Non sono una Scrittrice

Ulysses
Una con mille stelle nella vita.
Oggi ho scritto una frase come l’avrebbe scritta Joyce. Anzi, esattamente come l’ha scritta.
Eppure nemmeno questo mi convince. Intendo su quello che sto cercando di diventare. Le persone non sono tutte come sembrano, e ultimamente mi sto chiedendo come sono io, che ho imparato ad aver paura di esprimere la mia opinione, il mio malumore, il mio disagio per le cose che non mi vanno. Sto zitta e ho una faccia pubblica e una faccia privata, come tutti, com’è da sempre, ma non mi fa sentire a mio agio. Io non sono quello che si vede, sono tutt’altro.
Passo le domeniche vestita male in lughi abbandonati e pieni di detriti e mi sento a mio agio, nel freddo e senza pranzare, poi quando mi devo vestire bene, per un consesso civile, mi sento a disagio e malinconica, come se stessi tradendo qualche arcano principio che non capisco molto bene. Quando sento un bravo insegnante parlare, quando riesco a imparare qualcosa che non è una “nozione” in due ore di lezione, ma è una nuova prospettiva sulla letteratura, lì mi sento entusiasta. Quando ho paura di perdere il mio tempo e che non riuscirò mai a mettere in pratica queste verità  che mi sono state come rivelate, allora provo lo sconforto del fallimento.
Rileggo quanto ho scritto, non qui, ma nei Racconti, ed è tutto così banale e ordinario, la lingua non parla, le parole sono giustapposte nelle solite frustranti combinazioni, il messaggio non arriva, se non a me, ed è comunque banale.
Anche se oggi ho scritto una frase come l’avrebbe scritta Joyce, anzi, esattamente come l’ha scritta, io non sarò mai Joyce, né Virginia Woolf, né Svevo, né Eliot, né Dylan Thomas, né Sylvia Plath, né Pasolini, né Fante, né nessuno.
Non sarò mai nessuno.
Se mi rassegnassi a questa idea e cominciassi a condurre la mia grigioamara vita da burocrate di provincia forse sarei più in pace con me stessa. La mia fallimentare vita fatta di scuola, lavoro, matrimonio e imparare a essere pazza.

E visto che non ci si può esimere dalla scontata banalità  di rosso vestita di questo ipocrita periodo di feste di stocazzo, oggi non pregherò un dio in cui non credo, ma un Santa Klaus che di sicuro mi ascolterà .
Non voglio più idiozie come la pace nel mondo, l’amore tra i popoli, lo scettro di Creamy, dimagrire, dormire la notte senza piangere nel sonno per più di una settimana di seguito, oppure imparare ad abbinare i vestiti, ricevere soldi dai nonni, andare via per capodanno.
Non voglio niente di tutto questo, e non voglio nemmeno quello che chiedo ogni anno e che nessuno sa, una parola nuova, una sola, che dia senso a tutto, che mi ricordi come si fa a scrivere, che mi insegni tutte le altre parole, che mi faccia vomitare tutto quello che vorrei dire e che non so esprimere. Non voglio nemmeno questo, perché devo capire, devo accettare, devo rassegnarmi.
Vorrei solo, ed è davvero poco perché è un non-volere e non dovrebbe costare niente, vorrei solo smettere di illudermi, saper stare al mio posto di ingiallita sognatrice disincantata da se stessa. Non è colpa della vita, non è colpa del destino, non è colpa di nessuno: non sono tagliata per quello che sogno di fare, a quanti capita, a quanti questa violenta verità  viene sbattuta in faccia ogni giorno? Cosa spero, che con l’applicazione, con le Emotions recollected in tranquillity ce la farò? Non credo. L’intuizione non basta, può essere coltivata ma non basta. Invece io sono dispersa, banalizzata da cattivi insegnanti e cattivi insegnamenti, ho perso il mio momento, ho perso la mia strada
Anche in questo sono ordinaria, perché allora, perché non posso smettere di desiderare, perché non posso smettere di amare così tanto qualcosa che sono destinata a intravedere in lontananza ma che non mi è concesso, almeno per questa volta?
Se almeno qualcuno avesse il coraggio di dirmi la verità , se almeno conoscessi qualcuno in grado di dirmi tutta la mia mediocrità  forse finirebbe tutto. Invece trovo solo mezzi assensi senza motivazione, subdoli complimenti di imbarazzo, come davanti a un bambino con le mani sporche di pennarelli e un disegno evidentemente brutto tra le mani. Ma Si è impegnata tanto…
Io vorrei per questo Natale, imparare a stare al mio posto.
Io vorrei, finalmente, capire qual è il mio posto, perché non è facile avere un cuore e un cervello che non tengono il passo, che sognano ma non sanno, che sperano ma non possono.

