Nella mia vita, posso facilmente distinguere due modi diversi di imparare, davanti a cui, nel tempo, mi sono trovata.
Il primo è stato, ovviamente, il mondo ovattato e accogliente dei libri. Lo studio, la ricerca, l’elucubrazione, il vivere la vita attraverso un comodo filtro di carta. Poi anche digitale, perché i videogiochi non hanno certo avuto un ruolo secondario nella mia formazione. Nessuno sano di mente può non rimpiangere il periodo della propria vita in cui tutto avviene per filtro altrui. Oggi sei una principessa da salvare, domani l’idraulico che la salva. Ti svegli e sei un investigatore, vai a letto dopo aver ucciso mostri fantastici. Leggi poesie che ti aprono varchi su altri mondi, scrivi lettere che ti cambieranno la vita. Il filtro della lettura e della scrittura è il mio porto sicuro, il luogo in cui mi sento a mio agio, la dimensione in cui nulla di male può accadere, e quando accade stimola le corde giuste, i sentimenti giusti, non quest’ansia senza fiato che mi viene, invece, davanti alla vita vera.
La vita vera è il secondo banco di prova su cui ho dovuto imparare. All’inizio sembrava più facile, perché le attività della vita sono sempre in numero inferiore rispetto a quelle della finzione, quindi pensavo di potermi barcamenare meglio. Mi sono però ben presto resa conto che la molteplicità e la varietà dei mondi di finzione è tenuta insieme da una visione superiore, da uno sguardo dall’alto che permette di organizzare e di dare un senso all’entropia. La vita è più essenziale, se vogliamo, ma totalmente senza un fine, totalmente allo sbando, totalmente imprevedibile. Senza qualcuno che la governa, senza l’illuminata mente dell’autore in grado di tirare le fila di quello che accade e di accompagnarti verso l’emozione giusta. La vita vera, per me, è stato scoprire che non sempre giocare secondo le regole porta ai risultati sperati. Che ognuno, in effetti, gioca secondo le proprie regole e, senza nemmeno farlo apposta a volte, si creano dei paradossi, degli inghippi, dei corto circuiti che ti travolgono.
La prima volta che mi sono accorta che giocare secondo le regole non serviva a niente è stato durante il dottorato. Non avevo, in realtà , capito il set di regole che mi era stato messo davanti, e ho applicato ottusamente il mio, sperando che dedizione, passione ed entusiasmo fossero abbastanza. Non lo erano nemmeno lontanamente. Anche il mio primo “lavoro d’ufficio” vero e proprio ha subito la stessa sorte: mi è stato fatto notare che la posizione che avevo sognato da tutta la vita, per cui avevo studiato, sgobbato, per cui avevo giocato e imparato, non era in realtà il posto giusto per me. Che non facevo parte della squadra con cui sentivo di essere sbocciata, per cui avevo fatto le mie prime serate al lavoro (e poi, quante altre). Che non ero veramente adeguata, perché i miei impulsi, il mio atteggiamento erano da cavallo sciolto.
Ora, quello che sta succedendo ora ha poca importanza. Ne ha molta, in realtà , ma ne ha anche pochissima, perché nonostante le montagne che stiamo scalando, io sono sempre lì a pensare “e se anche stavolta le regole non tornassero? E se anche stavolta scoprissi, all’ultimo miglio, che ho frainteso il senso di tutto quello che stiamo facendo?”
Io voglio raccontare storie. Lo so che sembra strano detto da una di 35 anni che ha scritto qualche racconto e che ha poi seimila progetti video nel cassetto, ma che ancora non ha regalato molto al mondo, però è questo che voglio fare, raccontare storie. Storie fantastiche, tendenzialmente, in cui i personaggi si muovono in un apparente caos sormontato da regole ferree e da un obiettivo che, presto o tardi, si rivelerà loro in tutta la sua semplicità . Quindi mi dispero ancora quando, mentre cerco di raccontare queste dannate storie, incappo in sistemi di regole sballati, che non condivido, che mi stritolano, che mi fanno mancare il fiato. Pubbliche amministrazioni, furbizie, raccomandazioni, piccolezze, prevaricazioni, finto giustizialismo. Io sono molto, molto stanca.
Come sono stanca anche di svegliarmi e avere i conati di vomito, o di dovermi chiudere in una stanza da sola all’improvviso perché ho un attacco di panico e non voglio che qualcuno mi veda così. Come sono amareggiata e disperata perché, soprattutto, non voglio che mio figlio mi veda così. Ormai sono anni che imparo nel modo più duro, e sono stanca di essere così coinvolta. Forse, se non avessi letto tutti quei libri, se non avessi giocato a tutti quei giochi, forse avrei meno aspettative impossibili sulle regole e sugli obiettivi di questa vita bislacca. Forse riuscirei a lasciarmi scorrere le cose addosso, forse riuscirei a chiudere un faldone di pratiche e di conti e a pensare che non è colpa mia, che non ho fatto niente di male, che non posso “ripetere il livello” e farlo meglio, che non c’è nessun autore onnisciente che mi ha guidato in un percorso sensato. Penserei, finalmente rassegnata, che alcune cose semplicemente non hanno un senso, che posso solo evitare di fare gli stessi errori in futuro e che posso allontanare quei vampiri emotivi che, a un’empatica come me, succhiano vita ed energia a ogni parola.
Tutto quello che ho vissuto, però, va poi a fare parte di quei momenti di felicità spensierata e totale che ancora so provare. Non posso rinnegare tutto, non è tutto nero, non sono più dentro un buco. Diciamo che è solo una pozzanghera lungo il percorso, questo periodo fatto di doveri assurdi e di riscontri scarsi. E se riuscirò finalmente a far uscire almeno una di tutte quelle storie, da queste mani, da questa testa, allora non sarà stato tutto vano.