E’ sempre stato un progetto importante, per me.
Da quando mi è nato in testa, così come un lampo, come un racconto, ho sperato di portarlo a termine. Anzi, no, di portarlo a inizio. Perché è un progetto lungo, modulare, complesso e articolato, su cui sarà necessario lavorare per anni prima di raggiungere la forma del sogno.
Questo non mi spaventa. Lavorare per anni, intendo, assolutamente. Ne ho voglia, anzi, ne ho bisogno.
Temo spesso di sprofondare in angoli grigi di me stessa, dove non vedo più nulla se non il microcosmo contingente che mi circonda. E invece voglio ricordarmi sempre che c’è dell’altro, che c’è questo sogno, che c’è il sogno, da qualche parte, che il bianco e il nero sono solo un punto di partenza, da cui fuggire, da cui andarsene.
E me ne andrò, dal grigiore del mio non scrivere, me ne andrò dal bianco abbacinante della pagina vuota. Me ne sto già andando. A dire il vero, ce ne stiamo andando.
Non posso lasciar morire MU, non un’altra volta. Quando il continente del sogno si è inabissato qualcosa è finito, e ora, con Malinconie Urbane, voglio riportarlo alla luce.
Ecco cos’è, la mia Atlantide, un luogo immaginifico di bellezza e magia.
Poco importa che sia una città . E ancor meno che sia grigia e squallida e crudele e disumana.
Il fatto è che, per una volta, non me ne starò a guardare. Non starò ferma immobile a subire.
Sarò io a creare qualcosa, da qualche parte. Visto che nella mia vita non ci riesco, ci proverò almeno nella mia arte.
(e se tutto naufragasse, naufragherei anche io, in un mare rosso sangue. Il dolore mi affogherebbe. Anzi, no. La mia stessa vita mi affogherebbe, e nel mio corpo non scorrerebbe più il variopinto fluido arcobaleno dell’immaginazione e della creatività , ma solo un dozzinale e comune sangue rossastro, come quello di tutti gli altri, come quello di tutti gli altri)