“Come si fà  a decidere di smettere di amare una persona?
Io non ce l’ho un carattere così forte.
Io non sono uno di quelli che per smettere di fumare un giorno, buttano via il pacchetto e non fumano più…
Una volta c’ho provato, però poi di notte sono andato a prendere il pacchetto nel secchio della spazzatura…”

Immancabile ogni anno

Arriva il momento della cazzola con i parenti. I più affezionati tra di voi ricorderanno la mitica Cazzola 2004, credo una delle meglio riuscite soprattutto grazie alla quantità  di alcool e di verze presenti all’interno di ogni commensale.
L’anno scorso, seppure immersi tra i calcinacci dei lavori in casa, abbiamo testardamente ripetuto la tradizionale esperienza: un po’ sottotono i cavoli dello zio, troppa carne e troppo poco alcool (anche se confesso che ho ricordi confusi, quindi forse di alcool ce n’era).
Ecco che arriva dicembre, le prime gelate, il clima ideale per queste piccole verze sotto cui un tempo nascevano i bambini (oggi li porta il Tamagotchi): le raccoglieremo, le puliremo e le cuoceremo fino alla nausea, spandendo per tutta la casa nuova un inenarrabile acre odore di cavolo. I miei vestiti sapranno di cavolo, io saprò di cavolo, anche lo spazzolino da denti saprà  di cavolo.
Mio padre come sempre si agiterà  perché penserà  che tutto stia venendo malissimo, che stiamo per fare la peggior cazzola della storia, io sbufferò, mia madre lo guarderà  scettica e poi tutto andrà  bene.
Arriveranno gli zii, mio cugino con la sua ragazza (quella dell’anno scorso mi stava simpatica), lo zio Roberto darà  a tutte le femmine al di sotto dei 35 anni dei fortissimi pizzicotti sulle guance, facendoci sanguinare, la zia Rosalba porterà  un dolce, dicendo che è pessimo invece poi sarà  buonissimo, la zia Mariorosa sarà  sempre magrissima, lo zio Gino, speriamo, porterà  un enorme bottiglione di vino all’interno del quale annegherò il mio dispiacere di non riuscire a condividere questo rito tribale e ancestrale con chi mi è caro. E’ strana la famiglia, ti cresce, ti dà  tanto, ma poi ti accorgi che è come la strada di casa, solo tu sai come prendere al meglio le curve, solo tu sai come comportarti, come reagisce, cosa succede.
Io mi sento molto a metà . Dualismo. Mi sento legata e insieme incatenata, mi sento vicina e insieme soffocata. Non è colpa di nessuno, non ci sono colpe quando si segue la cronologia normale dell’esistenza e si diventa una cosa molto simile a un Adulto e ci si rende conto che si è circondati da altri adulti che però ti trattano ancora come se tu avessi 6 anni, non è colpa loro, è che è sempre stato così e così sempre sarà , è un paradigma, è un modus vivendi.

A volte vorrei non aver paura dei giudizi, anzi, vorrei ricordarmi che non sempre la gente giudica.
A volte, semplicemente, vorrei risvegliarmi lunedì mattina col mal di testa da sbornia.

