Lettera dall'Africa

Sono sempre qui, dove mi avete lasciato l’ultima volta. Continuo a non voler aiutare i negri dell’Africa, o, almeno, a pensare che non sia questo il mio destino. Passo i miei pomeriggi a fare quello che è giusto fare, lavoro, studio, scrivo, vomito per motivi che non so, piango, poi dormo, e fingo che vada tutto bene, ma non va bene niente. Non va bene niente.
Poi in un pomeriggio stanco, la solita domenica col cielo bianco, leggo qualcosa che so mi resterà  impressa per tutta la vita.
Federica era una ragazza magra. A distanza di anni mi accorgo che questa e la couperose sono le due caratteristiche fisiche di lei che mi sono rimaste più impresse. Più ancora dei ricci castani che tanto le invidiavo. Quando ero adolescente pensavo che Federica fosse intelligente: prendeva bei voti, era una persona con un senso, mi sembrava consapevole di sé, a differenza di me e degli altri nostri coetanei. Eravamo amiche perché eravamo nate lo stesso giorno, il 23 agosto del 1980, e lei era la prima persona che incontravo che fosse nata quando ero nata io. Siamo state amiche, credo. Magari non amiche per sempre, però amiche. C’era qualcosa che ci univa, un filo rosso che però si è nascosto, negli anni, e alla fine, come in tutte le storie viste e ri-viste, ci siamo allontanate. Non saprei dire perché. Nemmeno oggi, che è passato tanto tempo.
Quello che so dire è che Federica mi sembrava una ragazza felice. Sola, forse, un po’ introversa, silenziosa, ma una che pensa molto e che ha tutto sotto controllo.
D’altra parte, lei è sempre stata la gemella-non-di-sangue intelligente. Io, alle cose, ci arrivo sempre dopo.
Allora mi sembrava intelligente perché aveva tanti nove e dieci. Perché prendeva gli appunti in modo ordinato e perché i professori la stimavano.
Aveva una grafia chiara e sicura. Bella, direi, ma non come quelle grafie ammiccanti delle adolescenti, era una grafia forte, decisa, e molto, molto particolare. Tanto lei sembrava esile quanto la sua scrittura era carica di forza.
Un’estate, Federica mi ha anche letto il futuro: e quando una tua gemella ti legge le carte, non si può sbagliare. La verità  stava tutta lì, in quella carta numero 9 che mi ha perseguitato per tanti anni. L’Eremita non era una previsione del mio futuro, ma di com’ero e di come sono ancora oggi: sola, sul cuore della terra, trafitta da raggi di luce che mi hanno reso cieca.
Per anni non ci siamo sentite, poi ho ricominciato a leggere sue notizie su Internet, e mi sono interessata, e mi sono sorpresa, e ho, finalmente, capito. Ho capito da dove veniva la sua intelligenza: non dai voti, non da quella mente così brillante e analitica, non dalla tensione alla perfezione che la stava quasi divorando. No, la sua intelligenza, il suo essere speciale, vengono da dentro. Da quello che i cristiani chiamano “anima” e da quello che io, fervente non credente, chiamo empatia. D’altra parte, era chiaro, avevo la risposta sotto gli occhi, anzi dentro di me: tutte le persone nate il 23 agosto del 1980 sono empatiche, devono solo rendersene conto. Io ci ho messo anni a capirlo e ancora oggi non riesco completamente ad accettarlo. E’ per questo che la notte non dormo per motivi futili, che di giorno cerco di riempire ogni vuoto con un’allegria faticosa da mantenere, che continuo a cercare di dare il meglio di me anche se a volte penso sia inutile.
Mi dimeno, mi dibatto, e con tutte queste parole non riesco a dire niente, come al mio solito. Non è vuoto, questo che ho dentro, è buio, è nero, è cecità , e non riesco a vedere nulla, e mi ostino a cercare con gli occhi quando dovrei smetterla e usare le mani, le orecchie, il naso. Sentire, non vedere, perché non sempre possiamo avere l’epifania del nostro sogno.
E’ quello che non c’è. Arriva l’alba o forse no. A volte ciò che sembra alba non è. Perciò io maledico il modo in cui sono fatto, il mio modo di morire sano e salvo.

Federica è sempre stata più intelligente perché ha cercato di condividere quello che le si agitava dentro, ma non tutti, non io quantomeno, sono stati in grado di capire, allora. Oggi capisco. E capisco anche che, con le parole che usa per descrivere il lavoro che svolge in un ospedale dell’Africa, riesce a parlare anche di quello che voglio fare io, con i racconti e le storie che prima o poi scriverò. Con i mondi che, prima che sia troppo tardi, inventerò.

