Mai stata più seria di così

Mai, dico. Non auguro un anno di serenità , non auguro proprio un cazzo, l’anno prossimo, anzi, a partire da quando ho comprato questi catartici 80 euro di libri in libreria, ho capito cosa voglio “fare da grande”. Voglio tornare indietro. Non indietro nel tempo, quello non è possibile, e non nello spazio, voglio tornare indietro con l’orologio che ho nella testa, voglio tornare a godermi la vita, voglio tornare cinica, arraffona, confusionaria e rumorosa, come qualche anno fa.

Così voglio tornare, in barba alla crisi, in barba alle responsabilità  da adulta. Perché godersi la vita non è fare tardi nei locali la notte, spendere soldi in vestiti o frequentare “la gente giusta”. Godersi la vita è mangiare con gli amici, è ridere a crepapelle di sciocchezze inopportune dopo qualche bicchiere di troppo sulla panca di un’osteria, è desiderare intensamente, qualcosa, qualsiasi cosa, possibilmente tutto, e lottare continuamente e inesorabilmente, anche nel sonno, per ottenerlo, quel tutto che si desidera.

Voglio smettere di pensare alle sorti disastrate di questo paese, voglio smetterla di “stare attenta”, voglio smetterla di vedere il mio futuro come un’angoscia anziché come una ricchezza, solo perché un branco di vecchi politicanti e non, famelici della mia linfa vitale, si sono impegnati e si impegnano da anni a scoraggiarmi e a spegnermi i sogni negli occhi, così poi sono più docile, così poi “dipendo da loro”, così poi.

Voglio ricordarmi ogni giorno la fortuna di avere una famiglia come la mia, che mi ha seguito sulle folli strade della mia crescita, lungo le tortuose vie delle mie passioni, assecondandomi sempre, foraggiandomi come gli antichi mecenate, criticandomi ma lasciandomi sempre, ogni volta, libera e piena di scelta. Ho trent’anni, io, anche se me ne renderò conto davvero solo con dei figli miei e con delle vite nuove in gioco, ho trent’anni e ancora posso chiamare mia madre se mi sento giù o ricevere un regalo inaspettato che mi apre un mondo nuovo da mio padre. E cosa mi chiedono in cambio? Niente, nemmeno un bacio la sera, neanche un Ti voglio bene di tanto in tanto.

L’unica cosa che secondo me si aspettano da me, sottobanco, così, senza insistere troppo, en passant, è che io sia felice. E allora come posso disattendere questo desiderio inespresso? Godersi la vita significa lavorare sodo e appassionatamente a quello che ho imparato a fare negli anni, alle cose che so e che non mi hanno abbandonato, nemmeno in questo buio periodo di crisi internazionale: le traduzioni non muoiono mai, quelle di videogiochi tanto meno, e chi sono io per non essere felice del fatto che per questo ho studiato e questo riesco a fare per guadagnarmi il pane? Godersi la vita significa sognare, e anche se ho tenuto la testa bassa per un po’ di anni e mi sono dimenticata di guardare le stelle, non lascerò che personaggi ambigui e anche un po’ ottusi l’abbiano vinta su di me e mi pieghino la testa. Perché mi possono legare mani e braccia, ma io gli occhi li rivolgerò sempre in alto, verso il cielo, verso tutto quello che non conosco. Godersi la vita è il proposito principale per l’anno nuovo, dicendo NO ogni volta che una cosa non mi va, e non troppi Sì di accondiscendenza. E’ più onesto, è più giusto, e io e l’ipocrisia non siamo mai andate troppo d’accordo, in fondo.

Lo so, lo so bene, che l’anno nuovo è solo una convenzione, che tra 8 ore non cambierà  assolutamente niente rispetto ad ora. Sono mesi, forse anni, che covo tutto questo, sono mesi, sicuramente anni che mi interrogo su quale piega voglio che prenda la mia vita. Ci sono tante pagine stropicciate, scritte e cancellate, ricoperte di lacrime o di briciole di pane, alle mie spalle, e ora so che fanno tutte parte di me, ma so anche che non voglio più “scrivere sotto dettatura”, non voglio più trovarmi a rileggere parole che non ricordo di aver provato: adesso voglio decidere IO, voglio tornare la me sognatrice che ho messo da parte per diventare grande. E so che non perderò nessun pezzo importante, nessuna persona importante, perché sapete come sono fatta e mi avete tenuta stretta in momenti ben peggiori e invece ora torno a ridere e a essere volgare, per cui vi piacerà . Credo.