Il lamento di me stessa su un treno

Bella la notte al di là  del vetro di un treno, soprattutto quando mi porta da te e nell’oscurità  si nascondono tutte le possibilità  che in questa giornata molto grigia e un po’ amara mi aspettano di soppiatto anche se io non lo so, anche se io non ci credo poi molto.
Bello pensare che sto viaggiando ancora, un viaggio breve e usuale, ma così prezioso oggi, perché mi allontana e mi avvicina, perché mi lascia il tempo e il silenzio per pensare e decidere. O aspettare, ancora un po’.
E’ strana l’impressione ricorrente, le lacrime sempre in agguato, la voglia di fare e un macete sulle ali, i soldi, la solitudine di una stanza sempre vuota che invece no, potrebbero starci in tanti ma non riesco a fare tutto, alla fine.
Mi piace il mio respiro contro il finestrino, mentre con le mani cerco il buio per guardare fuori, e intravedo campi, e case illuminate, e fabbriche spente, e vite, e vita, in generale, che alla fine io sono su un treno e altri no, io sono viva e altri no, io me la devo gustare, perché altri non possono più o non hanno mai potuto.
E per questo sento sempre il peso di meritarmela questa vita casuale che è toccata a me e non a un altro, sento sempre di essere troppo stupida, troppo ingenua, troppo grassa, troppo bassa, troppo illusa, troppo arrogante, sono troppo e vorrei essere un po’ di meno, sogno troppo e vorrei sognare un po’ di meno, vivo troppo e vorrei vivere un po’ di più.
Nelle stazioni mi prendo qualche istante per respirare, per ricordarmi che a volte il turbine si ferma, che a volte la quiete esiste, a braccetto con la felicità , legata a doppio filo con l’accettazione.
Però non funziona molto, e continuo a volere le cose così forte che mi esce il sangue dal naso e la gente pensa che io sia pazza o solo furba o forse semplicemente fuori posto.
Fuori posto, certo, perché non mi adeguo. Ma non mi adeguo perché non capisco come si fa.

Preghiera estemporanea: Dio in cui non credo, ti prego, perché proprio io mi devo arrabattare con idee strambe e curiose quando potrei essere felice se mettessi da parte l’ego, il mio io, se avessi idee da pensare da scambiare con cose da fare, oggetti invece di processi, sorrisi ipocriti e vigliacchi anziché rapporti sinceri? Dio in cui non credo, ti prego, fai uno dei tuoi miracoli, con quasi tutti gli altri funziona, con quasi tutti ci sei riuscito, perché non provi ancora, anche con me. Perché non mi fai questo regalo? Pinocchio voleva diventare un bambino vero, e l’hai esaudito. Io vorrei solo diventare una bambina stupida. Si può?

Che poi ci sarebbe anche da discutere sul concetto di stupidità . Come quel film in cui tutti erano vampiri tranne uno e però questo qui voleva ammazzare tutti i vampiri, ma ormai i vampiri erano i buoni e lui il cattivo. E’ la stessa cosa, sono stupidi gli altri o sono stupida io che non riesco a essere stupida come tutti? E’ un dilemma da bar irrisolvibile, temo.
E poi tutto questo tempo fatto di malessere e cose non dette, ma vi pare? Tutti questi minuti della mia ormai breve vita che vengono sprecati in elucubrazioni di un’inutilità  sconcertante…
Pensavo che alla fine io di T.S. Eliot avrei potuto innamorarmi. Questo è un pensiero utile. Su questo vale la pena passare un pomeriggio a riflettere. Eliot, la poesia, le parole, la nostra identità , l’amore, amare qualcuno che non esiste. Perché alla fine amare un morto è come amare un fantasma o un’idea o un’icona, non esiste e basta, esiste nel racconto, nella memoria, nel resoconto. Un morto è come il personaggio di un libro, c’è ma non ne hai le prove, sono tutte indiziarie, perché in effetti non c’è più.
Forse è questo che ci succede, quando moriamo ci trasformiamo in storie, in racconti per qualcun altro che resta, in memoria di noi che si tramanda tra chi non ci conosce o ci conosceva e ci ricorda o ci reinventa. Bella la morte vista così, come un divenire racconto, divenire storia. Muoio e divento immortale, anche se non scrivevo, anche se non recitavo, anche se non.
Muoio e divento narrare di me.
Quindi sarà  meglio se prima di morire mi dò un po’ da fare ed evito di passare il tempo a scrivere in rima anziché alzarmi in piedi e cantare, o viaggiare, o ridere con persone che mi amano davvero.
Sarà  meglio.

