Dieta

Sono a dieta. Come tutte le donne in questa stagione. Come tutte le donne pressoché sempre.
Solo che io, a differenza di tutte le donne che fanno la dieta, sono grassa. Perché le donne fanno la dieta di mantenimento. Io no. Io sono una cicciona schifosa e quindi devo fare la dieta prima che le ossa delle mie gambe non riescano più a tollerare l’infausto peso del mio corpo.
Mangio normalmente, in realtà . Un’alimentazione tutt’altro che sacrificata. Ma come si sa, il problema della dieta è psicologico. Se qualcuno mi facesse da mangiare e mi dicesse che sono piatti di novelle cuisine o cose del genere, io sarei tutta sazia e non penserei mai al cibo. Invece sono a dieta e lo so perché non devo mettere troppo olio, non devo mangiare carboidrati a pranzo, non devo mangiare proteina a cena e mi sono rotta il cazzo di perdere mezzo etto alla settimana. Voglio dimagrire qui e ora, subito.
Tant’è che stavo giusto pensando di amputarmi una gamba. Giusto come misura motivazionale.
Poi vivo con Mr Metabolismo Accelerato, che può mangiare un’intera confezione di Pan di Stelle da solo e avere ancora fame, che si può scofanare una confezione maxi di yogurt e dire “C’è del succo, per caso?”, che può mangiare pizza, cibo cinese e patatine fritte pressoché all’infinito e DIMAGRIRE, ebbene sì, DIMAGRISCE, la merda. E non posso nemmeno dire che faccia una vita in movimento, perché vive in simbiosi con la sua tastiera, da quando le riprese sono finite e c’è solo la post-produzione.
Ora, queste sono ingiustizie della vita. Peraltro, come faccio io a mangiarmi solo una carota quando poi lui nel piatto ha un chilo di carbonara con mezza forma di grana grattugiata sopra?
Voglio morire.
E sapete da quando sono a dieta? Da lunedì.
Ok, lunedì scorso, non ieri. Però.

Se mi alzo di notte di nascosto e vado a mangiare cose a caso, qualcuno mi spari.
Ho bisogno di motivazionismo, vi prego. Motivazionatemi… Devo perdere solo altri 6-10 chili!
Vi pregooooooo.

Ciao Uli…

Ulisse e io

Il mio cane Ulisse è morto stamattina.
Sto da schifo e non voglio mai più avere un altro cane.
Non riesco nemmeno a scrivere i miei raccontini per ricordarlo e ridere.
Anche se quella volta che si è schiantato contro il vaso di fiori e ha avuto l’orecchio moscio per due mesi…
O quando mi stava sdraiato accanto, nel campo di grano di fianco a casa, ed era estate e io leggevo e lui mi faceva compagnia dormendo, all’ombra…
O quando saltavamo il muretto in fondo alla strada in salita, quando ancora non c’era la recinzione, e lui era bravissimo e io facevo fatica a stargli dietro…
O quando siamo stati inseguiti dai cani e io l’ho preso in braccio e ho cominciato a correre verso casa, e lui mi ha sempre voluto bene, mi ha sempre salutato, ogni mattina quando uscivo e ogni sera quando tornavo, perché eravamo amici, e si fidava di me, ed è stato il mio cane.
Il mio primo e ultimo cane.
Fa un male tremendo.

Penny & Pico

Penny e Pico

Vi ho mai raccontato di Pico, il mio gatto?
E’ un gatto magico.
Certo, tutti i proprietari di gatti dicono che il proprio gatto è magico, ma lui lo è per davvero.
La sua missione, nella vita, è salvare gli altri gatti.
Nel 2005 ci ha portato Silvestro, un gatto nero e bianco, con il pelo proprio come gatto Silvestro. Era così magro che gli si vedeva attraverso. Lo abbiamo sorpreso in casa la prima volta, accompagnato da Pico, che mangiava dalle ciotole, affamato alla morte.
Il primo incontro è stato surreale: appena Silvestro si è accorto della nostra presenza, ha cominciato ad arrampicarsi sui muri (sì: wall climbing a zampe nude) mentre noi e Pico lo guardavamo esterrefatti. Lentamente ha imparato a fidarsi, e ora dopo quasi tre anni, si confonde coi cuscini del divano.

Non pago di questa meravigliosa performance, Pico ha deciso, l’autunno scorso, di sfamare anche un’altra gatta (o forse gatto, ancora non lo capiamo) che si aggira per il quartiere. Ha il pelo lungo maculato, come un ghepardo, ma più marrone. E’ così selvatica che dopo un anno che mangia qui da noi ancora non si fa minimamente avvicinare. Pazienza, però ha il suo rifugio caldo nel garage e la pappa ogni volta che vuole.

