Sfuggono i giorni, sfuggono i momenti, sfuggono le espressioni, e in quest’era del digitale non stampiamo nemmeno più le fotografie e non abbiamo una traccia tangibile degli anni.

àˆ per questo che sotto il mio personalissimo albero di Natale, quest’anno, ci saranno degli album fotografici con fotografie stampate. Ho deciso che ne stamperò un tot ogni volta che avrò due soldi da parte e mi farò una bellissima biblioteca di album fotografici “come una volta”. Sotto l’albero di Natale delle persone a cui voglio bene, invece, ci sarà  una sorpresa un po’ particolare, una di quelle cose “alla Valentina”, che imbarazzano i più ma colpiscono nel segno con le persone giuste. Sì, farò lo stesso identico regalo a tutti, praticamente: fico, no? Niente code nei negozi, niente dilemmi del cavolo, niente corse dell’ultimo minuto. Nonostante tutti questi buoni propositi, non sarà  semplice mettere questo regalo sotto l’albero: primo perché lo devo completare in tempo (è “autoprodotto”), poi perché qualcuno lo considera la rottura di una promessa, infine perché è un atto tra l’egoistico e il narcisistico, da parte mia. Tant’è, quest’anno va così.

Qualcuno, però, sotto l’albero da parte mia non troverà  niente: ho 35 anni e ancora non ho imparato a riconoscere gli amici dai nemici. Perché questa cosa che esistono i nemici è vera, non succede solo nei film, anche nella vita ci sono alcuni che si mascherano, pranzano con te, dormono in casa tua e in realtà  ti stanno solo manipolando, ti stanno succhiando energie, informazioni, affetto. E tu ci caschi con tutte le scarpe, e poi piangi e ci stai male quando il falso aiutante si rivela in tutto il suo splendore.

Poi c’è Leonardo. Un’adorabile cartina tornasole di come potrei essere e di come in realtà  sono. Si dice che i figli ti cambiano, ma non è esattamente così. L’effetto che ha mio figlio su di me è diverso, e nello specifico è sempre nei miei pensieri quando devo prendere decisioni, anche decisioni che riguardano unicamente me stessa, e mi fa porre la stessa, impietosa domanda: mi sto comportando bene con me stessa? Farei quello che sto per fare a me anche a mio figlio? E tantissime volte mi rendo conto che abuso di me in modi che nemmeno riuscivo a vedere prima. MI mortifico quando dovrei incoraggiarmi, mi censuro quando dovrei lasciare la mia mente libera di correre, antepongo tutti i miei “devo” a ogni mio “vorrei”. Allora mi fermo, a volte, quando faccio in tempo, e torno sui miei passi, e mi “proteggo” come proteggerei lui. E funziona, sto meglio, mi sveglio con più energie, quella parte di me che mi disprezza si fa ogni giorno più piccola in un angolo e l’impulso creativo che sento dentro cresce sempre un po’ di più. A volte mi sento “in pace”, ci sono giorni che il mondo fuori fa schifo come sempre, la gente è inutilmente arrabbiata, aggressiva, rancorosa, spaventata, ma io finisco la giornata e mi sono comportata in un modo che mi piace, in un modo che rispetto. In un modo in cui mi potrei comportare anche con mio figlio.

Quindi, quest’anno per la prima volta ho scolpito una zucca di Halloween, e quest’anno per la prima volta farò un mio VERO albero di Natale sotto cui mettere i libri e i giochi di legno che ho già  preso a Leonardo – ops, che Babbo Natale gli porterà , ecco. Quest’anno per la prima volta mi godo il tepore della casa con un libro in mano, nel mio piumone, senza sensi di colpa assortiti. Quest’anno, per la prima volta da tanto tempo, finirò di scrivere il primo racconto del mio libro.

I figli ti cambiano: ok, forse sì, ma solo in meglio. Chi dice il contrario non ha capito un bel cazzo di niente e gli auguro di aprire gli occhi alla svelta, perché poi si muore.

