Io e il mio amico Machete

Il giorno del mio compleanno mi sono regalata il biglietto per la prima di Black Swan al PalaBiennale, alla Mostra del Cinema di Venezia. Perché tanto sapevo che Giacomo e l’ottimo Gian sarebbero venuti con me senza colpo ferire. E così è stato. D’altra parte, quando si parla di cinema, gite insieme e giornate di chiacchiere e girovagare in completo relax, non ci tiriamo certo indietro, noi, mitico trio del Far East e di goduriose serate cinema-popcorn sempre e comunque.

Ieri è andato tutto liscio, dal cielo che era più blu del blu dipinto di blu, dai vaporetti in orario, al fatto che sono finalmente potuta entrare all’Hotel Excelsior anche se ero vestita come una sempliciotta di campagna, dagli innumerevoli panini mangiati ai VIPs avvistati. Che, a dirla tutta, non è che uno va lì per vedere attori & registi, ci vai a vedere i film, e poi scopri con estremo piacere che c’è Tarantino al bar che beve tranquillo, Stanis che si aggira tutto elegante, Danny Elfmann che rilascia dichiarazioni, Salvatores che sorride. Certo, il tutto era iniziato con Eleonora Giorgi e la Ventura che si facevano intervistare/fotografare, più la tristerrima Marina Ripa di Meana con quel cappello fallico ridicolo. Ma è pittoresco anche quello.

Comunque. Mentre stiamo andando via dall’Excelsior senza aver scroccato nemmeno uno spritz, perché siamo persone discrete, vediamo Denny Trejo che esce dall’ascensore e si dirige verso l’uscita, per andare verso la Sala Grande dove di lì a poco sarebbe iniziata l’inaugurazione. Viene assalito da gente più o meno educata. Gian si fa fare un autografo. Io constato da lontano che è proprio uguale a come appare nei film. Perché quest’uomo non solo è il mitico MACHETE, ma ha anche lavorato con il signorino Michael Mann in “Heat – La sfida”. Insomma.

Usciamo e temporeggiamo un po’, poi io in preda al delirio lascivo di questa bellissima città  che è Venezia decido che voglio delle sigarette e mi tuffo saltellando dentro un tabacchino. Pacchetto da 10 a caso. Frugo nella borsa per trovare il portafogli.
In quel mentre, accanto a me, un tizio parla in inglese con la cassiera: vuole comprare una macchina fotografica usa e getta, ma non ha euro, solo dollari. Un rotolone di dollari, peraltro. Io guardo la cassiera, poi guardo lui. O-MIO-DIO! Ma è MACHETE!

Denny Trejo è di fianco a me. Avrà  mille dollari in mano e la commessa non gli vende una macchinetta da 9 euro. A lui. Che è MACHETE. Voglio dire. Glielo dico anche, in effetti, alla cassiera:

“SCUSI, ma lei non sa che quest’uomo è MACHETE?!” mentre Denny Trejo mi guarda incuriosito.

Niente, la cassiera non demorde. I dollari non li vuole. Allora io che avevo giusto i soldi per le sigarette, esco, chiamo Giacomo il quale, salvifico, arriva e paga la macchinetta a Denny Trejo che, per ricambiare, mi dà  cinque dollari. Me ne voleva dare 20, ma io gli ho detto No sono troppi. E poi gli ho chiesto se quei 5 dollari me li firmava. E lui ha detto “Sì, certo.”

E quindi ora mi ritrovo con 5 dollari con su scritto: “I love you. Denny Trejo – Machete”.

Gli stringo la mano. Mi ringrazia. Gli auguro di divertirsi qui. Mi stringe la mano ancora. Addio, mio amico Machete. So che quando avrò bisogno di un favore, tu sarai lì per me. O almeno mi piace pensarlo.

A parte bullarmi tutto il pomeriggio e tutta la sera per questo evento che verrà  inserito per sempre nella mia mitologia personale, ci siamo visti l’ottimo Black Swan (più un altro film raccapriccio, invece, cinese) e ce ne siamo tornati di notte a casa, concludendo alle 3 con un ottimo panino-merda a Treviso.

Oggi ho un mal di testa formato famiglia, un sonno bestia, devo lavorare come non mai, ma non mi importa, perché “la Forza è con me”: ho i 5 dollari che mi ha lasciato il mio amico Machete, e va tutto bene.

