Eureka Street

E’ in rari momenti come questo in cui mi rendo conto dell’armonia del tutto.

Ho passato quasi un anno aspettando di scrivere ancora, per me è tanto tempo. In realtà , ho scritto su vecchi quaderni fatti di carta riciclata e pagine pelose, in cui la punta della stilografica si incastra, in cui le mie lacrime lasciano macchie grandi come monete da due euro, quaderni che poi nascondo sperando che qualcuno rispolveri quando sarò morta.

In realtà  è incredibile come anche quando non scrivo, la narrazione dentro di me continui instancabile e incessante. Una voce, una delle mie voci, che fa da narratore della mia vita, mi accompagna sempre e commenta e riflette e analizza. E pontifica, e giudica. Perciò, quando raramente come in questo momento, inaspettatamente, finalmente tace, allora vedo le cose per quello che sono, respiro più leggera, mi concedo lunghi secondi per sognare ed essere buona e non odiare.

E’ un anno ormai che vivo in un posto nuovo e, insieme a chi amo, lo abbiamo già  riempito di ricordi, di emozioni, di lacrime e di risate, di bevute il sabato a pranzo e di canzoni cantate a squarciagola sul pavimento del portico, di sorrisi, di silenzi, di film, di storie, di futuro e di passato. Non credo molto negli anniversari, ma devo dire che questa volta è diverso, perché un anno fa ho cominciato tanti viaggi, uno reale e uno interiore, e anche se con un po’ di fatica e tanta paura, questi viaggi mi stanno portando lontano e mi stanno facendo crescere – davvero – e mi stanno aiutando a capire chi sono.

E in tutto questo c’è una magnifica costante, LA costante, di cui mi rendo conto a sprazzi, non sempre, ma adesso sì, adesso sì.
“Tutte le storie sono una storia d’amore”, e per me è più vero che mai. L’amore che condivido ogni giorno  e ogni notte con una persona speciale, l’amore che mi fa capire che sono speciale, che tante persone pensano che io sia speciale. Ma anche l’amore per quello che faccio, l’amore per le mie storie, che a volte tengo troppo nascoste, o trascuro, solo perché penso di non essere abbastanza brava da dare loro una forma. L’amore per i figli, l’amore per le sorprese, l’amore per le parole che definiscono la vita e che mi fanno dare una forma alle emozioni, che mi aiutano a ricordare, l’amore per quello che racconto e per quello che mi raccontano e per quello che sto per raccontare.

A volte, quando finalmente tutto tace e non sento più nessuna voce, ma solo una musica che mi lascia libera di immaginare, allora sono felice e capisco che, semplicemente, sono così, che devo smettere di dibattermi come se fossi impigliata in una rete e devo cominciare a nuotare in mare aperto. E’ così che mi sento oggi, è per momenti in cui mi sento così che resisto tutto il resto del tempo, è costruendo e preparando momenti così, di consapevolezza inaspettata, che passo la mia vita.

E anche se a volte fa male, è l’unico modo di vivere che conosco, è il mio modo di vivere, e non smetterò. 

Il trasloco soft

Certo, non è che spostarsi di 300 chilometri sia l’impresa più ardua mai affrontata da essere vivente, ma è comunque sempre una bella avventura.

La fase 1 è stata: impacchettare tutto e trasportare l’essenziale. Ora stiamo aspettando l’imbiancatura della casa nuova e l’attivazione di linea telefonica + internet (per chi ci conosce, sa che possiamo stare 3 mesi senza gas, ma non 3 giorni senza internet).

Venerdì prossimo cominceremo la pulizia/il rimontaggio/la sistemazione di quello che per ora giace in una cantina a Villorba, e che è la prima parte dei nostri miseri averi.

Per metà  maggio avremo trasportato il resto (tra cui Bravia) e, speriamo, avremo acquistato un letto e un divano.

A giugno arriveranno il tavolo e le sedie per la sala da pranzo, nel mentre mangeremo stile giapponese.

Casino? Confusione? Panico? Affatto. La verità  è che è ormai un anno che viviamo “in appoggio” tra la nostra Mansarda e la gentile ospitalità  veneta, per cui questa ultima fase “confusa” per noi è come vedere la luce in fondo al tunnel. Avremo un sacco di scatoloni, ma è l’ultima volta, almeno per un po’. Qualche anno, ecco. Mentre prima era ogni mese.

E poi, sarà  l’aria di primavera, sarà  la casa nuova, sarà  un po’ tutto, ho una gran voglia di fare, di lavorare, di montare, smontare, tradurre, scrivere e tutto il resto.

Da venerdì prossimo, chiunque voglia venire a trovarci (portandosi un sacco a pelo) è il benvenuto.

Da giugno, potremo invece ospitare fino a 6 persone comodamente. Ebbene sì. 6 persone comodamente. Mica poco, no? Su consiglio di quella sciamannata dell’Alice, probabilmente, faremo una festa di inaugurazione intorno al solstizio d’estate, quindi tenetevi liberi intorno a quella data e, se vorrete, potrete venire a scoprire la nostra casetta di pietra, sassi, mattoni e legno che per i prossimi anni ospiterà  le nostre idee, i nostri sogni, il nostro da fare e chiunque vorrà  venirci a trovare.