Fame

àˆ l’aria fredda della primavera o dell’autunno. La notte che arriva prima, il buio che mi fa compagnia. Ogni volta la sensazione è la stessa: quella di stare per assistere a qualcosa di inaspettato, a un cambiamento radicale, a uno sconvolgimento. La Torre dei Tarocchi, la stella cadente a cui sussurrare un desiderio, i nuovi viaggi che mi aspettano e le nuove storie che devo ancora scoprire e raccontare, tutto questo lo sento nel freddo delle sere autunnali che arrivano a grandi falcate, spazzando via l’afa estiva e facendomi finalmente respirare.
In questi momenti di cambiamento, sento fortissima la voglia di un’avventura, di una pazzia, di un lavoro che mi sfinisca e mi lasci estenuata, ma piena di ricordi, di una scoperta, di qualcosa che diventi una pietra miliare della mia vita. Non bastano più pochi giorni sul set, non bastano più delle riprese mordi-e-fuggi, io voglio tutto, io voglio vivere quella sensazione ancora e ancora. Sbattere la testa contro una storia che non sembra trovare un equilibrio, con dei personaggi che mi sfuggono di mano, conoscere attori che mi fanno restare a bocca aperta quando li vedo recitare, stare sveglia fino a notte fonda perché quella scena deve, deve, DEVE venire bene, alzarmi all’alba al mattino per controllare che sia tutto in ordine e ricominciare.
Fame, la chiamano.
Fame perché ne vorresti ancora e ancora, perché ti svegli sudata in mezzo alla notte e avresti voglia di addentare ancora un pezzo di esistenza così, fame perché può anche farti male se ne mangi troppo, di cinema.
Fame anche nel senso di celebrità , di fama, di immortalità . Vivere per sempre – o sperarlo – sullo schermo d’argento, sugli schermi del computer, nella memoria di chi ha visto quello che hai contribuito a fare. àˆ un pensiero che ti aiuta, se hai paura di essere solo di passaggio e di non poter lasciare nessun segno tangibile della tua esistenza, così che quando sarai morta nessuno si ricorderà  di te e tutto quello che hai fatto sarà  stato come se non fosse mai esistito.
Fame. Sogni. Storie. Poche parole mi si addicono così tanto, stasera. Eppure, poche volte come stasera mi sono sentita così lontana da questi tre capisaldi della mia esistenza.
Domani andrà  meglio.
Sarò un giorno più vicina alle prossime riprese. Alla prossima storia.

Nel posto sbagliato, al momento sbagliato

Le passioni ti fregano. Tu sei lì, che cerchi di vivere la tua vita con quanto basta, con misura, con equilibrio, lasciando da parte l’inutile superfluo, concentrandoti solo sulle cose essenziali, che contano davvero, ma non è affatto detto che questo ti metta al riparo dal sentire l’intensa mancanza di qualcosa.

Leonardo è l’esempio lampante, povera cavia umana del mio essere madre: l’ho voluto, l’ho desiderato, adoro averlo, ogni giorno che passa mi diverto sempre di più, colleziono ricordi che non avrei mai immaginato, eppure, a volte, sento lo strisciante disagio di non stare scrivendo una nuova storia. O di non essere sul set. O di non stare viaggiando per cercare un nuovo set e inventare una nuova storia. Che poi, a ben vedere, sto inventando una nuova storia in un altro modo, in senso più ampio, ma il disagio resta. Allora, con giochi di incastri e scatole cinesi riesco a organizzare una settimana dedicata solo al lavoro, in cui lui sta con i nonni, ed ecco che un secondo dopo che non è con me mi sento di nuovo a disagio, perché sto raccontando una storia, ma non è la sua, sono sul set, ma lui non c’è, e mi manca incredibilmente in tutte le piccole cose: quando mangio senza dovermi alzare seicento volte, quando il cibo resta tutto nel piatto, quando la cacca va direttamente nel water quasi da sola, quando non ci sono psicodrammi perché Miglio il Coniglio è finito fuori dal lettino… Mi manca tutto, di lui, anche se sto scrivendo la mia storia preferita, e suo padre non aiuta, mostrandomi tenere foto amarcord e ricordandomi che anche lui è umano e ne sente la mancanza.