Il meglio di sé, tuttavia, Pico l’ha dato quest’autunno. A ottobre lo vediamo gironzolare con una gattina così piccola che non doveva avere nemmeno un mese, ancora. Certo, in effetti ormai Pico è un gatto adulto ed era ora che anche lui avesse una figlia. E visto che è castrato e non può avere figli naturali, ha deciso di adottarne una.
Non abbiamo ancora capito dove sia nata Penny. Non ci sembra ci siano tanti altri gatti, qui intorno, e ci sembra assurdo che qualcuno la possa aver abbandonata così, appena nata. Però in effetti è la soluzione più plausibile, visto che quando Pico l’ha trovata era letteralmente pelle e ossa e aveva addirittura una zampina rotta. Pico ce l’ha portata fin sul terrazzo, lei era terrorizzata e voleva scappare ma se fosse fuggita sarebbe di sicuro morta di fame, freddo e zampa rotta.
Allora, visto che io e Giacomo in mansarda non avevamo ancora un gatto, abbiamo deciso di adottarla. Cioè di sub-adottarla, visto che il padre vero è Pico. L’abbiamo accudita nonostante, nei primi periodi, più che una gattina sembrasse un diavolo della Tazmania Tasmania (perché il mio amico Max legge il mio blog solo per correggermi), però col tempo (dopo cinque mesi direi) è diventata una di casa. Vive qui, non ama scendere (non ancora, perlomeno), è dispettosa ma simpatica e molto affettuosa, anche se vorrebbe dimostrare il contrario, di essere indipendente e tutto. Fa la pazza, ma poi te la ritrovi acciambellata sulle ginocchia sul divano, oppure che ti dorme accanto nel lettone.
L’abbiamo chiamata Penny, perché è piccola come un penny ma anche (e soprattutto) perché Penelope è una dei protagonisti femminili dell’Ulysses di Joyce, per cui a me è venuto in mente il nome, a Giacomo il diminutivo, et voilà .
Il punto è che, a causa della sua natura “non molto intelligente” a dire il vero, Penny ha ricevuto, come soprannome, “Stupido Toporagno”. Non sarà  molto intelligente, ma è il NOSTRO Stupido Toporagno, e noi la amiamo così com’è!

Pico, da gatto responsabile quale è, non ha disertato ai suoi obblighi di padre, anzi. Da quando c’è Penny, lui viene a trovarci qui in mansarda molto, molto più spesso (quasi ogni giorno, a dirla tutta). Quando arriva, è sempre una festa: lei gli salta al collo, giocano, si rotolano, si fanno i dispetti, mangiano dalla stessa ciotola e stanno sempre, sempre vicini.
Ho avuto tanti gatti, di età  diverse, di caratteri diversi, più o meno intelligenti, fortunati o svegli. Ma non avevo mai visto due gatti comportarsi come loro. Si vogliono bene come un papà  vuole bene a sua figlia, come se fossero esseri umani.

Dormono sempre insieme, quando sono qui. Si accoccolano, ovunque capiti, chiudono gli occhi e se ne stanno lì, anche per ore.
Non ricordo chi lo diceva, ma aveva ragione: “A cosa servono delle statue in una casa che ospita dei gatti?”

The Wings

Tris sul mio braccio
Nostalgia.
Quando il sole tramonta così, come di sbieco, e fa freddo, tanto freddo, e le luci intorno sembrano tutte luci di Natale.
Nostalgia di mio nonno, e di sapere che non sarò mai come lui, che non vedrò mai i deserti di notte da soli, non sarò mai un’esule, non avrò mai storie di guerra da raccontare e una pelle abbrustolita dal sole che non passa per tutta la mia lunga e curiosa vita.
Nostalgia di quando guardavo le stelle nel campo qui di fianco, dove ora c’è una villetta, ma non ho nostalgia del campo, ho nostalgia delle stelle. Non le vedo più come una volta. Perché una volta guardavo il cielo molto di più, adesso invece è solo un coperchio che passa inosservato.
Nostalgia del mio tempo, nostalgia di quando leggevo un libro al giorno o di quando lo facevo e mi bastava.

La crudeltà , la vera crudeltà , è che perdiamo dei pezzi, per strada, e non possiamo più essere com’eravamo in tutte le cose, ma i desideri, il dolore, la gioia immotivata, le lacrime che sgorgano all’improvviso, queste cose non passano mai, e invece di imparare a gestirle meglio non facciamo altro che sentire, ogni volta più forte, ancora immobili come la prima volta che siamo stati empatici, da piccoli, ancora e sempre più disarmati di fronte a un turbine di sensazioni e sentimenti che non saremo mai in grado di gestire.

Nostalgia.
E la peggiore è sempre la nostalgia di tutto quello che non arriveremo mai ad essere. Che non riusciremo nemmeno a immaginare.
Al mio fianco.

