Morirò. Come tutti, del resto.

I più affezionati di voi si ricorderanno l’Allarme Tetano.
Beh, c’è un nuovo allarme che si chiama Linfociti e Leucociti, quindi, senza dilungarmi troppo e per tirarmi su il morale (o per rendere significativo il tempo che mi resta), mi abbandonerò nuovamente a una To Do List prima della fine del (mio) mondo.

Dove voglio essere sparsa

– Andare a vivere in Bretagna – Capire se mi cacciano dall’università  o se tutta la fatica che ho fatto può avere un senso – Rileggermi l’ultimo capitolo dell’Ulisse di Joyce (questa c’è e ci sarà  sempre, rassegnatevi) – Andare al mare – Fumarmi una canna – Andare al matrimonio di Paolo – Ubriacarmi al matrimonio di Paolo (possibilmente lo stesso) – Finire Okami – Finire il quaderno sulla Bretagna, mi mancano solo 7 giorni – Finire i Racconti di Torino – Trasformare MU in quello che dovrebbe essere, secondo le evoluzioni naturali delle opere di narrativa digitale – Fare un’altra vacanza in tenda – Scrivere una lettera ai miei amici (una ciascuno) su quella bellissima carta color panna con la lavanda sopra – Fare qualche bella fotografia – Leggere i Tarocchi all’Ali, che senza le mie letture prende le decisioni a caso – Vincere quella borsa di studio e dover rinunciare per via del cancro, così poi Hollywood può fare un film strappalacrime sulla mia vicenda e qualche insulso individuo può guadagnare i soldi per i diritti che io non deterrò più, in quanto morta – Scoprire tutti i segreti di famiglia e scrivere quel maledetto racconto in cui mio nonno in realtà  non è mio nonno – Mandare alla Famiglia Gray il DVD con tutte le lettere – E ora, dopo aver in parte esaurito i miei doveri finto- istituzionali dettati dal mio Super-Ego… Voglio vedere l’alba, ma come non l’ho mai vista, col sole che esce come un biscotto dal mare, tutto tondo, senza foschia, senza nubi, senza nulla – Voglio andare in barca, come quella volta in Puglia, ed esplorare tutte le grotte del mondo, e scoprire piccole pozze d’acqua di mare, ghiacciata e luminosa, che non potrò mai mostrare né raccontare, ma che io e Ricca abbiamo visto per bene, dopo aver scalato una montagna di guano (sì, signori, g-u-a-n-o) – Non avere paura, neanche di come sono io, neanche di me stessa – Restare sveglia tutta la notte con Giacomo, a parlare, come abbiamo fatto tante volte, con quell’emozione sorda che potrebbe essere l’ultima volta, e invece no – Scoprire il segreto del sugo della nonna (io e Giulia non ci siamo ancora riuscite, ebbene sì) – Rileggere Lucrezio (serve sempre un prontuario contro la paura della morte e della religione) – Convincere il mondo che i pazzi non esistono o che, se esistono, non sono loro il problema: diffidare delle persone “normali” bisogna, ecco cosa – Andare prima a Tokyo, poi nel resto del Giappone e poi anche in Tibet, così mi posso piccare di aver fatto il classico giro spirituale del turista occidentale in oriente – Imparare cos’è importante e per cosa vale la pena non dormire la notte. Esempio: gli insuccessi=nessuna stellina / non parlare con le persone a cui voglio bene=tre stelline.

Morire dobbiamo tutti.
Dicono che si passa metà  della vita a capire cosa si vuole e l’altra metà  a ottenerlo.
Quello che mi preoccupa è che io ancora non ho capito cosa voglio. Spero di non essere fuori tempo massimo…


AGGIORNAMENTI
: mi hanno appena comunicato che non morirò. Non per ora, almeno. Il dottore rideva e rideva, e anche mia sorella rideva e rideva. Ok rido anche io.
Ringrazio tutti quelli che mi conoscono.
Devo una birra a un paio di persone…

Ah, la suddetta lista la considero comunque valida, dal momento che prima o poi, in effetti, morirò.

Strage di Erba

Mi chiedevo a quanti e quali videogiochi abbiano giocato questi qui per diventare così cattivi…
Chissà  dove avevano dimenticato i principi cristiani da beghini che si sono portati dietro per tutta la vita, mentre accoltellavano il bambino…

Riprese – Raduno Philanthropy

Era una mattinata fredda e nebbiosa, con il cielo bianco tipico dei pomeriggi senza fine trascorsi sul divano a nullafacere d’inverno. Di certo, però, quella giornata non era sarebbe stata devoluta al dio Ozio, come qualche altra indifferente domenica. Era giorno di riprese alla ormai famigerata Acciaieria. Che poi è un’Alluminieria, ma nessuno ha il coraggio di dirlo. Che poi, in buona sostanza, è un cumulo di macerie.
I nostri baldi giovini si ritrovano tutti con macchine cariche, armamentari vari, costumi, armi finte, trucchi e, da non dimenticare, videocamere professionali e macchine fotografiche DiUnCertoLivello davanti al solito buco nella rete. Le 7 macchine dei presenti restano fuori alla polvere a all’inquinamento di Marghera, mentre i nostri impavidi si avventurano tra finto vetro-resina e vero amianto alla ricerca del setting giusto.
Soldati di softair, che saranno a breve comparse, compaiono insonnoliti con Gabro e Ilaria, accompagnata a sua volta dalla febbre e da un sacchetto di cracker e biscotti che costituirà  il pranzo di 12 persone. Qualcuno prepara le riprese, la luce, le videocamere, qualcun altro vaga alla ricerca di cose interessanti da fotografare.
Il materiale di scena, dal nuovo arrivato, un generatore Honda verde pisello fosforecente al cavalletto da mille euro (ma buono solo per le videocamere e non per la fotografia) è sempre e inevitabilmente pesante e va ripetutamente trasportato a destra e a sinistra del set di fortuna da braccia volenterose.
Le riprese procedono bene, con soldati che fingono di cadere, Snake che si apposta dietro le colonne e fa il figo, omini buffi che si aggirano per il set e capre che lasciano palline di merda ovunque, sì, anche sul tetto.