I film, la casa in campagna e il karma…

Siamo in “ritiro forzato” nella casa di campagna veneta, che va presidiata finché i legittimi proprietari sono in vacanza.

Ora, se c’è un posto dove mi piacerebbe avere gli arresti domiciliari, prima o poi, è questo. Centinaia di metri (no, non è un’esagerazione) di giardino/parco con animali notturni e diurni, alberi di ogni sorta e rumori che risvegliano la bambina che è in me (facile, a dire il vero).

Mura di pietra, soffitti di legno, stanze diverse, ognuna con un colore, un odore e uno stile caratteristico.

Silenzio. Letti comodi. Divani ancora più comodi. Silenzio e fruscio delle foglie sugli alberi, o gorgogliare della canaletta per l’irrigazione, qui accanto. Sembra un relais in Toscana, di quelli dove si va a guarire dall’esaurimento nervoso. E invece è semplicemente la casa dei genitori di Giacomo, che si sono fidati (non è la prima volta, a dire il vero) e ce l’hanno lasciata in custodia per una ventina di giorni.

Non ci poteva essere posto migliore, allora, per organizzare la sessione più intensa mai realizzata finora di “brainstorming” sceneggiaturiale per i nostri progetti filmici e non, con Giacomo, ovviamente, ma anche con l’indispensabile Neme.

Abbiamo visitato due miniere, inventato una storia nuova, sistemato un soggetto vecchio, riflettuto su una storia altrui, chiacchierato, riso e guardato filmacci. Il tutto accompagnato da buon cibo, ottimo prosecco e qualche birra occasionale.

Da domani si ricomincia a lavorare, chi in ufficio, chi sulle traduzioni, chi su filmati vari ed eventuali, ma non si può dire che questa prima settimana in campagna ci abbia dato pochi frutti. Anche se l’orto è lontano (e anzi, presto vi mostrerò che razza di selva siamo riusciti a coltivare, in due e quasi totalmente inesperti), il karma ci ha voluto ricompensare con un piccolo, grande regalo.

Si chiama Cagliostro, detto anche Patacca, mi è corso in braccio nella strada sterrata dietro casa, mentre facevamo una passeggiata, venerdì pomeriggio, per schiarirci le idee e rimettere in moto le gambe.

Se qualcuno lo ha abbandonato, verrà  inserito nel dizionario come riferimento per la parola “pirla supremo”.

Se si è perso, non gli dispiace restare qui perché non lo teniamo chiuso in casa, anzi, scorrazza nel giardino liberamente e ogni mattina è felice di vederci e di bere un po’ di latte di capra.

Spero tanto resti qui, perché è un piccolo ricordo di questa bella settimana e della nostra presenza in questa casa.

Benvenuto, Cagliostro!

Cose che non avresti mai detto che ti sarebbero mancate

Lavorare in università .

Perché io fare il dottorato l’avevo preso come un lavoro. Non nel senso negativo, tipo “un lavoro”, ma nel senso dell’impegno. Tutto quello spazio, quelle risorse e quelle persone con cui cercare di costruire qualcosa. Imparare, ma da tutto, dalle lezioni a cui assisti, da quelle che tieni, dalla gente con cui parli a ricevimento, dalle pause caffé.

Non so se mi manca anche quel groppo in gola e quel terrore strisciante di quando le cose andavano male – e non ho mai capito perché, e non mi sarà  mai spiegato – ecco, quello non so se mi manca, però tutto il resto…

Fare ricerca è dura, si dice, in Italia. E’ vero, ci sono pochi fondi. Però quando sei in università  (e parlo delle facoltà  umanistiche, di quello che ho visto io), almeno ci puoi provare. Puoi costruire tanto con niente, perché se sei lì e hai tutto quel ben di dio a disposizione è un peccato non sfruttarlo, non inventarsi qualcosa, non cercare di impiegare il tempo in modo creativo. Sì, creativo, perché per me fare ricerca era un processo creativo E un lavoro di squadra. La solitudine, diciamocelo, l’ho sempre sofferta. La torre d’avorio non fa per me (tant’è che non ne faccio più parte). E’ più come svegliarsi un giorno e decidere di “cambiare il mondo”, almeno un pezzetto, almeno un poco, almeno qualche riga, e farlo, con calma, con pazienza, tutte le settimane alla stessa ora.