Lettera dall'Africa

Sono sempre qui, dove mi avete lasciato l’ultima volta. Continuo a non voler aiutare i negri dell’Africa, o, almeno, a pensare che non sia questo il mio destino. Passo i miei pomeriggi a fare quello che è giusto fare, lavoro, studio, scrivo, vomito per motivi che non so, piango, poi dormo, e fingo che vada tutto bene, ma non va bene niente. Non va bene niente.
Poi in un pomeriggio stanco, la solita domenica col cielo bianco, leggo qualcosa che so mi resterà  impressa per tutta la vita.
Federica era una ragazza magra. A distanza di anni mi accorgo che questa e la couperose sono le due caratteristiche fisiche di lei che mi sono rimaste più impresse. Più ancora dei ricci castani che tanto le invidiavo. Quando ero adolescente pensavo che Federica fosse intelligente: prendeva bei voti, era una persona con un senso, mi sembrava consapevole di sé, a differenza di me e degli altri nostri coetanei. Eravamo amiche perché eravamo nate lo stesso giorno, il 23 agosto del 1980, e lei era la prima persona che incontravo che fosse nata quando ero nata io. Siamo state amiche, credo. Magari non amiche per sempre, però amiche. C’era qualcosa che ci univa, un filo rosso che però si è nascosto, negli anni, e alla fine, come in tutte le storie viste e ri-viste, ci siamo allontanate. Non saprei dire perché. Nemmeno oggi, che è passato tanto tempo.
Quello che so dire è che Federica mi sembrava una ragazza felice. Sola, forse, un po’ introversa, silenziosa, ma una che pensa molto e che ha tutto sotto controllo.
D’altra parte, lei è sempre stata la gemella-non-di-sangue intelligente. Io, alle cose, ci arrivo sempre dopo.
Allora mi sembrava intelligente perché aveva tanti nove e dieci. Perché prendeva gli appunti in modo ordinato e perché i professori la stimavano.
Aveva una grafia chiara e sicura. Bella, direi, ma non come quelle grafie ammiccanti delle adolescenti, era una grafia forte, decisa, e molto, molto particolare. Tanto lei sembrava esile quanto la sua scrittura era carica di forza.
Un’estate, Federica mi ha anche letto il futuro: e quando una tua gemella ti legge le carte, non si può sbagliare. La verità  stava tutta lì, in quella carta numero 9 che mi ha perseguitato per tanti anni. L’Eremita non era una previsione del mio futuro, ma di com’ero e di come sono ancora oggi: sola, sul cuore della terra, trafitta da raggi di luce che mi hanno reso cieca.
Per anni non ci siamo sentite, poi ho ricominciato a leggere sue notizie su Internet, e mi sono interessata, e mi sono sorpresa, e ho, finalmente, capito. Ho capito da dove veniva la sua intelligenza: non dai voti, non da quella mente così brillante e analitica, non dalla tensione alla perfezione che la stava quasi divorando. No, la sua intelligenza, il suo essere speciale, vengono da dentro. Da quello che i cristiani chiamano “anima” e da quello che io, fervente non credente, chiamo empatia. D’altra parte, era chiaro, avevo la risposta sotto gli occhi, anzi dentro di me: tutte le persone nate il 23 agosto del 1980 sono empatiche, devono solo rendersene conto. Io ci ho messo anni a capirlo e ancora oggi non riesco completamente ad accettarlo. E’ per questo che la notte non dormo per motivi futili, che di giorno cerco di riempire ogni vuoto con un’allegria faticosa da mantenere, che continuo a cercare di dare il meglio di me anche se a volte penso sia inutile.
Mi dimeno, mi dibatto, e con tutte queste parole non riesco a dire niente, come al mio solito. Non è vuoto, questo che ho dentro, è buio, è nero, è cecità , e non riesco a vedere nulla, e mi ostino a cercare con gli occhi quando dovrei smetterla e usare le mani, le orecchie, il naso. Sentire, non vedere, perché non sempre possiamo avere l’epifania del nostro sogno.
E’ quello che non c’è. Arriva l’alba o forse no. A volte ciò che sembra alba non è. Perciò io maledico il modo in cui sono fatto, il mio modo di morire sano e salvo.

Federica è sempre stata più intelligente perché ha cercato di condividere quello che le si agitava dentro, ma non tutti, non io quantomeno, sono stati in grado di capire, allora. Oggi capisco. E capisco anche che, con le parole che usa per descrivere il lavoro che svolge in un ospedale dell’Africa, riesce a parlare anche di quello che voglio fare io, con i racconti e le storie che prima o poi scriverò. Con i mondi che, prima che sia troppo tardi, inventerò.

