Il Paziente Zero

Allora, ho questa storia. àˆ una storia speciale, perché mi è nata nella testa nell’esatto momento in cui Leonardo mi nasceva di nascosto nella pancia. Si chiama Il Paziente Zero ed è una delle poche storie che scrivo per cui il titolo mi viene subito. Forse perché l’idea dietro la storia è più forte del solito, e non è la solita suggestione fugace. Forse perché la “malattia” di cui parlo è una malattia veramente curiosa, e anche solo il definirla “malattia” è una presa di posizione etica, sociale.

Fatto sta che questa storia langue nella mia testa e nei miei foglietti sparsi dall’aprile del 2013, ormai più di due anni fa. àˆ difficile scriverla, perché il poco tempo libero che ho lo passo per lavarmi e per dormire, eppure ogni volta che sono in auto e ho del tempo solo per me, ogni volta che mi sto per addormentare, che cammino, che cullo mio figlio, in tutti quei momenti in cui ho un attimo di pace e silenzio mi si ripresenta davanti come un puzzle a cui mancano tanti pezzi e io cerco piano piano di completarlo.

Questa storia la voglio scrivere. Non come i Racconti di Torino, di cui ho scritto solo il primo e poi nient’altro. Non come Europa, per cui non sono ancora pronta. àˆ anche diversa dalle solite storie che mi vengono in mente, ma ovviamente il sostrato è fantastico (e qui, vi chiedo cortesemente di leggere anche questo importante articolo, e ricordare che quando parlo di “fantastico” io mi riferisco strettamente alla classificazione di Todorov).

Oggi voglio raccontare il perché mi piace il fantastico, più di ogni altro genere. Perché, addirittura, non concepisco quasi più la scrittura che non sia intrisa, in qualche modo, di fantastico. Borges, Marquez, Auster, il mio amato Asimov mi hanno insegnato quello che è comune a tutti gli scrittori, a tutti i generi: che la narrazione è un sistema di regole, un eco-sistema, diciamo, in cui l’autore fa accadere quello che vuole, ma in cui regna sempre una sorta di “fair play” per cui c’è ordine, c’è rispetto, e anche le morti più atroci, le partenze più inaspettate, la rassegnazione, l’odio, l’amore, ogni sentimento e ogni azione ha uno spazio e un perché. àˆ il contrario del caos entropico dell’esistenza, in cui le regole forse ci sono, ma a noi sicuramente non è dato comprenderle. Quindi io mi crogiolo dentro questi mondi che, agli occhi superficiali dei sessantottini amanti dei documentari, sono mondi per bambini, o per nerd malati di solitudine, ma che in realtà  sono il luogo più accogliente dell’universo conosciuto. Un posto dove ogni cosa ha un senso, dove ogni elemento esiste per un motivo preciso, dove ogni parola, gesto, situazione è finalizzata a suscitare un’emozione e quindi ha un peso, ha uno scopo.

L’etica, infatti, la trovo facilmente dentro di me, questo non è mai stato un problema. Ma il senso… A differenza di chi crede nel “grande barbuto”, io non posso fare altro che constatare la totale insensatezza della nostra esistenza. Il che mi spingerebbe disperatamente verso un ottuso edonismo fine a se stesso, o a un micidiale spirito di sacrificio in funzione della specie: perché è questo che possiamo ragionevolmente aspettarci dalla vita, godere o riprodurci. Ovviamente non basta. Non basta mai, nemmeno a quelli che se lo fanno bastare, figurarsi a me che ho sempre avuto come “missione interiore” quella di raccontare storie.