Sicuramente, piacerà  a me.

Paola Caruso e la dignità

E mentre io intraprendo la mia ennesima dieta fallimentare, sommersa tutta da problemi probabilmente inesistenti, c’è una Paola, da qualche parte, che conserva ancora molta dignità .

Se cercate “Paola Caruso sciopero fame” su Internet, se leggete il link che ho appena postato, potete facilmente capire di cosa si tratti: una giornalista precaria che, esasperata da 7 anni di contratto a progetto nella stessa azienda (il Corriere della Sera) e con la stessa mansione (giornalista), ha deciso di urlare al mondo il suo sdegno.

Io Paola Caruso non ho idea di chi sia, veramente. Mi stava anche un po’ antipatica perché è così magra pesa poco più di 40 chili (pesava), ha 40 anni e sembra così giovanile. Voglio dire, cosa ti lamenti. Invece è da sabato, quando la notizia del suo sciopero è trapelata, che seguo con morboso interesse quello che le sta succedendo. Lei vuole che si prendano provvedimenti perché chi, come lei, lavora nello stesso posto da SETTE anni sia minimamente tutelato. L’azienda risponde a spizzichi e bocconi (lo stesso direttore della testata ha pubblicato una lettera decisamente algida e scostante), le testate “ufficiali” non pubblicano niente, sono i blog, le riviste indipendenti o i siti di notizie generiche che stanno cercando di sollevare un polverone.

Polverone su diversi fatti scandalosi che, prima di lasciarmi andare a considerazioni prettamente emotive, cercherò di elencare lucidamente:

1- Il precariato come nuova forma di oppressione sociale
I contratti a progetto servono per i progetti. Non per tenere gente senza diritti, al guinzaglio, per SETTE anni. Quanti anni ti ci vogliono, maledetto padroncino X di qualsiasi azienda, a capire quanto vale un collaboratore prima di assumerlo? SETTE ANNI? A me anche DUE sono sembrati tanti.

2- Che anno è? Che giorno è?
Nel 2010, in Italia, per far valere diritti minimi, come la dignità  del lavoro, la gente deve fare lo sciopero della fame. Questo è deprimente. E’ disarmante. Una quarantenne che io non conosco mi sbatte in faccia una modalità  di protesta dura, cattiva, pericolosa, anche arrogante, che si usa come urlo supremo per dire “Guardami negli occhi, guardami morire di fame, perché tanto o così oppure morirò tra un po’ più di tempo, ma senza dignità “. E’ anacronistico. Ed è umiliante che, nel 2010, le persone siano spinte ancora a questi livelli di esasperazione e disperazione. Mondo civile a chi?

3- La “macchina del fango”
(Grazie Roberto per questa splendida definizione)
L’onta e l’infamia che si scatenano subito su chi ha osato alzare la testa. Anche dentro di me, che ho subito un trattamento analogo (non penso peggiore, ma posso capire, insomma). Penso subito: “Questa qui non l’avrà  combinata giusta. Sarà  lei ad essere mancante in qualcosa, se non l’hanno assunta. Alla fine non valeva così tanto”.
Sono pensieri che mi hanno fatto venire da vomitare non appena li ho formulati. Che mi fanno inorridire per quanto efficace è questo sistema che squalifica gli individui facendoli passare solo per arroganti che cercano privilegi qua e là . Perché Paola è il “fastidio”. Paola è la spina nel fianco. La voce stonata che non si rassegna. E quindi dev’essere “pazza” (cito De Bortoli che le consiglia di “ritrovare serenità  e misura” e cioè di farsi vedere da uno bravo e di non dare di matto così). Dev’essere pazza, o strana, o stronza, o qualsiasi cosa squalifichi la sua opinione, perché così è più facile.

Questa quarantenne di quaranta chili, questa Paola Caruso che mai conoscerò, sta facendo PER ME, sta facendo PER TANTE, TANTE PERSONE, più di quanto non facciano i colleghi conniventi con il potere che abbassano la testa e stanno zitti quando uno entra nell’ufficio del capo e ne esce senza un rinnovo di contratto. Paola sta generosamente mettendosi alla berlina per difendere con un gesto estremo tutti quelli che sono stati lasciati soli in questi anni: dai colleghi, dai sindacati, dallo Stato, da tutti.

Perché gli individui fanno schifo, sono dei codardi, la maggior parte delle volte sono solo degli egoisti infami che si tengono stretto il proprio orticello appassito e che non danno una mano a nessuno, a meno che non si trovino in pericolo a loro volta, o che non scorgano un tornaconto personale o professionale.

