Senza rimpianto

La musica ha sempre avuto uno strano effetto su di me.
Molte persone associano le canzoni ai ricordi. Certo, anche a me a volte capita. Soprattutto con gli Smashing Pumpkins e pochi altri, tipo i Pearl Jam o De André.
Quello che mi capita più spesso, però, e quando dico spesso intendo quasi sempre, è di “ricordare” cose che non ho mai vissuto. La musica mi ricorda come non sono stata, come avrei potuto essere, come avrei voluto e non ho avuto il coraggio.
Mi ricorda di solitudini quando volevo stare in compagnia e di rumore intorno e confusione quando volevo finalmente concentrarmi su me stessa.
Mi ricorda momenti che non ci sono stati, baci che non ho dato ma avrei voluto, persone che non esistono, ecco, soprattutto la musica mi ricorda persone che non esistono, né in cielo, né in terra, né tutt’intorno, ma solo nella mia piccola testa fantasiosa, sempre piena di castelli in aria e di altrove dove mi rifugio.
Oggi è un giorno di musica e di rifugiarsi. E’ un giorno in cui vorrei capire come sto, in cui vorrei ascoltarmi, ma non ci riesco, e ascolto canzoni di una Torino dove non sono mai stata, che ho visto tra sprazzi di sonno e alcool qualche anno fa, girando la notte con Daniela, e questo è un ricordo vero, ma quanto dolore per un ricordo che esiste e altri mille che mi sono inventata, quanta tristezza nel pensare che sta scorrendo via tutto, che non so più distinguere (ma ne sono mai stata capace?) tra la realtà  e il mio mondo, tra quello che vedono i miei occhi e quello che mi si forma solo nella testa, quanto male per tutte le mie fughe.

In giorni così preferisco pensare di essere un elfo, di essere un soldato, di essere un afro-americano che cerca riscatto, una ragazza armata di macchina fotografica contro l’orrore, un ragazzo che non sa più dove si trova eppure è nella sua stanza, a casa sua, me stessa con uno scopo.
Ho sempre amato i miei mondi persistenti e tutti interiori, queste fantasie infinite con cui convivo e che alimento da sempre, ma ogni tanto la consapevolezza che tutto questo è solo per me, è solo in me, mi disarma, mi angoscia. Tutta questa bellezza che non esiste e tutta questa concretezza che puzza, ha colori deprimenti, è faticosa e priva di significato.
Qualcuno dice che non si può vivere di sole illusioni, io non ne sono convinta.
Tutto quello che sono è un’illusione, tutto è apparenza, tutto è vuoto, sono stata così brava a costruire una prospettiva inventata di me che ora nemmeno io ricordo più come sono.

E la musica mi dorga, mi solleva, mi uccide, ma mi porta via, non sono più qui, sono anni fa, altrove, sono tra anni, ovunque.
Sono me stessa come avrei potuto essere senza tutti questi errori, sono me stessa senza tutti il mio interminabile elenco di rimpianti, senza tutte le illusioni che mi sono fatta, senza le attese concluse nel nulla, senza aspettative, senza amarezza. Senza tempo e occasioni sprecate, senza insicurezze, senza solitudine, senza rimpianti.
Senza rimpianti.