Allora, nelle storie c’è uno scopo, ma non solo per la storia, per tutti i suoi elementi, intendo. E questo è delizioso. àˆ il mio conforto nei momenti bui, è il mio rifugio preferito, è il mio faro nella tempesta. Ma perché il fantastico? Perché se scrivessi di realtà , se scrivessi di prostitute, immigrati, povertà , economia, banche, ecologia, se scrivessi di drammi delle periferie, della bella vita delle città , se scrivessi di tutto questo e di tanto altro, mi ritroverei a cercare di replicare il sistema di ordine caotico della vita, e non ci riesco. Non riesco a dare un senso alle azioni degli individui, quando non hanno a che fare con qualcosa di veramente incomprensibile. Perché a ben vedere, anche lavorare per pagare le tasse, ammalarsi di tumore a 5 anni, morire in grembo, essere traditi dalla tua famiglia, perdere tutto quello che hai per un vizio, commettere un omicidio perché sei drogato, anche tutte queste cose sono incomprensibili, ma io non so mettere ordine tra questi comportamenti umani, non so trovare un perché e non so dare il giusto peso alle cose. Se proprio devo mettere ordine da qualche parte, preferisco pensare all’umanità  tra 10.000 anni, oppure a una variabile inaspettata nella fisica ordinaria che sconvolge gli equilibri della nostra dimensione, o ancora immaginare a cosa succederebbe con determinate derive tecnologiche (in male e in bene, come in Man of Sorrows)… Lì posso provare a mettere ordine, lì riesco a dare un senso alle vite delle persone, dei personaggi cioè, e a ritagliare a ognuno di loro un senso. Così, quando mi sento disperata, quando non ce la faccio più, quando tutto è troppo inutile qui intorno, mi rifugio nelle mie storie e comincio a mettere a posto. C’è chi pulisce, chi mette a posto casa, io metto a posto le storie. Ci vuole tempo, ci vuole pazienza, ci vuole anche autostima, e io ho poco di tutto questo, eppure la spinta a voler raccontare è così forte che non mi fermo nemmeno davanti alla mia inettitudine. Non mi fermo, perché non ci riesco, e insieme non ci riesco, perché non scrivo quanto vorrei. Però le storie ci sono, tante, nella mia testa, e a volte mi sembra che tutte le storie della mia vita siano in realtà  un’unica, grande storia che ha un unico filo conduttore.

Il Paziente Zero è il mio rifugio di questi anni, insieme a Europa. Infatti, a volte penso che si stiano intersecando pericolosamente, o meravigliosamente, e a volte sto facendo altro e mi dico: “Ma certo! àˆ così!” e sorrido con quel sorriso svanito che mi viene quando penso alle mie storie e che alcuni hanno visto più volte. Il Paziente Zero è la storia di una ricerca: la ricerca di qualcosa che non si capisce fino in fondo e da cui non si sa cosa aspettarsi. Che ovviamente fa paura e che, in un certo senso, da un certo punto di vista, da una certa “etica”, anzi morale, può essere considerato un pericolo per l’umanità . Quello che mi piace pensare è che non sono ancora sicura di come i personaggi arriveranno in fondo al percorso che ho in mente. àˆ lo stesso senso di conforto e smarrimento che provo nel viaggiare: so dove voglio andare, so, all’incirca, cosa troverò, ma non so come ci arriverò e cosa dovrò affrontare per raggiungere la mia destinazione. Ecco, il viaggio forse, come le storie, sono un’unità  di vita che mi piace, in cui riesco a trovare un senso, perché forse riesco a osservarli nella loro interezza.

Che strano: tutto questo bisogno di senso, e paradossalmente la mia vita avrà  un senso molto chiaro solo quando morirò, e sicuramente non per me, che non ci sarò più, ma per chi ci sarà  a “leggerla”. Nel mentre, per compensare questa incolmabile, assoluta mancanza, mi diletto e mi rifugio nelle storie, microcosmi chiusi dove tutto è perfetto.

E, nello specifico, torno a cercare il mio “Paziente Zero”.

Cambia la tua vita con un click

Sono anni che non scrivo cose interessanti, qua sopra. àˆ passato molto tempo da quando mi sono sentita libera di esprimermi liberamente, di parlare di quello che non va e di fare nomi e cognomi, però la verità  è che si cresce, ci si crea delle complesse reti di persone e relazioni, intorno, e basta poco per far crollare tutto. Se questo crollare influenzasse solo me, allora quasi quasi cederei alla tentazione di rovesciare il tavolo. Purtroppo, però, tanto di quello che vivo condiziona fortemente le persone che mi stanno intorno e che amo e non me la sento di fare scelte così radicali anche per loro, non me la sento di buttare all’aria il tavolo e rompere la loro, di cristalleria, più che la mia.

Vorrei non ridurre sempre tutto alla maternità , ma per mia fortuna è stato un evento spartiacque totale nella mia esistenza, sia personale che professionale, e visto che, per compensare la meravigliosa creatura che è Leonardo, il mio piccolo universo ha ben pensato di decostruire tutto quello che io avevo lentamente e pazientemente messo insieme in quasi 34 anni di sforzi, io mi ritrovo davanti a un terremoto che mi deve per forza insegnare qualcosa per il futuro, se non altro per lasciarmi alle spalle tutte le macerie e andare avanti con quello che di sano è rimasto.