Perdere un sentimento umano universale

Non ci avevo mai pensato, fino a oggi pomeriggio, quando ho conosciuto una musicista cinese di 29 anni, Wu Fei, una viaggiatrice eclettica, con metodo ed estro, una persona sensibile, con cui mi è piaciuto parlare mentre qualcun altro decideva di un lavoro.
E’ che ora sono un po’ disorientata sulla Cina e sarebbe necessario farci un viaggio, per capire quanto di quell’ideologia spiccia che ci propugnano i mass media è verità  e quanto è demonizzazione.
Innanzitutto non sembra questo posto dove mangiano i bambini e ti sparano in testa a ogni piè sospinto. C’è questo posto che si chiama Beijiing, con 15 milioni di abitanti dove non si sta poi così male. O, quantomeno, dove non si sta in modo tanto diverso da numerose super città  americane e occidentali. Il punto, però, è che non ne so abbastanza. Che non posso esprimermi, effettivamente, perché non ci vivo, non ho mai visto niente e anche a livello socio-politico sono piuttosto confusa sulla situazione (informazione, pena di morte, sfruttamento dei lavoratori eccetera).
Quando abbiamo però parlato della legge che consente, da ormai trent’anni, alle famiglie di avere un solo figlio, sono rimasta sorpresa. Ho sempre pensato a questa limitazione dalla prospettiva dei genitori, ossia io essere umano voglio avere quanti figli voglio e invece no.
Oggi mi si è aperta una porta: da trent’anni, in Cina, cresce una generazione che non sa minimamente cosa significhi avere dei fratelli. Sono rimasta allibita, sconcertata, incantata a pensare all’idea. Un’intera generazione senza il sentimento della fratellanza, milioni di persone nate e cresciute come centro del mondo, come unici esseri allevati e protetti e curati, o non curati, non so, ma comunque soli. Anche da noi esistono i figli unici. Ma non c’è un vuoto generazionale su un sentimento, non è stato praticato il razionale e metodico annientamento di un principio fondante degli esseri umani.
Essere fratelli, tra razze, culture, religioni, popoli e blablabla, come si può concepire questo, se da trent’anni non si sa cosa voglia dire dormire nello stesso letto con tua sorella, piangere sulla spalla di tuo fratello, sopportare i genitori in due, dividere la merenda, accettarsi nelle differenze, sopportarsi nell’odio, andare al di là  del legame di sangue ma ricordare sempre che “la famiglia è la famiglia”, perdersi, ritrovarsi, ed essere comunque figli degli stessi padri e portatori degli stessi geni, delle stesse gioie, delle stesse inquietudini, dello stesso tempo dell’infanzia trascorso insieme, coi compiti dell’inverno, le amicizie di scuola, le vacanze dai nonni, il caldo dell’estate, gli insetti, il mare, i giochi che non si raccontano, la musica, il cinema, le sigarette, i libri.

Sto male? Non ancora.