Perché colleziono orologi da tasca

Il Rosskopf
Io ho avuto un bisnonno.
Per la precisione ne ho avuti diversi, ma uno in particolare mi è sempre stato presentato come una specie di figura mitologica, a metà  tra la realtà  e la leggenda siciliana. Si chiamava Nonno Giovannino, aveva i capelli rossi che poi sono diventati bianchi ed è famoso, tra le altre cose, per la “bestemmia combo” più originle della famiglia.
[FLASHBACK: festa del paese, in Calabria. Sì, era siciliano, ma quella volta era in Calabria, e allora? Il Nonno Giovannino è seduto in piazza, insieme a familiari non ben precisati tra cui mia nonna e mia madre, e attende i fuochi di artificio. A un certo punto parte il primo botto. Il Nonno Giovannino si spaventa e lancia un mitico: “In te corna a Sammichele” (Nelle corna di San Michele). Che se ci pensate bene, è una doppia bestemmia: primo, presuppone che San Michele abbia le corna. Secondo, gli augurava di beccarsi il fuoco nelle corna, appunto. Fine del flashback]
Insomma, questo Nonno Giovannino aveva un orologio da tasca, un Rosskopf dell’inizio del secolo, che ha tenuto come i suoi occhi per tutta la vita. Quando era in Libia e doveva andare dall’Arabo a farselo riparare, lo portava e gli stava accanto per tutto il tempo (per via dei rubini: servono per regolare la precisione del meccanismo e voleva assicurarsi che non fossero sostituiti indebitamente). Quando è morto, l’orologio è passato a mia nonna (erano cinque fratelli in tutto, ma non ho mai capito perché questo onore è toccato a lei).
Anni fa, quando avevo dodici anni, la nonna mi ha preso da parte e, nel bel mezzo di una burrasca familiare, in cui zii e cugini recriminavano differenze di trattamento, mi ha piazzato in mano l’orologio e mi ha detto di custodirlo.
Mi sono sentita importante. Voglio dire, avevo dodici anni ed ero stata investita di un’importanza che nemmeno gli adulti più adulti avevano ricevuto. Era un onore. Anche perché quell’orologio lo volevano tutti. Forse è per questo che ho sempre voluto così bene alla nonna. Perché mi ha trattato come una “grande”, passandomi il testimone. A me, non ai suoi figli. Non a un altro nipote. A me.
E ho girato e rigirato quell’orologio tra le mani per ore. Per giorni. L’ho aperto con cautela, l’ho osservato. E mi sono innamorata di quelle rotelline minuscole, di quelle molle perfette, di quegli ingranaggi che tuttora non so distinguere. E il ticchettio… Come un cuore, come un battito.
Insomma, ho cominciato a collezionare orologi. Ho risparmiato un’estate intera per comprare un pezzo di latta con una locomotiva sopra. Ma da li in poi è stata tutta discesa.
Prima di morire, un anno esatto prima di morire, mio nonno mi ha regalato un’intera collezione di riproduzioni moderne di orologi antichi. Non valgono molto, economicamente. Ma quando me li ha regalati mi ha detto: “Se no cosa ti rimane di me, poi?”. Ovviamente ho pianto, ma questo lui non lo sa.
E poi ci sono stati mercatini di Natale, in cui ho trovato piccoli gioielli con le lancette d’argento, regali per l’operazione di appendicite, regali di compleanno. E la collezione è cresciuta.
E gli orologi che ho sono pieni di ricordi.
Ora anche mio padre li sta apprezzando. Ne compra diversi, me li fa vedere, tutto fiero.
Gli orologi segnano il tempo che fugge, di solito. Per me, invece, sono piccoli cofanetti di ricordi, che mi legano più al passato che al presente.
Tutte le ore che l’orologio del Nonno Giovannino ha segnato mi sono state regalate.
Ho tutte le ore di tutte le vite di tutte le persone.
Se non è un privilegio questo…

A dire la verità…

…quella sera ero felice. Quell’ultimo dell’anno passato da Mac Donald con una coda infinita di gente alla cassa e noi due a scriverci bigliettini sul mio quaderno. E poi in giro per Firenze, che non avevo mai visto così viva, così colorata di notte.
Ti devo confessare che mi sono divertita anche quando l’anno scorso eravamo a quella sagra di paese sperduta tra le colline, che da festa si è trasformata in uragano. Ed è stato bello rifugiarsi nel capannone, con una bottiglia di vino rubata a qualcuno, aspettando che smettesse di piovere, che poi però non ha smesso e sei dovuto andare a prendere la macchina sotto l’acqua con un sacco dell’immondizia addosso.
Mi sono divertita quando siamo andati al cinema a vedere quel film, Natural City, e ti eri perso per Pisa e poi hai fatto una corsa e hai preso i biglietti in tempo e mi aspettavi ridendo e gongolando, col cuore in gola, dicendo che andava tutto bene anche se hai rischiato l’infarto. Che poi quel film faceva cagare, tanto per dire.
E’ stato bello quella volta che siamo andati alla comunione di quel tuo cugino sconosciuto, che non sai nemmeno tu come si chiama, e abbiamo pranzato in quel ristorante caldissimo in mezzo ai boschi delle tue parti, e c’erano parenti chiassosi, e io ero vestita di rosso, con la gonna, e faceva un caldo indescrivibile, e continuavamo a bere quel vino bianco delizioso. O era rosso?
Mi è piaciuto anche quando siamo stati in quel parco giochi vicino a Empoli, nel bosco, e ha cominciato a piovere e non c’era nessuno e siamo rimasti sotto quella capanna di legno a parlare per ore, e un po’ ero triste per quello che mi raccontavi, un po’ ero felice perché lo stavi raccontando proprio a me, che significava che ti fidavi.
E anche tutti i progetti che abbiamo sempre fatto, le idee, i colpi di genio, le follie che ci venivano e che ci vengono in mente. Condividere tutto, anche se a volte è difficile, anche se a volte siamo lontani, anche se poi non si realizza niente. A volte anche solo sognare insieme non è niente male.
Forse è per questo che sono triste, in questi giorni di orari perfetti e di tempo scandito e organizzato. Mi mancano i tuoi imprevisti, mi mancano i tuoi ritardi, il tuo essere sempre a fare mille cose insieme, la tua indolenza e insieme il fatto che sai sempre cosa mi piace e come farmi stare bene.