Non credo nei riti e tendenzialmente credo nella discontinuità  degli sforzi e nei lampi di genio, ma lavorare in università , con i ragazzi del GamesLab, invece, mi ha insegnato la pazienza della costanza, mi ha fatto vedere come dal niente nasce e cresce qualcosa, che magari alla fine si trasforma e se ne va altrove, ma intanto io c’ero, io l’ho visto, io ho anche fatto in modo che accadesse, anche se le vere forze erano loro.

Anche la mia tesi. Parole su parole che si sono ammonticchiate. Sensazioni e sentimenti legati a ogni pagina, a ogni capitolo, a ogni argomento. Ricordo quasi tutto, intendo ricordo dov’ero mentre scrivevo, quando mi sono venute certe idee, quando ho pianto di rabbia, quando ero a Londra e scribacchiavo e fotocopiavo libri, quando stavo male e però non riuscivo a smettere. Ricordo i “Non ce la farai mai” ma anche la gratificazione di discutere davanti a persone che alla fine il mio lavoro lo avevano letto davvero e che mi facevano obiezioni e critiche stimolanti che mi porterò con me e che non ho lasciato nel dimenticatoio di quel giorno.

Forse doveva passare solo un po’ di tempo perché riuscissi a ripensare agli anni del dottorato con un misto di malinconia, tristezza e soddisfazione. Malinconia perché sono passati ormai anni. Tristezza perché a volte mi sembra che sia finito tutto lì. Soddisfazione perché penso di aver dato tanto, non dico tutto ma sicuramente molto, di me intendo, e quindi ho la coscienza pulita e posso credere che anche quel percorso abbia avuto un senso. Forse.

Certo, ora non ho più le macchie sulla pelle, il mio fegato va alla grande, non resto allibita da una serie di circostanze raccapriccio che non scorderò mai, però in fondo sono felice di aver provato anche questo, nella vita, e di potermi portare nella memoria un pezzetto di persone che ho incrociato in quel mondo e che mi hanno dato tanto e a cui spero di aver restituito almeno un po’.

Come in un romanzo…

“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendà­a si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio.”

“MUCHOS Aà‘OS DESPUà‰S, frente al pelotà³n de fusilamiento, el coronel Aureliano Buendà­a habà­a de recordar aquella tarde remota en que su padre lo llevà³ a conocer el hielo.”

Io non mi chiamo Aureliano Buendà­a, non vivo a Macondo (ma ne abbiamo già  discusso, mi pare) e non è pomeriggio.

Però stasera insieme a Homer Paggiarin abbiamo messo in funzione la tanto inutile quanto esilarante macchina del ghiaccio. 12 cubetti in 12 minuti, niente di paragonabile al blocco di ghiaccio gigante portato in un villaggio sudamericano senza tempo, però l’idea è la stessa.

Così come i puntatori laser. Gli acquisti vantaggiosissimi su Ebay. I videogiochi e l’indolenza. Tutte passioni che Homer mi ha trasmesso.

E da stasera, anche il ghiaccio che si forma davanti ai nostri occhi stupefatti (e un porco libretto solo in tedesco da cui sono riuscita a capire solo i numeri delle pagine, dannazio).

Lost è finito…Lost comes to an end…

Lost è finito, io sto per fare il giro di boa dei 30 anni, fuori c’è il sole ed Europa non è nemmeno ai nastri di partenza. Insomma, ce n’è ancora da fare.

E’ che non so cosa dire, se non che ho la testa piena di immaginazione e che adoro chi riesce ancora a farmi fantasticare così.

Grazie di questa storia.

Lost is ended, I am near my 30s, it’s sunny, outside, and Europa is not even an embryo. There’s so much to do… But right now I feel like crying.

I don’t know what to say, I don’t know what to do, but my mind is full of images and imagination and I love those people that make me dream like this, again and again.

Thank you so much!

Macondo

Mi sento a Macondo, stanotte.

Se riesco a escludere mentalmente il computer, i muri della nostra casa al secondo piano, tutti i miei oggetti, il letto e questa solitudine, stanotte mi sento a Macondo. E’ colpa della pioggia sul tetto, che non smette da quando sono tornata a casa. E’ colpa dello stato polveroso e indolente in cui versa il mio cuore in questo periodo, tutto concentrato su cose insignificanti, sempre più miope nei confronti della vita, a volte, mi sembra.