E, dicevo, c’è una generazione di milioni di persone nel mondo che, per forza, ha perso per sempre questo sentimento. Non stiamo parlando di risolvere i mali del mondo. Ovvio (più o meno), una Terra meno popolata porterebbe vantaggi a tutti. Ma una terra in cui non ci sono fratelli o sorelle? E non parlo dello squallido sentimento cristiano di “amare il prossimo tuo come tuo fratello”, no. Io mi riferisco a cose molto più prosaiche e concrete, più tangibili, a un rapporto fisico e mentale che è scomparso, per un popolo, e che non sarà  tanto facile reinstaurare.
Più ci penso più mi inquieta. Come non conoscere l’amore, come non avere i genitori, come non avere amici. Cose che ti possono capitare, nella vita, e che lasciano dei segni indelebili, cicatrici, frustate sulla carne dell’anima. Ma non è per tutti, qualcuno si salva, qualcuno si può ancora illudere di trovare amore, padri e madri (biologici o spirituali), amici. Ma se si cancella in un’intera porzione di umanità  un istinto come quello della fratellanza, quella più pratica, quella più poetica perché senza poesia, allora cosa succede?

Cancellare un sentimento, allora, non è impossibile.
E’ possibile cancellare un sentimento dall’umanità .
E’ possibile cancellare un sentimento dall’umanità .
E’ un’affermazione che mi mette a disagio.
In effetti il tempo ce lo dirà . Però se così fosse… Allora cosa?
I sentimenti non erano quella cosa che avremmo provato comunque, fino alla fine del mondo, per sempre, nonostante tutto? E se invece si possono cancellare, con una legge, cosa vuol dire? Che non sono poi così importanti?

Ecco di cos’ho davvero paura.
Che il motore immobile della mia vita sia un pacco. Una fuffa. Una fregatura. Che tutto quello che mi ha sempre fatto evolvere sia solo un costrutto sociale indotto. Che non c’è della trascendenza, in me, che si sarebbe manifestata comunque, in qualsiasi condizione, ma che sono solo un prodotto socio-culturale cresciuta così perché nata qui.
Ma allora dove sta la vera me stessa? Dov’è la mia essenza? Qual’è quella cosa di me che mi rende davvero me?
E, l’ultima domanda, la più dolorosa.
Cosa resterà  di me, quando non ci sarò, se nemmeno i sentimenti e i principi sono universali e se nemmeno loro sopravvivono alla contingenza?

Ecco. ORA sto male.

Il Tetano – 24 giorni di vera vita

Se per caso da qui ai prossimo 24 giorni scompaio è perché ha vinto il Tetano.
Oggi non sapevo che fare e visto che odio la domenica e ho deciso di dare un tono al tutto, mi sono infilata un chiodo nel piede. Chiodo arrugginito attaccato a asse di legno lurida e marcia con calcinacci e polvere e terra.
Leggi: Tetano.
Vado in ospedale e l’infermiera più grassa del mondo mi dice che se non ricordo quando ho fatto l’ultimo richiamo, mi deve fare le temibili IMMUNOGLOBULINE, che mi salvano sicuramente dal rischio Tetano ma mi espongono a Epatiti di vario genere, AIDS e a tutto il parco malattie-sanguinamente-trasmissibili.
Voglio dire.
Ero tranquillissima, io. Sono arrivata lì sorridendo e saltellando. Voi non dovreste INCREMENTARE la mia angoscia, dovreste tranquillizzarmi, farmi le coccole e dirmi che andrà  tutto bene. Non che prenderò L’AIDS da un pezzo di ferro.
Comunque. Ho discusso venti minuti cercando di capire se potevo fare solo il richiamo al vaccino invece di prendere sangue altrui. Ma loro il richiamo non ce l’hanno (sì, in OSPEDALE non hanno il richiamo per il Tetano) e quindi spingevano per farmi prendere l’Epatite & Co.
Ho tenuto duro e domani vado al distretto sanitario (anche dopo aver letto questo) piangendo e supplicandoli di non farmi morire di Tetano e, nello stesso tempo, di non infettarmi con malattie sessualmente trasmissibili.
Altrimenti tornerò a testa bassa dalla cicciona in ospedale e le dirò che sono pronta a morire. Che palle.
Nel frattempo, però, visto che è partito questo conto alla rovescia virtuale verso la mia morte prossima ventura, mi sono decisa a fare un elenco delle cose importanti che devo fare nei prossimi 24 giorni, prima che il virus ovuli, si riproduca, inoculi e l’ultima parola senza la O.
In ordine sparso, come mi gira.