Non è che sei morto, è solo che sei lontano. Ma a volte mi sembra che non ci sia molta differenza.
Per me almeno.
E’ ovvio che tu, essendo vivo, te ne accorgi!
O no?

Luminara 2005

Luminara 2005

Inaspettatamente, alla fine, siamo andati alla Luminara anche quest’anno. Io ci speravo. Sono venuta apposta, ma effettivamente non mi andava di infilarmi tra la folla per vedere i soliti squallidi fuochi artificiali.
E allora, dalle 22.30 alle 23.30 c’è stato il tempo per qualche partita a PES (Derby Milan-Inter, indovinate chi ha vinto) e poi ci siamo incamminati.
Sulle note della Tatangelo, verso mezzanotte, siamo arrivati a Pisa illuminati dai bagliori discontinui dei fuochi. Li abbiamo visti in movimento. Bello. Abbiamo parcheggiato lontanissimo e ci siamo incamminati lungo l’Arno, verso il centro. Ho anche visto le lucciole. E ovviamente le ho inseguite, derisa da tutti.
Quando siamo arrivati è cominciato tutto. O meglio, è finito. La gente defluiva lentamente. Se ne stavano andando tutti. E noi camminavamo In Senso Inverso, proprio come nel romanzo di Dick, quando la festa stava finendo per gli altri, per noi in realtà  cominciava.

Aspetti notevoli del partecipare a una festa finita.
L’allestimento resta. Voglio dire, la Luminara è bella perché tutti gli edifici sull’Arno vengono illuminati con piccoli lumini bianchi disposti a cornice delle finestre. Vengono accesi la sera, verso le sette (il momento più emozionante della festa, secondo Massi) e restano accese fino alla mattina dopo. Abbiamo camminato lungo i lungarni per tutta la sera. Beh, non proprio per tutta. C’è stata anche un’allegra, anzi allegrissima, tappa alla Bugia. Abbiamo bevuto cose che voi umani… Finché si trattava di rum e pera o tequila sale e limone restiamo nell’ordinario. Ma quando si passa al Drambuié, qualcuno osa dire che non siamo originali?

“Un due tre, Drambuié”.

In realtà  la magia è stata che siamo rimasti da soli, noi quattro, per tutta la notte, a camminare, saltare sulle spallette, chiacchierare, bere, guardare le stelle, guardare l’acqua che rifletteva le luci. Senza nessuno. Senza fretta. Dimenticandoci dello scorrere del tempo. Era come se quello spazio, che solo poche ore prima era stato invaso di persone, fosse diventato tutto nostro. Semplicemente eravamo da soli nella città  che si era addormentata dopo la baldoria.
E’ questo che mi piace, delle serate speciali. Restare da sola con qualcuno che può capire, che come me può assaporare. Senza frenesia, senza preoccupazioni.
Pisa mi è sembrata un grande cortile tutto mio, ieri notte.