Perché anche i sindacati fanno schifo, tutti concentrati a difendere 20.000 persone quando ce ne sono 20 milioni nella merda fino al collo, che non sanno nemmeno che le donne hanno diritto alla maternità  se lavorano o che ammalarsi non è una colpa punibile dall’azienda.

Perché lo Stato, che poi siamo noi, fa schifo e i suoi esponenti ci hanno affossato in un paese che potrebbe essere splendido e che invece vede gente che si impegna, che lavora, in gamba, rimanere ai margini della società , povera, a chiedere aiuto alla famiglia, quando c’è, e quando non c’è ad arrangiarsi nella miseria, mentre esalta la prostituzione politica, le raccomandazioni, le furberie.

In tutto questo schifo, a me verrebbe da dire basta, ciao, getto la spugna, depongo le armi, volto pagina, qui non c’è niente per me.

Ed è qui, è proprio a questo punto che mi accorgo che Paola Caruso, che gente come Paola Caruso, si merita un applauso DUE volte: perché fa quello che fa per cambiare una situazione contingente e perché, mentre lo fa, dimostra con la sua persona e la sua coscienza, che non tutta l’umanità  fa schifo, che ci sono ancora degli italiani dignitosi, che hanno valore, che lottano e che ti difendono anche se non ti conoscono.

Io, cara Paola Caruso, non ti conosco, ma ti vorrei abbracciare, senza stritolarti, però (e ricomincia a mangiare, anzi vieni qua che ti faccio qualcosa di buono, in barba alla mia dieta), e ti voglio dire grazie perché non mi sento più sola, perché tu (più forte e più caparbia di me, senza dubbio) hai alzato una voce in mia difesa, senza neanche sapere chi sono, senza neanche sapere cosa faccio, ma lo hai fatto, ed è un gesto che non può e non deve passare inosservato.

Post scriptum: io sto bene. Sono una di quelle che sta bene. Posso dividere le disavventure (e le spese ^_^) con qualcuno di speciale, ho una famiglia pronta a sostenermi se sto per cadere, ho degli amici che mi stanno accanto e, infine, ho anche un lavoro da traduttrice e autrice freelance che mi piace tanto. E freelance vera, non quelle che devono dirsi freelance ma poi lavorano in ufficio. Io sono una fortunata. Le cose che mi sono successe negli ultimi anni e che pensavo “brutte” sono servite in realtà  a farmi crescere, alcune hanno fatto male, ma le cicatrici non si vedono quasi più. Io sono fortunata. E forse è perché non sono abbastanza disperata che non ho fatto come ha fatto Paola Caruso. O forse, meglio, perché non sono altrettanto in gamba.

Incrociamo le dita?

Incrociamo le dita? Incrociamo-le-dita? Ho capito bene?

Stiamo parlando di lavoro, di un lavoro qualsiasi, un lavoro che cerco, un lavoro che spero, un lavoro che magari è disponibile per me, e tu mi parli di “incrociare le dita”? Eh, no, però, è proprio così che mi si manda in bestia. E’ il modo perfetto, proprio. Sovrapporre la “fortuna” con il “merito”.

Dimmi che sono un cane. Dimmi che non ho esperienza. Che c’è un candidato più adeguato di me. Che non devo rompere le palle e restarmene qui a contare le lettere sullo schermo. Dimmi qualsiasi cosa che riguardi un merito, una competenza, ma non dirmi “incrociamo le dita”. Io non ci credo. Il lavoro non è questione di fortuna. Non è questione di incrociare le dita. E’ questione di essere la persona migliore per svolgere un certo incarico. Questo è il punto.

Pensi di ferirmi, se mi dici che non sono adeguata? No, è un lavoro. Non mi stai dicendo che sono un essere umano inadeguato. Non stai squalificando il mio sistema emotivo, relazionale, sociale, la mia famiglia, i miei amici, tutto. No, mi stai dicendo che non vado bene per un lavoro. Posso rimanerci male, ma supero la cosa con nonchalance e vado oltre.

Però, per favore, non dirmi “incrociamo le dita” o “buona fortuna”. Buona fortuna cosa? Dove lavori tu assumono la gente con l’estrazione del lotto? E’ così che funziona? Cosa diavolo mi sono laureata, dottorata e ho lavorato negli ultimi 10 anni a fare, stupida io. Bastava un po’ di fortuna. Bastava incrociare le dita e sperare che San Gennaro facesse il miracolo.