Il problema vero della pioggia è questo viverla a metà : cerchiamo in tutti i modi di starle alla larga, ci rintaniamo al coperto, ci togliamo subito i vestiti umidi e le scarpe infangate, ci lamentiamo come solo i migliori vecchi sanno fare che Questa primavera è veramente anomala, quando poi sicuramente sarà  uguale identica a tutte le altre ottanta (se ci va bene) della nostra vita.

La verità  è che non sono affatto a Macondo, ma sono sempre qui, a Cardano al Cazzo e la verità  ancora più vera è che l’unica cosa che mi resta da fare ora è cominciare a scavare. Perché quando tutto va bene, quando la persona che mia sta bene ed è felice, quando un lavoro ce l’hai e ti piace, quando le tue sorelle crescono e non se la cavano poi così male, quando riesci anche a svegliarti la mattina e a pensare che non è poi tutto così uno schifo, ecco allora dovresti tirare un respiro di sollievo. Dovresti metterti lì e dire Meno male ed essere felice e gioire, magari. Invece cosa faccio, io? Cosa faccio? L’unica cosa che so fare: smetto di dormire. E’ matematico. E’ diventata, con gli anni, la mia certezza. A un certo punto, non dormo. E, anche se non sono a Macondo, questa cosa mi piace da matti, perché dopo le prime notti in cui mi sento “sbagliata” e mi dico No, Vale, dormi che se no domani poi… ecco, superato lo scoglio del “domani poi…”, mi sento di nuovo “a casa”. In questa meravigliosa dimensione di silenzio, stanze vuote, passi felpati e guardare il cielo seduta per terra.

Se fossi a Macondo uscirei per le strade del villaggio e farei qualcosa di strano, qualcosa di bizzarro e inspiegabile, per far parlare la gente, il giorno dopo, e per creare scompiglio. Se fossi a Macondo, magari, passerei queste notti insonni a costruire cose, o farei un lungo viaggio per tornare portando merce rarissima da vendere al mercato. O mi travestirei da ragazzo, pur essendo una ragazza, e mi imbarcherei per mare, con le gambe a penzoloni dalla prua della nave, e vedrei porti lontani, prenderei qualche strana malattia, conoscerei l’amore e tornerei a casa con un figlio.

Forse a Macondo lei avrebbe potuto essere felice. Forse avrebbe fatto quello che voleva e non quello che gli altri si aspettavano. Avrebbe comunque fatto tre figli, cucinato, subito ingiustizie, perpetrato tradizioni familiari assurde e preziose, ma senza quella sfumatura di sbagliato che le vedo ogni giorno in volto, senza quel velo di malinconia per aver guardato il mondo con un occhio solo. E, per una volta, non sto parlando di me. Peccato che non si possa vivere in un libro. Perché anche se c’è fame e povertà , incesti e malattie, anche se ci sono nomi tutti uguali e nonni che sembrano nipoti, c’è anche un senso, c’è anche uno schema, niente è lasciato al caso, ogni personaggio, ogni evento, ogni parola, addirittura le virgole hanno un senso e sanno qual è il loro posto nel mondo.

Noi invece cresciamo con tutti questi sogni – i nostri – e veniamo caricati di tutti questi altri sogni – quelli dei nostri genitori, se sono vivi, o quelle delle loro possibili vite, se sono morti – che non solo non si avvereranno mai, ma che ci illudono anche che potrebbe esserci un ordine. Nelle vicende, nelle emozioni, negli oggetti nelle stanze. Invece non c’è nessun ordine, non c’è nessun equilibrio. Io lo accetto, ma per chi ancora sogna che almeno io ce la faccia, è dura. Orgogliosa di me? Ci prova, ci provano, ma non è facile quando invece di fare passi avanti facciamo solo passi indietro.

Per questo faccio finta di essere a Macondo, stanotte. Perché lì non si deve dimostrare niente a nessuno, ma soprattutto – e questa è la ragione vera – perché vivere lì è come avere sempre un piede fuori dalla porta, essere pronti a calcare una strada polverosa nel mezzo del mezzogiorno per prendere un treno a vapore che ti porterà .

Spero di trovarmi un po’ di Macondo, nel cuore. Ne ho bisogno.