Questo, però, è un dualismo delle patatine: tutte le madri e tutti i padri sanno di cosa parlo, del lacerante spallamento che si prova quando si passano intere giornate con esseri che grugniscono e basta, e dell’altrettanto lacerante disagio che si prova quando ci si allontana da quegli stessi esseri. Fenomeno che tutt’ora difficilmente mi spiego, comunque.

C’è poi un altro modo di sentirsi fuori posto, che è quello delle disgrazie. Quando dovresti mollare tutto e andare a fare due chiacchiere con un amico che ha affrontato una delle tappe dolorose della vita. E io non c’ero, non ci sono stata, se non con un tardivo messaggino sul telefono. Eppure, ero a fare qualcosa che ritengo estremamente significativo, qualcosa per cui lotto tutti i giorni, qualcosa che non considero solo il mio lavoro, ma la mia passione. Niente, anche in questo caso ero al posto sbagliato, al momento sbagliato. Ma lo sono sempre, a ben vedere, perché c’è sempre un altrove che ha bisogno di me, c’è continuamente qualcuno che sto deludendo perché non ci sono col corpo o con la mente, e poi ci sono io, che sono costantemente delusa da me stessa.

Oggi ho letto che il tono con cui parliamo ai bambini diventa la loro voce interiore. Ora, io non so come mi hanno parlato da piccola, ma è troppo facile dare la colpa a qualcun altro per il fatto che quando “mi ascolto” sento solo critiche, rimproveri, rimbrottii e sensi di colpa. Non so da dove nasce, da che profondità  arriva, e non so nemmeno come metterla a tacere, questa voce, anche se ci provo tutti i giorni a volte mi ritrovo da sola, lontano da tutto e tutti quelli a cui dovrei essere vicino, e mi viene da piangere perché mi sento fuori posto, un’accidiosa madre, amica, amante, scrittrice, socia, figlia, sorella, un’accidiosa-ogni-cosa. Devo respirare a fondo e pensare che no, non è colpa mia, che sì, posso fare di meglio, ma che non mi devo mettere in croce nel mentre.

(Comunque, a scanso di equivoci, io a Leonardo ripeto sempre cose positive, anche quando ha un diavolo per capello e vorrei dirgli che è tremendocattivo, dispettoso, gli dico che è avventurosoenergicogiramondo… Così magari gli risparmio lo psicanalista da grande…)

Domani è il primo settembre. Si “ricomincia”, io non sono un granché con le fini e gli inizi, vado sempre in corto circuito. Ormai è un anno che dico a Giacomo che “sono in crisi” – professionalmente parlando, intendo – e che non riesco più a capire qual è il mio centro, qual è il mio scopo. Ho passato un’estate lavorando lentamente per trovare un nuovo centro e per potere, da domani, da oggi, da ieri, concentrarmi su di esso, dargli spazio, farlo crescere e, insieme far crescere di nuovo me stessa. Far crescere mio figlio, far crescere la Valentina che scrive, che inventa, che si occupa di cose che ama, che si occupa di cose che odia, la Valentina che pulisce casa e quella che si sdraia di notte da sola a guardare le stelle, quella che legge libri in un soffio e che scorre PDF con le istruzioni. Quella che racconta storie per il mondo e quella che le racconta per suo figlio. La Valentina che si vuole bene e si stima, e quella che si odia e si denigra e si umilia

La mia speranza è che tutte queste parti, tutte questi modi di essere “Valentina” riescano a gravitare meglio e con più leggerezza attorno al centro che ho deciso essere il mio polo di gravità , quello per cui faccio ogni cosa e quello che mi dà  un senso, al di là  di tutto.