Mia sorella Giulia è stata un faro nella tempesta, in questi due anni di sconvolgimenti totali. Ci è sempre stata accanto e ha fatto anche più di quanto poteva per noi. Così pure i miei genitori e i miei suoceri. Una famiglia che c’è stata, con i suoi tempi e i modi che le erano possibili dalla quotidianità . Ma un punto di riferimento per tutto, dai problemi pratici a quelli economici a quelli emotivi.

Di Alice non parliamone nemmeno: dovrei scrivere un “Guerra e Pace” per cominciare ad accennare a tutti i modi in cui c’è stata, in questi anni di psicopatologia. Mia.

Di amici veri ne sono rimasti una decina. Se vi contate, se pensate a chi siete, vi potete anche facilmente individuare, equamente distribuiti tra il mio passato e il mio presente. Persone che si sono sorbite lamentele, pianti, paure, angosce, ansie, dilemmi etici, solitudine, insulti, di tutto. Amici che mi hanno sempre fatto sentire accolta, anche in tutta questa lunghissima fase di metamorfosi totale. Dieci punti fermi che non posso ignorare, che so, a questo punto, mi accompagneranno per sempre. E che hanno un credito aperto, con me: chiamatemi di notte, chiedetemi di soccorrervi su un vulcano che sta per eruttare, fatemi lanciare col paracadute per venirvi a recuperare, o più semplicemente mandatemi un messaggio quando avete bisogno di una spalla su cui piangere o di qualcuno che vi pulisca casa. Io per voi ci sarò sempre.

E poi ci siete voi, che vi dite amici ma siete come quelli di Facebook, una schiera giusto per fare numero, un insieme di frequentazioni tanto inutili quanto dispendiose, a livello di parole, tempo, energie, pensieri. Vorrei liquidarvi con un “Me ne infischio”, ma purtroppo le nostre vite sono pigramente intessute insieme per obblighi sociali, convenzioni, necessità , opportunismo. Vorrei andarmene da voi, vorrei lasciarvi lì nel vostro essere noiosi, ordinari, livorosi, bugiardi, banali, ma non ce la faccio, non ce la faccio mai a essere veramente spietata come molti mi descrivono. Convivenza civile, la chiamano. Io, a volte, la considero codardia. Forse arriverà  il momento in cui mi renderò conto che il tempo della mia vita è veramente così limitato, chissà , e allora farò un vero repulisti. Forse, in realtà , lo sto già  facendo e le chiacchiere di convenienza e cortesia, i “Come stai” e i “Mi dispiace molto” sono già  un bel recinto all’inutilità  che rappresentate nella mia vita. Poi mi sento esclusa quando fate qualcosa e non mi calcolate – non lo fate mai – ma in effetti non vorrei mai essere lì con voi, non vorrei mai ipotecare il mio prezioso tempo libero a parlare di inutilia con chi non capisce cosa significa avere la casa sporca ma un racconto in testa, la cucina sottosopra ma i piedi nel fango dei prati dietro casa, l’angoscia del lavoro eppure l’impossibilità  di parlare o pensare ad altro, perché è anche la tua passione. Siete ordinari e mi annoiate, siete ordinari e il mio esercizio zen di quest’anno è imparare a fare a meno di voi ancora più di quanto non faccia ora. Ce la farò.

Poi ci sono i clienti, e anche qui, quelli che dopo 10 e più anni di collaborazione non si sono eclissati sono forse 4 o 5. Se vi riconoscete tra questi, vi ringrazio, perché valutate la qualità  del mio lavoro più del mio nuovo – e terrificante, a quanto pare – titolo di “Madre”.
Alcuni sono scomparsi così rapidamente che non ho fatto nemmeno in tempo a salutare. Altri sono rimasti, ma con richieste assurde, con tempistiche folli e tariffe dell’anteguerra. Sì, perché io lavoro come traduttrice, tra le altre cose, e la qualità  del mio lavoro aumenta ogni anno che passa, ma non di conseguenza le tariffe delle mie prestazioni. Forse, anche qui, anziché una muta rassegnazione dovrei mettere in campo un’aggressiva competitività  e smetterla di camminare sulle uova dei rapporti di lavoro, ma instaurarne di solidi come il cemento, anche se più radi, forse.