Ora, tutto questo non mi avrebbe scossa tanto se tu fossi stato italiano. Abbiamo una mentalità  fatalista, qui, e poi siamo un popolo abituato ad aspettarsi qualcosa da Dio, dal destino o dai maghi della televisione (o anche dagli amici politicanti), più che a lavorare sodo per averla.

Ma tu sei inglese. O americano, non ho capito. E mi dici “Incrociamo le dita”? E’ la fine, veramente.

Io passo oltre. Questa cosa che il lavoro nobilita l’uomo, secondo me, la devono rivedere. Almeno in alcuni posti, in altri no, c’è ancora gente (e sì, ITALIANI, non solo stranieri) che lavorano a modo, che si impegnano e che pretendono veramente la qualità  da quello che si fa.

Io, a lavorare con uno che mi dice “incrociamo le dita” e il progetto andrà  bene, non ci vado e non ci andrò mai.

Io e il mio amico Machete

Il giorno del mio compleanno mi sono regalata il biglietto per la prima di Black Swan al PalaBiennale, alla Mostra del Cinema di Venezia. Perché tanto sapevo che Giacomo e l’ottimo Gian sarebbero venuti con me senza colpo ferire. E così è stato. D’altra parte, quando si parla di cinema, gite insieme e giornate di chiacchiere e girovagare in completo relax, non ci tiriamo certo indietro, noi, mitico trio del Far East e di goduriose serate cinema-popcorn sempre e comunque.

Ieri è andato tutto liscio, dal cielo che era più blu del blu dipinto di blu, dai vaporetti in orario, al fatto che sono finalmente potuta entrare all’Hotel Excelsior anche se ero vestita come una sempliciotta di campagna, dagli innumerevoli panini mangiati ai VIPs avvistati. Che, a dirla tutta, non è che uno va lì per vedere attori & registi, ci vai a vedere i film, e poi scopri con estremo piacere che c’è Tarantino al bar che beve tranquillo, Stanis che si aggira tutto elegante, Danny Elfmann che rilascia dichiarazioni, Salvatores che sorride. Certo, il tutto era iniziato con Eleonora Giorgi e la Ventura che si facevano intervistare/fotografare, più la tristerrima Marina Ripa di Meana con quel cappello fallico ridicolo. Ma è pittoresco anche quello.

Comunque. Mentre stiamo andando via dall’Excelsior senza aver scroccato nemmeno uno spritz, perché siamo persone discrete, vediamo Denny Trejo che esce dall’ascensore e si dirige verso l’uscita, per andare verso la Sala Grande dove di lì a poco sarebbe iniziata l’inaugurazione. Viene assalito da gente più o meno educata. Gian si fa fare un autografo. Io constato da lontano che è proprio uguale a come appare nei film. Perché quest’uomo non solo è il mitico MACHETE, ma ha anche lavorato con il signorino Michael Mann in “Heat – La sfida”. Insomma.

Usciamo e temporeggiamo un po’, poi io in preda al delirio lascivo di questa bellissima città  che è Venezia decido che voglio delle sigarette e mi tuffo saltellando dentro un tabacchino. Pacchetto da 10 a caso. Frugo nella borsa per trovare il portafogli.
In quel mentre, accanto a me, un tizio parla in inglese con la cassiera: vuole comprare una macchina fotografica usa e getta, ma non ha euro, solo dollari. Un rotolone di dollari, peraltro. Io guardo la cassiera, poi guardo lui. O-MIO-DIO! Ma è MACHETE!

Denny Trejo è di fianco a me. Avrà  mille dollari in mano e la commessa non gli vende una macchinetta da 9 euro. A lui. Che è MACHETE. Voglio dire. Glielo dico anche, in effetti, alla cassiera:

“SCUSI, ma lei non sa che quest’uomo è MACHETE?!” mentre Denny Trejo mi guarda incuriosito.

Niente, la cassiera non demorde. I dollari non li vuole. Allora io che avevo giusto i soldi per le sigarette, esco, chiamo Giacomo il quale, salvifico, arriva e paga la macchinetta a Denny Trejo che, per ricambiare, mi dà  cinque dollari. Me ne voleva dare 20, ma io gli ho detto No sono troppi. E poi gli ho chiesto se quei 5 dollari me li firmava. E lui ha detto “Sì, certo.”

E quindi ora mi ritrovo con 5 dollari con su scritto: “I love you. Denny Trejo – Machete”.