Speriamo. Perché finora il qui e adesso sono sempre stati sbagliati, e ce ne sono sempre meno. Di qui e adesso e di occasioni per fare la cosa giusta.

Bugie

Sono empatica.

àˆ come un super-potere, ma a oggi, 35 anni, sono ancora nella fase in cui non lo so controllare per bene. Soffro sia di empatia che di empatia inversa e, ovviamente, non ho la più pallida idea di come attivare l’una o l’altra, di come controllarle, di come sfruttarle. Non voglio però parlare dell’empatia, oggi, perché ancora non sono pronta. Voglio parlare di una sua specifica controindicazione, quella che tendenzialmente mi fa vivere faticosamente i rapporti più opachi e falsi: le bugie.

Le persone empatiche capiscono molto più facilmente quando gli si mente. Non è come avere la sfera di cristallo, è più come un sottile senso di disagio quando parli con qualcuno e ti rendi conto che sta tacendo o, ancora peggio, distorcendo delle informazioni. Non puoi fare granché, perché non è socialmente accettabile che, a un’affermazione del tuo interlocutore, tu risponda dicendo: “No, guarda che mi stai dicendo una balla”. Non si può fare, la gente, semplicemente, ti bolla come psicotico – anche se poi sa che hai ragione tu.

Allora, questa è la controindicazione più grande a vivere da empatica e a non saper controllare i propri poteri: essere circondati da gente che mente o distorce la realtà , percepirlo eppure non poterci fare nulla. Sicuramente ci sono delle persone che sanno come neutralizzarmi, che hanno una specie di “antidoto” alla mia empatia, ma sono poche e probabilmente le tengo alla larga. Gli altri, la stragrande maggioranza, sono invece soggetti al mio vaglio e alla mia involontaria scansione. Ecco, diciamo che il lato positivo di tutto questo è che poi, invece, le persone che mi vogliono bene e a cui voglio bene sono veramente speciali. In gamba. Sincere. Loro non lo sanno nemmeno che ho il radar, eppure mi restano vicine e non mentono mai. Se lo fanno, è per non ferirmi, e lo posso accettare.

Il resto della gente, invece, è ridicola. Clienti, collaboratori, conoscenti: tutti a sperticarsi in lodi oppure a elargire giustificazioni o ancora a millantare traguardi e prospettive. E io che non posso passare per pazza, non posso dire “Dai, finiamola qui, lo sappiamo entrambi che son tutte balle”, e che però dentro di me conosco lo squallore di queste invenzioni, e loro che pensano di avere una perfetta faccia da poker, o che hanno letto il “Manuale del perfetto manager” e pensano di avere le strategie di comunicazione in tasca. Magari hanno anche sentito parlare di programmazione neurolinguistica. Boom. E io lì, con la mia verità  da due soldi spiattellata davanti, mentre loro parlano di budget, prospect, revenue, sinergie, contatti, e io che sento solo il vuoto delle loro menzogne.

Mi piacerebbe affinarla, questa tecnica dell’empatia. Mi piacerebbe usarla a comando, e non lasciarmi travolgere, ogni volta, ma purtroppo non siamo nel mondo degli X-Man e non troverò il mio Charles Xavier che mi aiuti a capire come fare. E, di certo, IO non sono il Professore. Chissà . Magari un giorno ce la farò a zittire tutte le menzogne e a concentrarmi solo sulle più interessanti emozioni genuine.

àˆ difficile avere tutti i giorni a che fare con le persone, sapendo quanto fanno schifo, quanto sono false, quanto stiano cercando di manipolarti. Quanto, a volte, ci riescano pure. Però è anche splendido, poi, incontrare persone oneste, pure, quasi, autentiche, che ti aprono dei pezzi di cuore che uno nemmeno si aspetta, e che ti accolgono con sincerità . La sincerità  del fallimento, la sincerità  di dire “Non ce la faccio”, la sincerità  di ammettere di essere ordinari e non stra-ordinari. Che poi in realtà  è questo che rende le persone sincere ancora più straordinarie degli altri: accettarsi con i propri limiti e costruire con gli altri – con tutti gli altri, che siano familiari, amici, colleghi, clienti – dei progetti basati sulla realtà , e non sul delirio, sulla megalomania, sulla… menzogna.