FINE DELLA PARTE IMPERSONALE

Ho scattato fotografie per tutto il giorno, recuperando il piacere della pellicola che scorre nella macchina fotografica, del click elettrico e meccanico dello scatto della foto, della messa a fuoco, degli obiettivi con cui giocare, della sensazione di avere una sola opportunità  per scattare la fotografia bene, o giusta o sbagliata, o bene o male, senza vie di mezzo, senza possibilità  di rifare, di riscrivere. La macchina e la borsa con gli obiettivi erano pesanti e nonostante questo me li sono trascinati volentieri dietro per tutto il giorno, con affetto, come si fa con un bambino a cui si vogliono mostrare tante cose e che si tiene continuamente per mano, con entusiasmo.
Le riprese sono andate bene, ma la parte più emozionante, come sempre, è mettersi in “controluce” e guardare le persone, guardare come partecipano, come si rendono utili, come sono disponibili. Si è riso tanto, anche se come sempre c’è l’assillo del tempo e anche se la stanchezza, presto, arriva a farsi sentire.
Ho passeggiato per un un po’ da sola tra gli edifici svuotati di metallo e ruggine, ascoltando gli scricchiolii e le strane voci che provengono dalle cose quasi morte. Enormi stomaci ormai vuoti che sembrano chiamare cibo, che sembrano supplicare di essere riempiti, di vivere ancora per un po’. E invece niente, ci sono rottami, detriti, tetano a perdita d’occhio, piccole capre che brucano erba probabilmente arricchita con il cromo e l’amianto e un silenzio più inquietante dei rumori.

FINE DEI CAZZI MIEI

Non sono mai stata una persona diplomatica, ma a quanto pare sono “abbastanza” da convincere la gente che sono una brava persona, perché altrimenti non si spiega come due poliziotti decidano di lasciarci finire le riprese su una proprietà  privata (ma decisamente abbandonata) senza, nell’ordine, denunciarci, arrestarci, tenerci una notte al fresco, sequestrarci tutto, darci delle saponette da far cadere al momento opportuno nella doccia.
Con lo sguardo contrito ammettiamo il nostro errore (di cui eravamo comunque ben consapevoli, tutta quella menata socratica che se conosci il bene, fai il bene e non il male è una cagata, abbiamo il libero arbitrio e per qualche strana coincidenza le cose illegali sono come i dolci: ci attirano di più ma ovviamente fanno male), insomma, ammettiamo l’errore e finiamo le poche inquadrature che ci mancano prima di tornare a casa, dicendo addio per sempre all’Alluminieria, che non ci vedrà  mai più. Torniamo a casa, ma non a casa nostra. Andiamo in massa, con cacche sotto le scarpe, amianto nei polmoni e polvere tra i capelli, a casa di Patrizia, che ci accoglie con diverse bottiglie di vino con il chiaro obiettivo di ubriacarci, visto che per pranzo avevamo mangiato due Rigoli Galbusera e un cracker ai più fortunati. In effetti il suo tentativo riesce bene, e ci ritroviamo alle sette di sera alticci che ci dirigiamo verso la pizzeria, saltellanti e affamati come lupi.

FINE DELLA PARTE OGGETTIVA DELLA SERATA

La cena è piacevole, così come la chiacchierata di aperitivo da Patrizia. Parliamo, in ordine sparso, di cose come la Chiesa, l’entità  vetusta e demodè della Chiesa, l’intransigenza della Chiesa e l’ipotesi di curare le persone oggi con il Codice Hammurabi. Parliamo anche di come Hive conquisterà  il mondo, del fatto che forniamo un servizio socialmente utile, che i telegiornali dicono sempre che la società  non crea luoghi e occasioni che permettano ai giovani di esprimersi e invece noi facciamo esattamente questo, ossia creiamo un’illusione per tutti, ma in cui tutti credono, quindi funziona.
La pizza è buona, ma dopo mezza birra non riesco più a capire cosa sto mangiando. Patrizia nota con stupore l’ossessione ano-genitale di Giacomo, tutti ridiamo ma non otteniamo spiegazioni.
La serata si conclude con le seguenti ipotesi:
1- conquistare il mondo
2- prenderci tutti 4 mesi di tempo, ritrovarci a vivere insieme in un’enorme casa e finire le riprese di Philanthropy in 4 mesi e non in 4 anni
3- un montaggio grezzo del filmato del giorno da parte di Giacomo ENTRO SERA

Ci salutiamo e andiamo tutti via, tranne Rob che resta incastrato col filo dello yo yo nella porta d’ingresso di Patrizia e tutti pensiamo con malizia a chissà , perché in fondo siamo delle comari di paese. Dopo Philanthropy, Beautiful!

A casa ci facciamo una doccia per scacciare via il nero del diavolo del demonio che ci si è incollato addosso e poi io mi metto a letto a fare l’imitazione di un tronchetto della felicità , con spalle, braccia e schiena bloccate in una morsa di dolore, mentre Giacomo, non so con quali forze, monta (porcoh) le scene del giorno. Mi addormento e nel dormiveglia ricordo solo un bacio all’arancia. Poi è mattina.