Gli stringo la mano. Mi ringrazia. Gli auguro di divertirsi qui. Mi stringe la mano ancora. Addio, mio amico Machete. So che quando avrò bisogno di un favore, tu sarai lì per me. O almeno mi piace pensarlo.

A parte bullarmi tutto il pomeriggio e tutta la sera per questo evento che verrà  inserito per sempre nella mia mitologia personale, ci siamo visti l’ottimo Black Swan (più un altro film raccapriccio, invece, cinese) e ce ne siamo tornati di notte a casa, concludendo alle 3 con un ottimo panino-merda a Treviso.

Oggi ho un mal di testa formato famiglia, un sonno bestia, devo lavorare come non mai, ma non mi importa, perché “la Forza è con me”: ho i 5 dollari che mi ha lasciato il mio amico Machete, e va tutto bene.

Cose che non avresti mai detto che ti sarebbero mancate

Lavorare in università .

Perché io fare il dottorato l’avevo preso come un lavoro. Non nel senso negativo, tipo “un lavoro”, ma nel senso dell’impegno. Tutto quello spazio, quelle risorse e quelle persone con cui cercare di costruire qualcosa. Imparare, ma da tutto, dalle lezioni a cui assisti, da quelle che tieni, dalla gente con cui parli a ricevimento, dalle pause caffé.

Non so se mi manca anche quel groppo in gola e quel terrore strisciante di quando le cose andavano male – e non ho mai capito perché, e non mi sarà  mai spiegato – ecco, quello non so se mi manca, però tutto il resto…

Fare ricerca è dura, si dice, in Italia. E’ vero, ci sono pochi fondi. Però quando sei in università  (e parlo delle facoltà  umanistiche, di quello che ho visto io), almeno ci puoi provare. Puoi costruire tanto con niente, perché se sei lì e hai tutto quel ben di dio a disposizione è un peccato non sfruttarlo, non inventarsi qualcosa, non cercare di impiegare il tempo in modo creativo. Sì, creativo, perché per me fare ricerca era un processo creativo E un lavoro di squadra. La solitudine, diciamocelo, l’ho sempre sofferta. La torre d’avorio non fa per me (tant’è che non ne faccio più parte). E’ più come svegliarsi un giorno e decidere di “cambiare il mondo”, almeno un pezzetto, almeno un poco, almeno qualche riga, e farlo, con calma, con pazienza, tutte le settimane alla stessa ora.

Non credo nei riti e tendenzialmente credo nella discontinuità  degli sforzi e nei lampi di genio, ma lavorare in università , con i ragazzi del GamesLab, invece, mi ha insegnato la pazienza della costanza, mi ha fatto vedere come dal niente nasce e cresce qualcosa, che magari alla fine si trasforma e se ne va altrove, ma intanto io c’ero, io l’ho visto, io ho anche fatto in modo che accadesse, anche se le vere forze erano loro.

Anche la mia tesi. Parole su parole che si sono ammonticchiate. Sensazioni e sentimenti legati a ogni pagina, a ogni capitolo, a ogni argomento. Ricordo quasi tutto, intendo ricordo dov’ero mentre scrivevo, quando mi sono venute certe idee, quando ho pianto di rabbia, quando ero a Londra e scribacchiavo e fotocopiavo libri, quando stavo male e però non riuscivo a smettere. Ricordo i “Non ce la farai mai” ma anche la gratificazione di discutere davanti a persone che alla fine il mio lavoro lo avevano letto davvero e che mi facevano obiezioni e critiche stimolanti che mi porterò con me e che non ho lasciato nel dimenticatoio di quel giorno.

Forse doveva passare solo un po’ di tempo perché riuscissi a ripensare agli anni del dottorato con un misto di malinconia, tristezza e soddisfazione. Malinconia perché sono passati ormai anni. Tristezza perché a volte mi sembra che sia finito tutto lì. Soddisfazione perché penso di aver dato tanto, non dico tutto ma sicuramente molto, di me intendo, e quindi ho la coscienza pulita e posso credere che anche quel percorso abbia avuto un senso. Forse.

Certo, ora non ho più le macchie sulla pelle, il mio fegato va alla grande, non resto allibita da una serie di circostanze raccapriccio che non scorderò mai, però in fondo sono felice di aver provato anche questo, nella vita, e di potermi portare nella memoria un pezzetto di persone che ho incrociato in quel mondo e che mi hanno dato tanto e a cui spero di aver restituito almeno un po’.