Sono stanca delle bugie mal raccontate, sono stanca delle bugie su quello che si è e quello che si fa. Smettetela di rendervi ridicoli e smettetela di mentire, almeno quando ci sono io.

Piccola curiosità : quando descrivo una persona, la descrivo quasi sempre dicendo il suo colore di capelli AL NATURALE, anche se ha i capelli tinti e io l’ho sempre conosciuta così. àˆ come se la tinta non impedisse al mio cervello di registrare il vero colore di capelli della gente e di considerare quello come effettivo, anche se tutti gli altri vedono un biondo dove ci sarebbe un castano, un nero dove ci sarebbe un rosso. Bizzarrie.

Il Paziente Zero

Allora, ho questa storia. àˆ una storia speciale, perché mi è nata nella testa nell’esatto momento in cui Leonardo mi nasceva di nascosto nella pancia. Si chiama Il Paziente Zero ed è una delle poche storie che scrivo per cui il titolo mi viene subito. Forse perché l’idea dietro la storia è più forte del solito, e non è la solita suggestione fugace. Forse perché la “malattia” di cui parlo è una malattia veramente curiosa, e anche solo il definirla “malattia” è una presa di posizione etica, sociale.

Fatto sta che questa storia langue nella mia testa e nei miei foglietti sparsi dall’aprile del 2013, ormai più di due anni fa. àˆ difficile scriverla, perché il poco tempo libero che ho lo passo per lavarmi e per dormire, eppure ogni volta che sono in auto e ho del tempo solo per me, ogni volta che mi sto per addormentare, che cammino, che cullo mio figlio, in tutti quei momenti in cui ho un attimo di pace e silenzio mi si ripresenta davanti come un puzzle a cui mancano tanti pezzi e io cerco piano piano di completarlo.

Questa storia la voglio scrivere. Non come i Racconti di Torino, di cui ho scritto solo il primo e poi nient’altro. Non come Europa, per cui non sono ancora pronta. àˆ anche diversa dalle solite storie che mi vengono in mente, ma ovviamente il sostrato è fantastico (e qui, vi chiedo cortesemente di leggere anche questo importante articolo, e ricordare che quando parlo di “fantastico” io mi riferisco strettamente alla classificazione di Todorov).

Oggi voglio raccontare il perché mi piace il fantastico, più di ogni altro genere. Perché, addirittura, non concepisco quasi più la scrittura che non sia intrisa, in qualche modo, di fantastico. Borges, Marquez, Auster, il mio amato Asimov mi hanno insegnato quello che è comune a tutti gli scrittori, a tutti i generi: che la narrazione è un sistema di regole, un eco-sistema, diciamo, in cui l’autore fa accadere quello che vuole, ma in cui regna sempre una sorta di “fair play” per cui c’è ordine, c’è rispetto, e anche le morti più atroci, le partenze più inaspettate, la rassegnazione, l’odio, l’amore, ogni sentimento e ogni azione ha uno spazio e un perché. àˆ il contrario del caos entropico dell’esistenza, in cui le regole forse ci sono, ma a noi sicuramente non è dato comprenderle. Quindi io mi crogiolo dentro questi mondi che, agli occhi superficiali dei sessantottini amanti dei documentari, sono mondi per bambini, o per nerd malati di solitudine, ma che in realtà  sono il luogo più accogliente dell’universo conosciuto. Un posto dove ogni cosa ha un senso, dove ogni elemento esiste per un motivo preciso, dove ogni parola, gesto, situazione è finalizzata a suscitare un’emozione e quindi ha un peso, ha uno scopo.