“Stasera l’ho capito.
Questo posto offre uno spazio, uno spazio di vita.
Qui dentro è vita, vita vera.
Vita anche se si muore, perché la vita è dignita’, accoglienza, condivisione.
Soltanto questo è quello che noi possiamo fare qui, noi che sappiamo cosa è la vita abbiamo il dovere di creare uno spazio di vita.
Di difenderlo, recintarlo, custodirlo. E di lasciare la porta aperta. Sempre.
In modo che anche Rose e i suoi bambini, Oliver e la sua mamma e tutto il resto della fila possano provare, almeno una volta nella loro vita, a vivere per davvero.”

Anche io voglio creare uno spazio dove la gente possa vivere per davvero almeno una volta. Poco importa il mezzo: c’è chi lo vuole fare dedicando la propria vita, chi con le azioni, chi con le medicine, chi con l’educazione, chi con la musica. E chi, come me, con le parole.

Lettere dall’Africa di Federica Pozzi
2 novembre 2008 alle 7.02
Uno spazio di vita

A circa nove mesi dalla mia partenza per l’Africa mi ritrovo qui, questa sera in casa mia, senza acqua, dopo una giornata di guardia e una settimana intensa e ho qualcosa da dire.
Vorrei raccontare di quando l’altra notte verso la una Brother Elio, un fratello comboniano che vive qui da almeno 30 anni mi ha chiamata dalla finestra che gia’ stavo dormendo sotto la zanzariera. Rose,una donna che lui conosceva bene si era avvelenata e aveva avvelenato anche i suoi tre bambini prima di chiudersi in casa. Avevano dovuto buttare giu’ la porta ed erano stati portati tutti in Medicina ma non si trovava nessun medico. Quello di guardia, lo avrei scoperto il giorno dopo, era andato in città  a mangiare fuori.
Il tempo di vestirsi e prendere la pila e correre in reparto. Per strada ho incontrato John, l’idraulico che tante volte mi ha aggiustato gli allagamenti del mio bagno, anche lui conosceva bene quella donna e ha voluto accompagnarmi. Stranamente le infermiere erano gia’ tutte all’opera nel tentare una improvvisata lavanda gastrica all’africana, con mamma e bambini sul pavimento. Il piu’ piccolo che non avra’ avuto due anni era stato portato in pediatria.
Verso le tre erano tutti fuori pericolo anche se non siamo riusciti a capire che cosa avesse usato la mamma ne’ il perche’ di un gesto simile. Ma qui nessuno si stupisce piu’ molto, ogni settimana arrivano almeno due o tre tentati suicidi. Quello che in tanti chiamano distress post traumatico dei paesi che escono da una guerra. In parole piu’ semplici si potrebbe chiamare disperazione.
E John poi mi ha scortata poi fino a casa prima di tornarsene a dormire in una specie di casetta da guardiano sotto ai generatori.
Vorrei raccontare anche di Oliver, una piccoletta di due anni ricoverata al Tb Ward con sua mamma, tutte e due sieropositive che non vorrei piu’ mandarle a casa perché siamo riusciti a far avere loro il cibo avanzato dalla scuola infermieri e ora che sono malate stanno benissimo.
E vorrei farvi vedere la fila di gente che dalle due alle sette di sera oggi era li’ silenziosa sdraiata per terra all’ingresso della Medicina ad aspettare di essere visitata, ascoltata, anche solo considerata. Ci ho messo cinque ore di lavoro ininterrotto per cancellarla.
Ammetto che questa settimana ho vacillato.
Al mio rientro qui dopo quasi un mese in Italia mi sono chiesta davvero cosa significhi un ospedale missionario in una terra di sofferenze, di traumi, di gente che vive al limite di tutto. Perche’ la verita’ è che il successo, la cura, la guarigione non sono mai scontate, anzi. Le mie giornate parlano di contraddizioni, di fallimenti, di compromessi per ottenere ogni tanto qualcosa di buono almeno per qualcuno.
Ho pensato, in fondo cosa offre questo posto, cosa offre la mia presenza qui notte e giorno? Se i farmaci non ci sono, se nessuno ti assicura da mangiare in ospedale e nemmeno un letto, se ti devi pagare una radiografia del torace?
Stasera l’ho capito.
Questo posto offre uno spazio, uno spazio di vita.
Qui dentro è vita, vita vera.
Vita anche se si muore, perché la vita è dignita’, accoglienza, condivisione.
Soltanto questo è quello che noi possiamo fare qui, noi che sappiamo cosa è la vita abbiamo il dovere di creare uno spazio di vita.
Di difenderlo, recintarlo, custodirlo. E di lasciare la porta aperta. Sempre.
In modo che anche Rose e i suoi bambini, Oliver e la sua mamma e tutto il resto della fila possano provare, almeno una volta nella loro vita, a vivere per davvero.

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