Rivedere una persona che so e dormire insieme e dirgli “Fanculo l’orsetto” e ridere perché una volta da piccolo ha detto a un barista pugliese della Sacra Corona Unita: “Gli affari vanno maluccio, eh?”
– Salire un’altra volta sul tetto del Duomo in una di quelle bellissime giornate che ogni tanto anche Milano elargisce
Comprare il Nintendo DS e giocare via Wireless Lan con Paolo Ruffino a Bologna
– Andare a mangiare al ristorante eritreo, con mani, carne, buone chiacchiere e tutto il resto
Dire a Matteo che Costa & Nolan (“finalmente”, come scrivono loro stessi nella lettera) mi pagano
Rivedere Old Boy
Giocare a Shadow of the Colossus
– Giocare a MGS2 e capire perché può cambiarti la vita
Prendere il regalo di compleanno ad Alice. Possibilmente una cosa brutta e pacchiana, ma che mi farà  ricordare per sempre
Finire il saggio per il King’s College di Londra. Io non ci sarò, ma il mio pensiero sì
Scrivere almeno qualche lettera del Fuggiasco dei Racconti di Torino. Le opere incompiute sono sempre le migliori
Ubriacarmi con Max e parlare di Corvi Vetero Marxisti e della scoperta dell’amore
Ubriacarmi anche con Paolo, se magari non è troppo stanco e arrabbiato con me. O troppo deluso. O se non si sente lontano
Farmi una gustosa chiacchierata con Nemesis, che ci sono troppe cose in sospeso e gli devo un GRAZIE grande così, per quella sera di merda in cui ero stupida
Depilarmi. O forse no. Tanto voglio essere cremata, quindi…
– Rileggermi l’ultimo capitolo dell’Ulisse di Joyce in inglese finché non credo di averne capito almeno un decimo. E rileggermi soprattutto la parte che recita: “… yes when I put the rose in my hair like the Andalusian girls used or shall I wear a red yes and how he kissed me under the Moorish wall and I thought well as well him as another and then I asked him with my eyes to ask again yes and then he asked me would I yes to say yes my mountain flower and first I put my arms around him yes and drew him down to me so he could feel my breasts all perfume yes and his heart was going like mad and yes I said yes I will Yes.”
– Fare fare outing a mio padre, ma davvero, e capire che diavolo ha che non va, da tutta la vita, e che non dice a nessuno
– Scoprire con mia sorella il segreto del sugo della nonna, che sembrava normale ma creava assuefazione ed era buonissimo
Leggermi un bel libro, uno di quelli che ti cambiano la vita. Anche se sto per morire
– Restituire i numeri di Ushio e Tora a Natan, che anche se dice di no, prima di morire mi vorrà  rivedere
Andare al mare, un mare qualunque, e vedere l’alba. Anche da sola va bene

Se mi viene in mente altro aggiungo.

Intanto, però, mi rendo conto che venerdì dovrò andare a fare Rafting su un fiume scosceso e pericoloso con Paolo, Max e Fede. Quindi forse non ho nemmeno 24 giorni di vita, ma solo 4. Bah, almeno mi risparmierò l’agonia della malattia. E verrò divorata dai pesci del Ticino. Mioddio che fine trash.
Comunque, pensavo che sarei stata angosciata, stanotte. Invece mi sento fortunata. Con la consapevolezza dell’orologio e del calendario che ci segnano il corpo, e con qualche piccola cosa da fare nel mentre.

“Neanche di mosca che ha l’ali distese è così repentino lo scarto”
Non è poi così male essere umani.

Il dolore della vita

Vale e Max felici
E’ sapere che due sorrisi così un giorno passeranno.
Ma per ora ci sono, nonostante tutto, nonostante tutti.
In attesa di trovare le parole, una risata.
Ci seppellirà .
Forse, ma va bene così.