L’etica, infatti, la trovo facilmente dentro di me, questo non è mai stato un problema. Ma il senso… A differenza di chi crede nel “grande barbuto”, io non posso fare altro che constatare la totale insensatezza della nostra esistenza. Il che mi spingerebbe disperatamente verso un ottuso edonismo fine a se stesso, o a un micidiale spirito di sacrificio in funzione della specie: perché è questo che possiamo ragionevolmente aspettarci dalla vita, godere o riprodurci. Ovviamente non basta. Non basta mai, nemmeno a quelli che se lo fanno bastare, figurarsi a me che ho sempre avuto come “missione interiore” quella di raccontare storie.

Allora, nelle storie c’è uno scopo, ma non solo per la storia, per tutti i suoi elementi, intendo. E questo è delizioso. àˆ il mio conforto nei momenti bui, è il mio rifugio preferito, è il mio faro nella tempesta. Ma perché il fantastico? Perché se scrivessi di realtà , se scrivessi di prostitute, immigrati, povertà , economia, banche, ecologia, se scrivessi di drammi delle periferie, della bella vita delle città , se scrivessi di tutto questo e di tanto altro, mi ritroverei a cercare di replicare il sistema di ordine caotico della vita, e non ci riesco. Non riesco a dare un senso alle azioni degli individui, quando non hanno a che fare con qualcosa di veramente incomprensibile. Perché a ben vedere, anche lavorare per pagare le tasse, ammalarsi di tumore a 5 anni, morire in grembo, essere traditi dalla tua famiglia, perdere tutto quello che hai per un vizio, commettere un omicidio perché sei drogato, anche tutte queste cose sono incomprensibili, ma io non so mettere ordine tra questi comportamenti umani, non so trovare un perché e non so dare il giusto peso alle cose. Se proprio devo mettere ordine da qualche parte, preferisco pensare all’umanità  tra 10.000 anni, oppure a una variabile inaspettata nella fisica ordinaria che sconvolge gli equilibri della nostra dimensione, o ancora immaginare a cosa succederebbe con determinate derive tecnologiche (in male e in bene, come in Man of Sorrows)… Lì posso provare a mettere ordine, lì riesco a dare un senso alle vite delle persone, dei personaggi cioè, e a ritagliare a ognuno di loro un senso. Così, quando mi sento disperata, quando non ce la faccio più, quando tutto è troppo inutile qui intorno, mi rifugio nelle mie storie e comincio a mettere a posto. C’è chi pulisce, chi mette a posto casa, io metto a posto le storie. Ci vuole tempo, ci vuole pazienza, ci vuole anche autostima, e io ho poco di tutto questo, eppure la spinta a voler raccontare è così forte che non mi fermo nemmeno davanti alla mia inettitudine. Non mi fermo, perché non ci riesco, e insieme non ci riesco, perché non scrivo quanto vorrei. Però le storie ci sono, tante, nella mia testa, e a volte mi sembra che tutte le storie della mia vita siano in realtà  un’unica, grande storia che ha un unico filo conduttore.

Il Paziente Zero è il mio rifugio di questi anni, insieme a Europa. Infatti, a volte penso che si stiano intersecando pericolosamente, o meravigliosamente, e a volte sto facendo altro e mi dico: “Ma certo! àˆ così!” e sorrido con quel sorriso svanito che mi viene quando penso alle mie storie e che alcuni hanno visto più volte. Il Paziente Zero è la storia di una ricerca: la ricerca di qualcosa che non si capisce fino in fondo e da cui non si sa cosa aspettarsi. Che ovviamente fa paura e che, in un certo senso, da un certo punto di vista, da una certa “etica”, anzi morale, può essere considerato un pericolo per l’umanità . Quello che mi piace pensare è che non sono ancora sicura di come i personaggi arriveranno in fondo al percorso che ho in mente. àˆ lo stesso senso di conforto e smarrimento che provo nel viaggiare: so dove voglio andare, so, all’incirca, cosa troverò, ma non so come ci arriverò e cosa dovrò affrontare per raggiungere la mia destinazione. Ecco, il viaggio forse, come le storie, sono un’unità  di vita che mi piace, in cui riesco a trovare un senso, perché forse riesco a osservarli nella loro interezza.