Alle cinque ci siamo accorti che il cielo stava cambiando colore. Il nero puntellato di lucine stava lasciando il posto a un chiarore diffuso. E poi sono arrivati l’azzurro, il bianco, il rosa, il rosso. Ed era l’alba, così, senza avvertire.

Oggi ho pensato tutto il giorno che sono fortunata ad avere ancora ventiquattro anni e a saper sopravvivere a una notte in giro.
Oggi credo di essere fortunata ad avere intorno delle persone speciali con cui condividere delle notti solitarie e inaspettate.

Domani spero che ci siano ancora giorni così. E notti. E albe.

Ciao Lena (stavolta per davvero)

lena addio
Come i gatti hanno nove vite, tu ne avevi due. Una volta ti ho presa per il pelo, ma stasera era il tuo momento.
Ciao Topa Lena, mi ricorderò sempre di te, della tua relazione omosessuale con la tua compagna Julia, che poi ha cambiato sesso ed è diventata Julio. Mi ricorderò dei tuoi nove cuccioli bellissimi, del tuo sgranocchiare qualunque cosa (ho dovuto rifare il filo delle casse del computer, tranciato di netto dai tuoi denti putenti).
Chissà , secondo la gerarchia buddista, in cosa ti incarnerai ora.
Ma sarai sempre la miglior TopaTopa che abbia mai avuto!

"Quando i bambini fanno ohhhh"

Sottotitolo: come l’odio per una canzone ti si può rivoltare contro.

E’ successo che mi hanno, per l’ennesima volta, incastrato e mi hanno infilato in una di quelle attività  pro bono completamente gratuite e del tutto prive di gratificazioni.
Insomma, due settimane di riprese.
Due settimane di riprese a dei bambini di tre anni che fanno “Ohhh” osservando una ruspa.
Un filmato estenuante. A parte che durante le riprese dovevo cercare (invano, a volte) di evitare di travolgerli e calpestarli. Alla fine di ogni giornata ne mancavano dei pezzi (di bambini), tutti categoricamente finiti sotto le mie scarpe.
Ho dovuto imparare ad usare un programma (pirata, ovviamente) di videomontaggio.
Mio padre ha passato dalle nove di ieri sera all’una a cercare di infilare la canzone (scaricata, a sua volta, di straforo), sul video che io avevo certosinamente montato.
Dopo milioni di tentativi vani (qualcuno di voi sa se Pinnacle Studio 9 ha qualche maledetta protezione contro gli mp3?), il signor Padre, testardo come un mulo e più furbo di una volpe ha deciso, nell’ordine:
1- di fare un cd con l’unica canzone che dovevamo inserire nel video, “Quando i bambini fanno ohhhh!”
2- far andare il cd sul lettore cd
3- registrare (non ho ancora ben capito la dinamica) e acquisire direttamente in Pinnacle la traccia audio

Insomma, non ci ho capito un cacchio ma alla fine torno su e lui era tutto gongolante con questa canzone perfettamente incastrata su un lacrimevole filmato di bambini meravigliati per un buco nella terra fatto da una ruspa.

Ora è tutto finito.
Ma mi devo ricordare di non lanciare mai più anatemi potenti come quello che ho scagliato contro “Quando i bambini fanno ohhh!” l’altro giorno. Non devo. Perché poi lo so che va a finire così. Che me la devo ascoltare per un’ora e quaranta, mentre faccio il montaggio delle scene. Che mia madre sfiora l’esaurimento nervoso e comincia a mandare sms ad amici e sconosciuti dicendo che odia quella canzone. Che mio padre si commuove e dice: “Però a me, in fondo, piace. Dai, senti che bella…”

L’unica cosa che ci ho guadagnato sono stati dei complimenti sparsi da parte dei genitori dei piccoli demoni e un abbraccio con tanto di bacio plateale da parte del Sindaco di Cardano. Come ho detto alla mia amica Alice, ora sono una che conta, qui.

Mai più, va bene?

[Non è vero, non è stato così insopportabile, il tutto, ho anche imparato a montare i filmati… E’ che devo mantenere il mio alone di cinismo e fastidio e non scadere nel buonismo… Tutto qui… Ma mio padre che si è intenerito vedendo dei bambini e ascoltando una canzone mi ha fatto emozionare, anche solo per questo ne è valsa la pena.]