Come in un romanzo…

“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendà­a si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio.”

“MUCHOS Aà‘OS DESPUà‰S, frente al pelotà³n de fusilamiento, el coronel Aureliano Buendà­a habà­a de recordar aquella tarde remota en que su padre lo llevà³ a conocer el hielo.”

Io non mi chiamo Aureliano Buendà­a, non vivo a Macondo (ma ne abbiamo già  discusso, mi pare) e non è pomeriggio.

Però stasera insieme a Homer Paggiarin abbiamo messo in funzione la tanto inutile quanto esilarante macchina del ghiaccio. 12 cubetti in 12 minuti, niente di paragonabile al blocco di ghiaccio gigante portato in un villaggio sudamericano senza tempo, però l’idea è la stessa.

Così come i puntatori laser. Gli acquisti vantaggiosissimi su Ebay. I videogiochi e l’indolenza. Tutte passioni che Homer mi ha trasmesso.

E da stasera, anche il ghiaccio che si forma davanti ai nostri occhi stupefatti (e un porco libretto solo in tedesco da cui sono riuscita a capire solo i numeri delle pagine, dannazio).

Lost è finito…Lost comes to an end…

Lost è finito, io sto per fare il giro di boa dei 30 anni, fuori c’è il sole ed Europa non è nemmeno ai nastri di partenza. Insomma, ce n’è ancora da fare.

E’ che non so cosa dire, se non che ho la testa piena di immaginazione e che adoro chi riesce ancora a farmi fantasticare così.

Grazie di questa storia.

Lost is ended, I am near my 30s, it’s sunny, outside, and Europa is not even an embryo. There’s so much to do… But right now I feel like crying.

I don’t know what to say, I don’t know what to do, but my mind is full of images and imagination and I love those people that make me dream like this, again and again.

Thank you so much!

Macondo

Mi sento a Macondo, stanotte.

Se riesco a escludere mentalmente il computer, i muri della nostra casa al secondo piano, tutti i miei oggetti, il letto e questa solitudine, stanotte mi sento a Macondo. E’ colpa della pioggia sul tetto, che non smette da quando sono tornata a casa. E’ colpa dello stato polveroso e indolente in cui versa il mio cuore in questo periodo, tutto concentrato su cose insignificanti, sempre più miope nei confronti della vita, a volte, mi sembra.

Il problema vero della pioggia è questo viverla a metà : cerchiamo in tutti i modi di starle alla larga, ci rintaniamo al coperto, ci togliamo subito i vestiti umidi e le scarpe infangate, ci lamentiamo come solo i migliori vecchi sanno fare che Questa primavera è veramente anomala, quando poi sicuramente sarà  uguale identica a tutte le altre ottanta (se ci va bene) della nostra vita.

La verità  è che non sono affatto a Macondo, ma sono sempre qui, a Cardano al Cazzo e la verità  ancora più vera è che l’unica cosa che mi resta da fare ora è cominciare a scavare. Perché quando tutto va bene, quando la persona che mia sta bene ed è felice, quando un lavoro ce l’hai e ti piace, quando le tue sorelle crescono e non se la cavano poi così male, quando riesci anche a svegliarti la mattina e a pensare che non è poi tutto così uno schifo, ecco allora dovresti tirare un respiro di sollievo. Dovresti metterti lì e dire Meno male ed essere felice e gioire, magari. Invece cosa faccio, io? Cosa faccio? L’unica cosa che so fare: smetto di dormire. E’ matematico. E’ diventata, con gli anni, la mia certezza. A un certo punto, non dormo. E, anche se non sono a Macondo, questa cosa mi piace da matti, perché dopo le prime notti in cui mi sento “sbagliata” e mi dico No, Vale, dormi che se no domani poi… ecco, superato lo scoglio del “domani poi…”, mi sento di nuovo “a casa”. In questa meravigliosa dimensione di silenzio, stanze vuote, passi felpati e guardare il cielo seduta per terra.

Se fossi a Macondo uscirei per le strade del villaggio e farei qualcosa di strano, qualcosa di bizzarro e inspiegabile, per far parlare la gente, il giorno dopo, e per creare scompiglio. Se fossi a Macondo, magari, passerei queste notti insonni a costruire cose, o farei un lungo viaggio per tornare portando merce rarissima da vendere al mercato. O mi travestirei da ragazzo, pur essendo una ragazza, e mi imbarcherei per mare, con le gambe a penzoloni dalla prua della nave, e vedrei porti lontani, prenderei qualche strana malattia, conoscerei l’amore e tornerei a casa con un figlio.

Forse a Macondo lei avrebbe potuto essere felice. Forse avrebbe fatto quello che voleva e non quello che gli altri si aspettavano. Avrebbe comunque fatto tre figli, cucinato, subito ingiustizie, perpetrato tradizioni familiari assurde e preziose, ma senza quella sfumatura di sbagliato che le vedo ogni giorno in volto, senza quel velo di malinconia per aver guardato il mondo con un occhio solo. E, per una volta, non sto parlando di me. Peccato che non si possa vivere in un libro. Perché anche se c’è fame e povertà , incesti e malattie, anche se ci sono nomi tutti uguali e nonni che sembrano nipoti, c’è anche un senso, c’è anche uno schema, niente è lasciato al caso, ogni personaggio, ogni evento, ogni parola, addirittura le virgole hanno un senso e sanno qual è il loro posto nel mondo.

Noi invece cresciamo con tutti questi sogni – i nostri – e veniamo caricati di tutti questi altri sogni – quelli dei nostri genitori, se sono vivi, o quelle delle loro possibili vite, se sono morti – che non solo non si avvereranno mai, ma che ci illudono anche che potrebbe esserci un ordine. Nelle vicende, nelle emozioni, negli oggetti nelle stanze. Invece non c’è nessun ordine, non c’è nessun equilibrio. Io lo accetto, ma per chi ancora sogna che almeno io ce la faccia, è dura. Orgogliosa di me? Ci prova, ci provano, ma non è facile quando invece di fare passi avanti facciamo solo passi indietro.