Che strano: tutto questo bisogno di senso, e paradossalmente la mia vita avrà  un senso molto chiaro solo quando morirò, e sicuramente non per me, che non ci sarò più, ma per chi ci sarà  a “leggerla”. Nel mentre, per compensare questa incolmabile, assoluta mancanza, mi diletto e mi rifugio nelle storie, microcosmi chiusi dove tutto è perfetto.

E, nello specifico, torno a cercare il mio “Paziente Zero”.

Cambia la tua vita con un click

Sono anni che non scrivo cose interessanti, qua sopra. àˆ passato molto tempo da quando mi sono sentita libera di esprimermi liberamente, di parlare di quello che non va e di fare nomi e cognomi, però la verità  è che si cresce, ci si crea delle complesse reti di persone e relazioni, intorno, e basta poco per far crollare tutto. Se questo crollare influenzasse solo me, allora quasi quasi cederei alla tentazione di rovesciare il tavolo. Purtroppo, però, tanto di quello che vivo condiziona fortemente le persone che mi stanno intorno e che amo e non me la sento di fare scelte così radicali anche per loro, non me la sento di buttare all’aria il tavolo e rompere la loro, di cristalleria, più che la mia.

Vorrei non ridurre sempre tutto alla maternità , ma per mia fortuna è stato un evento spartiacque totale nella mia esistenza, sia personale che professionale, e visto che, per compensare la meravigliosa creatura che è Leonardo, il mio piccolo universo ha ben pensato di decostruire tutto quello che io avevo lentamente e pazientemente messo insieme in quasi 34 anni di sforzi, io mi ritrovo davanti a un terremoto che mi deve per forza insegnare qualcosa per il futuro, se non altro per lasciarmi alle spalle tutte le macerie e andare avanti con quello che di sano è rimasto.

Mia sorella Giulia è stata un faro nella tempesta, in questi due anni di sconvolgimenti totali. Ci è sempre stata accanto e ha fatto anche più di quanto poteva per noi. Così pure i miei genitori e i miei suoceri. Una famiglia che c’è stata, con i suoi tempi e i modi che le erano possibili dalla quotidianità . Ma un punto di riferimento per tutto, dai problemi pratici a quelli economici a quelli emotivi.

Di Alice non parliamone nemmeno: dovrei scrivere un “Guerra e Pace” per cominciare ad accennare a tutti i modi in cui c’è stata, in questi anni di psicopatologia. Mia.

Di amici veri ne sono rimasti una decina. Se vi contate, se pensate a chi siete, vi potete anche facilmente individuare, equamente distribuiti tra il mio passato e il mio presente. Persone che si sono sorbite lamentele, pianti, paure, angosce, ansie, dilemmi etici, solitudine, insulti, di tutto. Amici che mi hanno sempre fatto sentire accolta, anche in tutta questa lunghissima fase di metamorfosi totale. Dieci punti fermi che non posso ignorare, che so, a questo punto, mi accompagneranno per sempre. E che hanno un credito aperto, con me: chiamatemi di notte, chiedetemi di soccorrervi su un vulcano che sta per eruttare, fatemi lanciare col paracadute per venirvi a recuperare, o più semplicemente mandatemi un messaggio quando avete bisogno di una spalla su cui piangere o di qualcuno che vi pulisca casa. Io per voi ci sarò sempre.