Allora, come si fa a cambiare la propria vita con un click? A lasciare fuori dalla porta vampiri energetici, clienti pazzi, enti pubblici entropici, e soprattutto l’ansia, l’ansia che sia sempre colpa mia e invece non lo è?
La verità  è che non-lo-so. Non ne ho idea, tant’è che non ci sto riuscendo. Per la prima volta da tanto tempo, però, almeno vedo chiaramente il panorama davanti a cui mi trovo. Scorgo con obiettiva freddezza tutti i cadaveri che la mia maternità  ha prodotto e i guerrieri, ancora più forti e cazzuti di prima, che mi sono rimasti accanto. Quindi io contemplo, come Serse prima delle battaglie, e penso, proprio come Serse, che tanto tra 100 anni saremo tutti morti, quindi rimetto le cose in prospettiva con questo pensiero che livella le difficoltà , che livella le arroganze davanti a cui mi trovo costantemente, che livella anche la solitudine e la stizza che mi sale quando mi accorgo di aver investito il mio tempo sulle persone sbagliate.

Capita. Probabilmente, andando avanti, capiterà  sempre meno, o almeno lo spero. Adesso il mio obiettivo è smettere di concentrarmi sul campo di cadaveri che ho alle spalle e guardare l’orizzonte da esplorare che mi trovo di fronte. La puzza ancora mi fa girare troppo spesso, ma passerà . Passerà , e potrò dire di aver cambiato la mia vita. Che poi non è cambiare quello che sta fuori, ma quello che sta dentro, e come guardi il mondo.

Pari opportunità

Da qualche tempo gira uno spot di una nota marca di pannolini che ti spiega come le differenze anatomiche tra bimbi e bimbe non si fermino all’apparato riproduttore, ma si insinuino nelle profondità  culturali dell’educazione. Quindi se sei maschio, puoi essere un avventuriero, mentre se sei femmina è meglio che tu ti faccia desiderare. Se sei maschio ti deve piacere il blu, se sei femmina il rosa. Se sei maschio puoi ambire a una vita di carriera e scoperta, se sei femmina ho già  qui pronto un bel set di pulizie per la casa tutto per te. Rosa, ovviamente.

Spero di non dover nemmeno cominciare ad argomentare quanto sia ridicola la differenziazione qui sopra, quanto sia retrograda e non solo sessista, ma biecamente consumista: ci educano, fin da piccoli, ai settori di mercato che ci preparano quando diventiamo grandi. Bigiotteria, passatempi hi-tech, vestiti, attrezzatura per lo sport, automobili, arredamento casa: dobbiamo diventare dei consumatori diligenti, perché altrimenti pensa che casino se non riescono più a sessizzare un divano, una collanina, un paio di scarpe, e così via. Saltano tutte le regole di mercato per cui la società  si è così ben strutturata, così che poi siamo noi stessi i primi a volere certe cose anziché altre, senza mai fermarci a chiederci se le vogliamo veramente o se è un percorso culturale a beneficio di qualcun altro che ci ha portato a desiderare queste cose.

Io, ad esempio, ho sempre comprato videogiochi. àˆ un’industria? Certo che lo è. Così come l’industria editoriale, l’industria alimentare, l’industria cinematografica. E però io non ho mai comprato i “videogiochi da femmine”. Comrpavo, semplicemente, i videogiochi che mi piacevano. Così come i miei romanzi di formazione non avevano un target specifico, così come i film che mi hanno cambiato la vita non erano “film da donne”. Il problema dei pannolini rosa e blu per femmine e per maschi è una delle tante tappe miliari che noi e i nostri bambini dobbiamo compiere per diventare consumatori non responsabili, per farci riempire le case di cose che non ci servono, per convincerci a lavorare 100 ore a settimana per mantenere un tenore di vita che non ha nessun senso per noi e che, invece, è la base fondante dell’economia in cui ci troviamo inseriti.

Questo è l’aspetto, da madre, che mi interessa di più: cercare in ogni modo di passare un po’ di spirito critico a mio figlio e fargli capire che se gli piace preparare il caffè e passare la scopa anziché giocare col trattore e con il trapano Berto, allora va bene così. Dopotutto, suo padre lo fa. Io lo faccio. E quindi lui ci imita. Il problema è quando anche gli adulti sono perfettamente integrati nel ciclo del consumo e quindi fanno, a loro volta, solo azioni “normali”, solo azioni che rispecchiano i modelli della pubblicità  o delle istruzioni sui prodotti (vorrei vedere un uomo che passa il mocio, una volta: in casa mia lo fa Giacomo, perché non posso comprargli un diavolo di mocio in cui ci sia un uomo sulla confezione, anziché una donna?) e quindi i figli cominciano a settorializzare le attività : la cucina è della mamma, il garage è del papà , i mestieri li fa mamma, del giardino si occupa papà , e così via all’infinito.