Cose belle da fare

Tra le cose belle da fare prima di morire ci sono:

  1. la pizza fatta in casa, perché le cose semplici sono anche le più gustose.
  2. una passeggiata nei boschi sotto la pioggia, solo per il gusto di sentire i rumori e per tornare a casa bagnati fradici.
  3. lavorare con passione, perché è il vero segreto per dormire sereni come bambini.
  4. avere tanti progetti e sogni per il futuro.

 

Oggi sono fortunata, perché ho tutte queste cose insieme, accompagnate da una sorta di tranquillità  serafica che mi deriva da una strana consapevolezza, uno stato di grazia raro e stuzzicante che mi fa presagire belle cose, per una volta, e non fantastilioni di inesistenti tragedie imminenti.

Oggi è una bella giornata per sentirsi in armonia.

Che io non sappia vestirmi…

… in modo adeguato alle circostanze, è ormai un mio tratto caratteristico, riconosciuto e sottoscritto da chiunque mi conosca da almeno una mezzora abbondante.

Così, se volete commentare il mio stellare intervento su Corriere.it, in cui ero vestita come lo sfondo (grazie Italo per avermelo fatto notare), potete postare qui!

Grazie a Federico Cella e ai ragazzi di Corriere.it!

Perché non piango?

Per la prima volta, da anni a questa parte, ho più che motivo di piangere.

Per la prima volta, da anni a questa parte, non scende neanche una lacrima dai miei occhi.

Dev’essere il freddo, che le trasforma in cristalli di ghiaccio e le fa cadere sul cuore, prima che escano dalle palpebre.

Dev’essere che sono cresciuta e che sento che anche io che devo essere forte per chi ho intorno.

Dev’essere che sto diventando un mostro.

Quando ho la febbre…

… sto sempre nello stesso modo. Prima mi viene da piangere e non capisco perché, è come se il mondo stesse per finire. Una sensazione netta e precisa, ma che ogni volta mi frega e mi sembra solo di essere triste.

Poi è sempre buio. Buio come le sette di sera quando stavo male da piccola e mia madre tornava tardi dal lavoro e io restavo con la nonna. Quando stavo male, guardavo tantissima TV. Più del solito. E la sera arrivava presto, troppo presto, anche alle cinque a volte, e dalle cinque alle sette era tutto così strano. Buio, nero, sembrava notte e mia mamma non c’era e io stavo male e mi sentivo un po’ sospesa, ma avevo qualcosa di preciso da aspettare, che lei con i suoi tacchi ovattati e le calze di nylon chiare, un profumo sempre uguale e il foulard di seta viola screziato tornasse e mi desse un bacio e mi facesse passare la febbre.

E poi ci sono i giganti. Quando la febbre è alta, ma alta davvero, sento come la presenza di un essere enorme, dalle mani giganti, con la barba, che mi osserva dalla porta della stanza. Sempre. E poi è anche un po’ come se ci fosse qualcosa di enorme, che però non è una persona, ma un’idea, che mi attanaglia, e non importa se mi giro sul fianco sinistro e cerco di non vederla. Lei sta sempre lì, con il suo gigantismo disagevole.

La fine del mondo. Il buio. I giganti. Questo è quello che mi accompagna quando ho la febbre.

Ora, perché ne scrivo? Perché da qualche giorno non ho la febbre, eppure mi accompagna la fine del mondo e il buio. Ogni tanto – ma solo una o due volte – anche i giganti. E io non capisco cosa significa, perché a parte il raffreddore sto bene, non ho la febbre e sono alquanto “conscia”. Però loro sono lì. Il buio, ad esempio, adesso è qui fuori dalla finestra, e mi guarda, e mi ha anche fatto dimenticare che ore sono. Mi sembra un momento eterno prima di cena, dalle 19 alle 20, in cui sono in camera e aspetto.

O la fine del mondo. La fine del mondo è qui, hanno ragione quei predicatori pazzi che a L.A. se ne stanno con un cartello in mano ai bordi delle strade ad avvertire tutti. Loro hanno capito, hanno capito che il mondo è finito. Certo, il pacco è che non sanno come spiegarlo. Anche io, ad esempio, me ne sto qui al margine di una strada virtuale a gridare continuamente che moriremo tutti, che il mondo è finito, che l’apocalisse è vicina, e però non è che so spiegare esattamente perché. Quindi forse mi prendono per pazza. Non che mi interessi un granché.

Sarà  forse per colpa dei giganti. Queste presenze che sembrano protettrici e che invece forse sono cannibali, che aspettano un minuto in più che tu abbassi la guardia, che la febbre salga di un grado, che la forza diminuisca di un joule, per aggredirti e strapparti anche la pelle, dopo che ti hanno tolto tutto quello che avevi intorno. Non so se sono davvero cattivi, i giganti, so però che sono lì che mi guardano da sempre, e non so che farci con loro, perché almeno fossero un qualcosa da combattere, imbraccerei le armi e saprei cosa fare, invece sono lì zitti, e magari sei tu che ti sbagli, magari la stronza sei tu che pensi sempre male. E quindi non fai niente. Niente di niente. Il peggio.

Forse sto impazzendo sul serio. Forse la mia mente si è stancata di aspettarmi e si sta psicanalizzando da sola, come può.

Mi chiamo Valentina e sono incatenata alla mia roccia di Prometeo da tre cose: la fine del mondo. Il buio. E i giganti.