E poi ci siete voi, che vi dite amici ma siete come quelli di Facebook, una schiera giusto per fare numero, un insieme di frequentazioni tanto inutili quanto dispendiose, a livello di parole, tempo, energie, pensieri. Vorrei liquidarvi con un “Me ne infischio”, ma purtroppo le nostre vite sono pigramente intessute insieme per obblighi sociali, convenzioni, necessità , opportunismo. Vorrei andarmene da voi, vorrei lasciarvi lì nel vostro essere noiosi, ordinari, livorosi, bugiardi, banali, ma non ce la faccio, non ce la faccio mai a essere veramente spietata come molti mi descrivono. Convivenza civile, la chiamano. Io, a volte, la considero codardia. Forse arriverà  il momento in cui mi renderò conto che il tempo della mia vita è veramente così limitato, chissà , e allora farò un vero repulisti. Forse, in realtà , lo sto già  facendo e le chiacchiere di convenienza e cortesia, i “Come stai” e i “Mi dispiace molto” sono già  un bel recinto all’inutilità  che rappresentate nella mia vita. Poi mi sento esclusa quando fate qualcosa e non mi calcolate – non lo fate mai – ma in effetti non vorrei mai essere lì con voi, non vorrei mai ipotecare il mio prezioso tempo libero a parlare di inutilia con chi non capisce cosa significa avere la casa sporca ma un racconto in testa, la cucina sottosopra ma i piedi nel fango dei prati dietro casa, l’angoscia del lavoro eppure l’impossibilità  di parlare o pensare ad altro, perché è anche la tua passione. Siete ordinari e mi annoiate, siete ordinari e il mio esercizio zen di quest’anno è imparare a fare a meno di voi ancora più di quanto non faccia ora. Ce la farò.

Poi ci sono i clienti, e anche qui, quelli che dopo 10 e più anni di collaborazione non si sono eclissati sono forse 4 o 5. Se vi riconoscete tra questi, vi ringrazio, perché valutate la qualità  del mio lavoro più del mio nuovo – e terrificante, a quanto pare – titolo di “Madre”.
Alcuni sono scomparsi così rapidamente che non ho fatto nemmeno in tempo a salutare. Altri sono rimasti, ma con richieste assurde, con tempistiche folli e tariffe dell’anteguerra. Sì, perché io lavoro come traduttrice, tra le altre cose, e la qualità  del mio lavoro aumenta ogni anno che passa, ma non di conseguenza le tariffe delle mie prestazioni. Forse, anche qui, anziché una muta rassegnazione dovrei mettere in campo un’aggressiva competitività  e smetterla di camminare sulle uova dei rapporti di lavoro, ma instaurarne di solidi come il cemento, anche se più radi, forse.

Allora, come si fa a cambiare la propria vita con un click? A lasciare fuori dalla porta vampiri energetici, clienti pazzi, enti pubblici entropici, e soprattutto l’ansia, l’ansia che sia sempre colpa mia e invece non lo è?
La verità  è che non-lo-so. Non ne ho idea, tant’è che non ci sto riuscendo. Per la prima volta da tanto tempo, però, almeno vedo chiaramente il panorama davanti a cui mi trovo. Scorgo con obiettiva freddezza tutti i cadaveri che la mia maternità  ha prodotto e i guerrieri, ancora più forti e cazzuti di prima, che mi sono rimasti accanto. Quindi io contemplo, come Serse prima delle battaglie, e penso, proprio come Serse, che tanto tra 100 anni saremo tutti morti, quindi rimetto le cose in prospettiva con questo pensiero che livella le difficoltà , che livella le arroganze davanti a cui mi trovo costantemente, che livella anche la solitudine e la stizza che mi sale quando mi accorgo di aver investito il mio tempo sulle persone sbagliate.

Capita. Probabilmente, andando avanti, capiterà  sempre meno, o almeno lo spero. Adesso il mio obiettivo è smettere di concentrarmi sul campo di cadaveri che ho alle spalle e guardare l’orizzonte da esplorare che mi trovo di fronte. La puzza ancora mi fa girare troppo spesso, ma passerà . Passerà , e potrò dire di aver cambiato la mia vita. Che poi non è cambiare quello che sta fuori, ma quello che sta dentro, e come guardi il mondo.