Certo, devo ammettere che cercare di vivere una vita normale in mezzo a tutti questi stereotipi grotteschi a volte non è facile. Perché, ad esempio, tante persone non capiscono che quando hai un figlio hai meno tempo, che sei meno disponibile “flat 24 ore su 24” e che bisogna concentrare gli appuntamenti, le chiamate, i task. Perché quando si tratta di pulire il cesso, allora c’è una netta distinzione tra maschi e femmine, mentre quando si tratta di lavorare (e, bada bene, non di guadagnare) allora no, non ci devono essere differenze di performance, di disponibilità , di focus, di workflow, di need, di push, di.

Io lotto ogni singolo giorno contro una solitudine preoccupante e contro la fatica smodata di non essere una persona con interessi “commerciabili”, con un lavoro in proprio, con difficoltà  gestionali su ogni fronte. A volte penso che sarebbe veramente più semplice se, invece di cercare ottusamente di lavorare, mi rassegnassi a fare la casalinga e la smettessi di dimenarmi per mettere a frutto competenze, passione, esperienza, e passassi la giornata a pulire casa, a stirare vestiti e a passare il mocio con l’effige di donna sulla confezione. Essere “alternativi” oggi non è fare i punkabbestia, non è fare la rivoluzione, non è prendere e partire per fare un viaggio intorno al mondo. Essere alternativi oggi è rimboccarsi le maniche e cercare di fare quello che si desidera fare, nonostante la società  remi contro questo desiderio e nonostante la tua formazione (culturale, universitaria, professionale) venga sempre messa in secondo posto se sei donna, perché “tu devi stare con tuo figlio”. Io non DEVO stare con mio figlio, io ci VOGLIO stare. Però VOGLIO anche lavorare, quindi come si fa? Con tanta, tantissima fatica, e ricordando ogni giorno che il principio che mi deve guidare è lo spirito critico, il desiderio di auto-affermazione e la passione.

Però, a volte, come in queste settimane, come in questo anno, è un percorso davvero solitario e in salita.

Didattica estrema

Nella mia vita, posso facilmente distinguere due modi diversi di imparare, davanti a cui, nel tempo, mi sono trovata.

Il primo è stato, ovviamente, il mondo ovattato e accogliente dei libri. Lo studio, la ricerca, l’elucubrazione, il vivere la vita attraverso un comodo filtro di carta. Poi anche digitale, perché i videogiochi non hanno certo avuto un ruolo secondario nella mia formazione. Nessuno sano di mente può non rimpiangere il periodo della propria vita in cui tutto avviene per filtro altrui. Oggi sei una principessa da salvare, domani l’idraulico che la salva. Ti svegli e sei un investigatore, vai a letto dopo aver ucciso mostri fantastici. Leggi poesie che ti aprono varchi su altri mondi, scrivi lettere che ti cambieranno la vita. Il filtro della lettura e della scrittura è il mio porto sicuro, il luogo in cui mi sento a mio agio, la dimensione in cui nulla di male può accadere, e quando accade stimola le corde giuste, i sentimenti giusti, non quest’ansia senza fiato che mi viene, invece, davanti alla vita vera.

La vita vera è il secondo banco di prova su cui ho dovuto imparare. All’inizio sembrava più facile, perché le attività  della vita sono sempre in numero inferiore rispetto a quelle della finzione, quindi pensavo di potermi barcamenare meglio. Mi sono però ben presto resa conto che la molteplicità  e la varietà  dei mondi di finzione è tenuta insieme da una visione superiore, da uno sguardo dall’alto che permette di organizzare e di dare un senso all’entropia. La vita è più essenziale, se vogliamo, ma totalmente senza un fine, totalmente allo sbando, totalmente imprevedibile. Senza qualcuno che la governa, senza l’illuminata mente dell’autore in grado di tirare le fila di quello che accade e di accompagnarti verso l’emozione giusta. La vita vera, per me, è stato scoprire che non sempre giocare secondo le regole porta ai risultati sperati. Che ognuno, in effetti, gioca secondo le proprie regole e, senza nemmeno farlo apposta a volte, si creano dei paradossi, degli inghippi, dei corto circuiti che ti travolgono.