“Stasera l’ho capito.
Questo posto offre uno spazio, uno spazio di vita.
Qui dentro è vita, vita vera.
Vita anche se si muore, perché la vita è dignita’, accoglienza, condivisione.
Soltanto questo è quello che noi possiamo fare qui, noi che sappiamo cosa è la vita abbiamo il dovere di creare uno spazio di vita.
Di difenderlo, recintarlo, custodirlo. E di lasciare la porta aperta. Sempre.
In modo che anche Rose e i suoi bambini, Oliver e la sua mamma e tutto il resto della fila possano provare, almeno una volta nella loro vita, a vivere per davvero.”

Anche io voglio creare uno spazio dove la gente possa vivere per davvero almeno una volta. Poco importa il mezzo: c’è chi lo vuole fare dedicando la propria vita, chi con le azioni, chi con le medicine, chi con l’educazione, chi con la musica. E chi, come me, con le parole.

Lettere dall’Africa di Federica Pozzi
2 novembre 2008 alle 7.02
Uno spazio di vita

A circa nove mesi dalla mia partenza per l’Africa mi ritrovo qui, questa sera in casa mia, senza acqua, dopo una giornata di guardia e una settimana intensa e ho qualcosa da dire.
Vorrei raccontare di quando l’altra notte verso la una Brother Elio, un fratello comboniano che vive qui da almeno 30 anni mi ha chiamata dalla finestra che gia’ stavo dormendo sotto la zanzariera. Rose,una donna che lui conosceva bene si era avvelenata e aveva avvelenato anche i suoi tre bambini prima di chiudersi in casa. Avevano dovuto buttare giu’ la porta ed erano stati portati tutti in Medicina ma non si trovava nessun medico. Quello di guardia, lo avrei scoperto il giorno dopo, era andato in città  a mangiare fuori.
Il tempo di vestirsi e prendere la pila e correre in reparto. Per strada ho incontrato John, l’idraulico che tante volte mi ha aggiustato gli allagamenti del mio bagno, anche lui conosceva bene quella donna e ha voluto accompagnarmi. Stranamente le infermiere erano gia’ tutte all’opera nel tentare una improvvisata lavanda gastrica all’africana, con mamma e bambini sul pavimento. Il piu’ piccolo che non avra’ avuto due anni era stato portato in pediatria.
Verso le tre erano tutti fuori pericolo anche se non siamo riusciti a capire che cosa avesse usato la mamma ne’ il perche’ di un gesto simile. Ma qui nessuno si stupisce piu’ molto, ogni settimana arrivano almeno due o tre tentati suicidi. Quello che in tanti chiamano distress post traumatico dei paesi che escono da una guerra. In parole piu’ semplici si potrebbe chiamare disperazione.
E John poi mi ha scortata poi fino a casa prima di tornarsene a dormire in una specie di casetta da guardiano sotto ai generatori.
Vorrei raccontare anche di Oliver, una piccoletta di due anni ricoverata al Tb Ward con sua mamma, tutte e due sieropositive che non vorrei piu’ mandarle a casa perché siamo riusciti a far avere loro il cibo avanzato dalla scuola infermieri e ora che sono malate stanno benissimo.
E vorrei farvi vedere la fila di gente che dalle due alle sette di sera oggi era li’ silenziosa sdraiata per terra all’ingresso della Medicina ad aspettare di essere visitata, ascoltata, anche solo considerata. Ci ho messo cinque ore di lavoro ininterrotto per cancellarla.
Ammetto che questa settimana ho vacillato.
Al mio rientro qui dopo quasi un mese in Italia mi sono chiesta davvero cosa significhi un ospedale missionario in una terra di sofferenze, di traumi, di gente che vive al limite di tutto. Perche’ la verita’ è che il successo, la cura, la guarigione non sono mai scontate, anzi. Le mie giornate parlano di contraddizioni, di fallimenti, di compromessi per ottenere ogni tanto qualcosa di buono almeno per qualcuno.
Ho pensato, in fondo cosa offre questo posto, cosa offre la mia presenza qui notte e giorno? Se i farmaci non ci sono, se nessuno ti assicura da mangiare in ospedale e nemmeno un letto, se ti devi pagare una radiografia del torace?
Stasera l’ho capito.
Questo posto offre uno spazio, uno spazio di vita.
Qui dentro è vita, vita vera.
Vita anche se si muore, perché la vita è dignita’, accoglienza, condivisione.
Soltanto questo è quello che noi possiamo fare qui, noi che sappiamo cosa è la vita abbiamo il dovere di creare uno spazio di vita.
Di difenderlo, recintarlo, custodirlo. E di lasciare la porta aperta. Sempre.
In modo che anche Rose e i suoi bambini, Oliver e la sua mamma e tutto il resto della fila possano provare, almeno una volta nella loro vita, a vivere per davvero.