Per questo faccio finta di essere a Macondo, stanotte. Perché lì non si deve dimostrare niente a nessuno, ma soprattutto – e questa è la ragione vera – perché vivere lì è come avere sempre un piede fuori dalla porta, essere pronti a calcare una strada polverosa nel mezzo del mezzogiorno per prendere un treno a vapore che ti porterà .

Spero di trovarmi un po’ di Macondo, nel cuore. Ne ho bisogno.

Run baby run

Lo sapevo che la primavera sarebbe arrivata. Me lo sentivo.

No, non la “solita” primavera, quella che comincia il 21 Marzo ogni anno, precisa e puntuale come un orologio. Intendevo la MIA primavera, quella in cui mi metto a fare l’orto, a correre nel Parco del Ticino, a tradurre sul terrazzo all’ultimo piano, nella nostra Mansarda Blu (e gialla), quella in cui ordino le guide Lonely Planet per il viaggio in Europa di quest’estate e in cui non mi sento un fallimento totale in ogni singolo secondo.

Epifania? Circa, non proprio, però almeno non provo la solita fastidiosa e immotivata inquietudine. Progetti nella testa. Posti dove andare. Voglia di lavorare alle traduzioni, sempre di più. Bisogno, quasi, di passare un bel po’ di ore al giorno a scrivere, ma poi correre, sudare, stare al sole, riflettere, tornare a cambiare una parola.

Ho giocato a Heavy Rain (presto uno speciale come non mai), stiamo cominciando a lavorare al nuovo progetto di Hive Division, tra due settimane andremo al Far East Film Festival (che aspettiamo ogni anno come e PIU’ del Natale) e domani andiamo a Pavia per rivedere delle persone speciali e passare una giornata insieme.

Certo, c’è anche chi parte e mi ricorda che un po’ vorrei partire anche io, e andare, e vedere, e magari ricominciare da qualche altra parte. Però forse c’è ancora qualcosa da fare, qui, c’è ancora la possibilità  di essere felici e non me la sento di ricominciare da zero altrove, perché in fondo qui non sono a zero. Affatto.

Ora c’è il sole e un bel vento fresco. Esco. E respiro di nuovo.

Il cibo e Robot

All’università  studiavo il cibo nel romanzo inglese, di come fosse un indicatore dello stato sociale, ma anche emotivo, dei personaggi. Tutto ovviamente vero e illuminante, come il 90% degli argomenti collegati alla letteratura inglese (nel 10% di inutilità  e sciagura, tra gli altri, c’è ovviamente Dan Brown).

In questi mesi di risalita è stato lo stesso per la mia vita: pizza al volo quando le cose non andavano proprio alla grande, lasagne e torte salate o dolci quando tutto sembrava ingranare, cibo sperimentale una volta tornata definitivamente la voglia di fare. Non male, soprattutto perché sta arrivando la Primavera a gambe levate e tra poco ricominceremo a mangiare e bere sul terrazzo, tra i fiori e il cielo azzurro. Questo si chiama vivere. Il tutto sarà  completato dai piccoli e grandi  viaggi che abbiamo sognato lungo questo inverno letargico: antipasto di Udine (Far East mon amour), un bel piatto unico a base di Alsazia, Lorena, Paesi Bassi e Foresta Nera e un dessert di Croazia e montagna per riattivare le gambe e gli occhi. Insomma, c’è dell’ottimismo nell’aria, per la prima volta dopo tanto.

E poi ci sono i Robot di Asimov, che anche se abbiamo visto e rivisto i Robot ovunque, con i loro comportamenti approssimativi e le loro incomprensioni con gli esseri umani, leggerli dal padre di tutta la fantascienza è sempre un’emozione. E se non ci permetteranno di chiamare il nostro primo figli maschio “Crystal Ball”, come speriamo, allora lo chiameremo R. Daneel Olivaw. O il primo maschio o il prossimo gatto, mettiamola così.
Certo, un po’ mi manca Hari Seldon. Sono tentata di leggere anche i libri “spuri” scritti da fanatici come me dopo la morte di Asimov, ma resisterò alla tentazione.
Ora vado. Il sole sta tramontando e colora di arancione le lanterne e le fatine appese fuori…

E poi devo leggere. E scrivere. E scrivere.

Cena giappo!Japanese Dinner!

A grande richiesta, finalmente per voi le foto della mitica nonché famigerata “Cena giappo Talamini-Paggiarin”:

Le foto sono bellissime, il gusto va un po’ migliorato, ma siamo una squadra della madonna: siamo riusciti a cucinare sushi da occidentali dentro una mansarda di 60 mq, nessuno è morto, e abbiamo anche accolto “la diversità ” di chi, prosaico e proletario, ha snobbato il nostro sushi radical-chic per dedicarsi alla CAZZOELA (brava, Giulia, brava).

Bene, enjoy the photos e piuttosto: quale sarà  la nostra prossima cena etnica? Ilaria non vede l’ora di organizzarla a casa sua!Here you can finally find the awesome photos of our famous and glorious “Talamini-Paggiarin Japanese Dinner:

The photos are great, the food can be better, but we are a dream team: we, all Gaijin, ended up cooking sushi in a 60mq attic, nobody died, and we also accepted the “different” one, a prosaic proletarian girl who avoided our high-brow sushi to eat the very Italian CAZZOELA (go, Giulia, go).

Well, enjoy the photos and let’s decide our next ethnic dinner! Ilaria wants all of us at her home!