La prima volta che mi sono accorta che giocare secondo le regole non serviva a niente è stato durante il dottorato. Non avevo, in realtà , capito il set di regole che mi era stato messo davanti, e ho applicato ottusamente il mio, sperando che dedizione, passione ed entusiasmo fossero abbastanza. Non lo erano nemmeno lontanamente. Anche il mio primo “lavoro d’ufficio” vero e proprio ha subito la stessa sorte: mi è stato fatto notare che la posizione che avevo sognato da tutta la vita, per cui avevo studiato, sgobbato, per cui avevo giocato e imparato, non era in realtà  il posto giusto per me. Che non facevo parte della squadra con cui sentivo di essere sbocciata, per cui avevo fatto le mie prime serate al lavoro (e poi, quante altre). Che non ero veramente adeguata, perché i miei impulsi, il mio atteggiamento erano da cavallo sciolto.

Ora, quello che sta succedendo ora ha poca importanza. Ne ha molta, in realtà , ma ne ha anche pochissima, perché nonostante le montagne che stiamo scalando, io sono sempre lì a pensare “e se anche stavolta le regole non tornassero? E se anche stavolta scoprissi, all’ultimo miglio, che ho frainteso il senso di tutto quello che stiamo facendo?”

Io voglio raccontare storie. Lo so che sembra strano detto da una di 35 anni che ha scritto qualche racconto e che ha poi seimila progetti video nel cassetto, ma che ancora non ha regalato molto al mondo, però è questo che voglio fare, raccontare storie. Storie fantastiche, tendenzialmente, in cui i personaggi si muovono in un apparente caos sormontato da regole ferree e da un obiettivo che, presto o tardi, si rivelerà  loro in tutta la sua semplicità . Quindi mi dispero ancora quando, mentre cerco di raccontare queste dannate storie, incappo in sistemi di regole sballati, che non condivido, che mi stritolano, che mi fanno mancare il fiato. Pubbliche amministrazioni, furbizie, raccomandazioni, piccolezze, prevaricazioni, finto giustizialismo. Io sono molto, molto stanca.

Come sono stanca anche di svegliarmi e avere i conati di vomito, o di dovermi chiudere in una stanza da sola all’improvviso perché ho un attacco di panico e non voglio che qualcuno mi veda così. Come sono amareggiata e disperata perché, soprattutto, non voglio che mio figlio mi veda così. Ormai sono anni che imparo nel modo più duro, e sono stanca di essere così coinvolta. Forse, se non avessi letto tutti quei libri, se non avessi giocato a tutti quei giochi, forse avrei meno aspettative impossibili sulle regole e sugli obiettivi di questa vita bislacca. Forse riuscirei a lasciarmi scorrere le cose addosso, forse riuscirei a chiudere un faldone di pratiche e di conti e a pensare che non è colpa mia, che non ho fatto niente di male, che non posso “ripetere il livello” e farlo meglio, che non c’è nessun autore onnisciente che mi ha guidato in un percorso sensato. Penserei, finalmente rassegnata, che alcune cose semplicemente non hanno un senso, che posso solo evitare di fare gli stessi errori in futuro e che posso allontanare quei vampiri emotivi che, a un’empatica come me, succhiano vita ed energia a ogni parola.

Tutto quello che ho vissuto, però, va poi a fare parte di quei momenti di felicità  spensierata e totale che ancora so provare. Non posso rinnegare tutto, non è tutto nero, non sono più dentro un buco. Diciamo che è solo una pozzanghera lungo il percorso, questo periodo fatto di doveri assurdi e di riscontri scarsi. E se riuscirò finalmente a far uscire almeno una di tutte quelle storie, da queste mani, da questa testa, allora non sarà  stato tutto vano.

Il peggior nemico delle donne

Sono le donne.

Sono quelle che ti mettono i bastoni tra le ruote qualsiasi cosa tu faccia, se appena appena sei diversa da loro. Oppure se potresti essere troppo simili. Quelle che sul lavoro arrivano tardi agli appuntamenti quando sanno che hai un bambino da andare a prendere, quelle che ti giudicano qualsiasi sia la tua scelta educativa o il tuo modello di famiglia, quelle che ti fanno le scarpe nella settimana in cui sei ammalata, quelle che la maternità  ti rende invalida tutta la vita, oppure che se non sei madre non capirai mai il vero senso della vita.

