E’ un tipo di carta. Io non lo sapevo (non so tante cose).
25% Cotton Fiber USA. Mica roba da poco.
Si prendono la briga di scrivermi su carta di qualità , firmando a mano la lettera, solo per dirmi che “Non hai vinto, ritenta”.
Che poi non è questione di vincere, è questione di bravura. Ma visto che sono io e che a quanto pare non ho mai “what it takes”, allora devo più pensare che sia solo una questione di fortuna. Come fanno tutti quelli che ogni settimana giocano al lotto o che quando trovi un buon lavoro ti dicono “Come sei stata fortuna”. Non “brava”. “Fortunata”.
Beh, oggi mi sento di condividere un grande, grandissimo segreto con il resto del mondo: la fortuna non c’entra niente. Io non credo nella fortuna, non credo nella sfortuna. No, nemmeno se un frammento di meteorite colpisce te tra sei miliardi di persone.
Il problema è che abbiamo tutti feroci istinti solipsisti. Che ci crediamo speciali. Che pensiamo, ci illudiamo di poter dare un contributo in qualche modo, diamo retta a chi ci parla di Quanti e di energie, di Karma e di costellazioni familiari. E invece siamo qui nella nostra medietà più totale (devo ringraziare qualcuno per questo termine ma non ricordo chi) e però abbiamo sogni grandi, aspettative, speranze, vogliamo che nostro padre sia fiero di noi e gli diciamo che il rifiuto di un’università prestigiosa era solo “pubblicità “. Già .
Mentire a trent’anni perché ti senti un fallimento e perché ti vergogni che il tuo meglio non sia mai abbastanza. Mentire perché ogni frase che ti esce dalla bocca e dalla testa ti sembra così visceralmente banale da farti sorridere, quasi.
Eppure in questi giorni sto bene, sono felice: lavoro tanto, sperando di poter continuare. Per la prima volta dopo tanto tempo ho qualcuno che non mi dice sempre “Va bene, brava”, ma che mi dice “Così non funziona, questo non suona, questo riscrivilo”. Ed è un processo che mi porta a crescere, non mi frustra, mi fa migliorare. E’ lo stesso motivo per cui mi imbestialisco quando mi dicono “Bel racconto Vale”. Non ditemi “Bel racconto”, bello è solo l’aggettivo più neutro e insignificante a cui potete pensare. Ditemi qualunque cosa, ma non che quello che scrivo è “bello”, vi prego.
Ora, dicevo, devo solo trovare un modo di convivere con la costante e ineluttabile possibilità di fallire. Che non è così semplice, quando si pensa di aver ricevuto tanto e di non aver ridato indietro molto. Quando si pensa che qualcuno abbia investito su di te e che tu puoi essere solo una cocente delusione, continuamente, ogni volta, e ancora e ancora.
Perché io non voglio avere sempre ragione. Non mi interessa avere ragione. Io voglio discutere, voglio sbagliarmi, voglio ricredermi, voglio ridere degli sbagli che ho fatto, voglio migliorare. Vorrei che uno, due, mille errori non fossero la fine di tutto, ma che ci fosse modo di discutere, di riprovare, di avere una seconda chance. Ecco, forse ho paura di non avere seconde chance. Delle porte chiuse in faccia. Del fatto che quello che faccio non riesco a farlo con la stessa intonazione e la stessa intensità , sempre, ma che ho dei picchi e delle valli, degli alti e dei bassi. Quello che spero è che i picchi siano abbastanza alti da compensare il basso delle valli. Altrimenti siamo daccapo: sono solo una media di me stessa.
I OBSERVE: “Our sentimental friend the moon! |
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Or possibly (fantastic, I confess) |
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It may be Prester John’s balloon |
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Or an old battered lantern hung aloft |
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To light poor travellers to their distress.†|
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She then: “How you digress!†|
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And I then: “Someone frames upon the keys |
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That exquisite nocturne, with which we explain |
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The night and moonshine; music which we seize |
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To body forth our own vacuity.†|
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She then: “Does this refer to me?†|
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“Oh no, it is I who am inane.†|
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“You, madam, are the eternal humorist, |
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The eternal enemy of the absolute, |
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Giving our vagrant moods the slightest twist! |
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With your air indifferent and imperious |
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At a stroke our mad poetics to confute—†|
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And—“Are we then so serious?†|