Ci sono alcune donne che ho avuto l’onore di incontrare sulla mia strada che sono cazzute, solidali, affettuose, disponibili, intelligenti, creative, devote ma anche egoiste, presenti ma non troppo. E queste sono le donne belle, quelle che mi piacciono.

Poi ci sono le donne arriviste, le donne che cercano di fare gli uomini, le donne che si schierano con tutti tranne che con le altre donne, perché così non dimostrano mai debolezze. Le donne che vengono a pranzo da te per vedere come te la cavi, ma poi rimandano per anni un invito a pranzo o a cena, perché qualsiasi cosa è più importante che passare dell’altro tempo insieme, ora che ti hanno inquadrata. Le donne che ti dicono che ti aiuteranno e poi scompaiono perché hanno altro da fare, e non ti avvisano nemmeno. Le donne che fanno parte di circoli e di congreghe e di associazioni, ma che poi non sanno avere un dialogo e sfruttano il potere per schiacciare gli altri con arroganza, e non per farli crescere con eleganza.

Quindi, non diciamoci fesserie: non mi piace la festa della donna, né mai mi piacerà , finché le donne continueranno a essere le proprie peggiori nemiche.

Amore

Bisognerebbe insegnare ai bambini a imprimersi nella mente la prima volta che si sentono l’amore. Perché, sono convinta, quella sensazione, l’amore come l’hanno conosciuto la prima volta, sarà  il motore che li spingerà  avanti nella vita, quello che li farà  sognare, che farà  prendere loro decisioni, che li spingerà  a raggiungere il limite e ad andare oltre.

L’amore è fortissimo, ti prende in contropiede, può essere per ogni cosa, per ogni persona, per ogni ricordo, per ogni luogo, per un cibo, per una musica, un profumo, per tua nonna, per degli occhi visiti in fotografia, per qualsiasi cosa davvero. L’amore, quando c’è, è forte, è fortissimo, e sovrasta tutto, perché è egoista, è egocentrico, è una macchina da sopravvivenza.

Allora io vorrei ricordare la prima volta che ho provato questo amore, totale. Non so se è stato per una persona, per una poesia, per una musica, per un’idea, per una sensazione. So solo che nelle serate di quasi primavera come questa è inevitabile che io passi il mio tempo ad ascoltare musica di vent’anni fa, a leggere poesie, ad ascoltare Charles Sagan che mi accompagna alla scoperta dell’infinito, a pensare al mio amore grande che mi aiuta a uscire dai miei buchi neri e, da un anno a questa parte, a pensare anche a un piccolo essere che adesso c’è e prima no, ed è amore concentrato.

Ma penso anche a occhi che ho visto solo in fotografia, penso a chi ha scritto le parole più belle che abbia mai letto, penso alle note di un pianoforte e a delle mani, le mie. Penso a prati e al mio cane Ulisse, penso alla mia famiglia. A volte piango, a volte rido, spesso mi sdraio a pancia in su ovunque mi trovi come a guardare il cielo, anche se in mezzo c’è un soffitto. Chissà  che diavolo ho provato la prima volta che ho provato l’amore, perché per me è questo: un guazzabuglio di cose che solo sommate e tutte insieme, come un Aleph nel mio cuore, significano gioia. Succede quasi sempre la sera. Spesso, ancora oggi che ho una famiglia tutta mia, quando sono sola. Quando arriva, devo aprire la finestra, non importa se fuori fa ancora freddo, io sento nell’aria quell’odore inconfondibile che c’è ogni anno alla fine dell’inverno, a un certo punto, quando la vita dice alla morte “Sono ancora qui, non hai vinto tu nemmeno questa volta.”.

Me ne convinco sempre di più: passiamo la nostra vita a ricercare un’epifania ancestrale, e chissà  da dove ci arriva, chissà  se l’abbiamo scelta noi o è stato un caso, chissà  se cambia, nel corso dell’esistenza, o resta sempre uguale. Per me l’amore si è arricchito, ma la sua manifestazione è rimasta sempre la stessa: intensità , sogno, poesia. Un momento che aspetto per troppo tempo, a volte, ma che quando arriva mi ricorda come sono davvero, come voglio essere, anche.

“Che sono un sovversivo, tuo sovversivo amore… Non c’è torto o ragione. àˆ il naturale processo di eliminazione…”