
Dopo esserci disintossicati sulle montagne, era il caso di tornare alla dura realtà con una breve gita nella zona più zozza e squallida del Veneto: Porto Marghera.
A volte cercare location per girare è interessante. Come in questo caso.
Un enorme complesso di alluminierie abbandonate all’inizio degli anni ’80.
E’ un luogo ideale per le riprese, ma visto che sono un’umanista letteraria e che mi piace farmi trasportare dall’emozione più che dalla pragmatica praticità legata alla contingenza, non racconterò della meraviglia e della funzionalità di questo “locus amoenus”, ideale per fare da terminale militare abbandonato. No, mi concentrerò invece sull’insieme di sensazioni tra la diffidenza, la curiosità , la paura e la pena che questo luogo ai confini del mondo mi ha causato.
Entriamo senza problemi. C’è una rete arancione tutto intorno alla zona, ma non ci sono cartelli di divieto né di pericolo. Lo spazio è sconfinato, e soprattutto l’enorme deposito abbandonato sulla sinistra, lungo, ridotto a uno scheletro, arrugginito, ma imponente e “loquace” fa impressione. Entriamo in alcuni edifici di servizio, l’infermeria, i locali comuni, la zona mensa. E’ tutto distrutto. Vetri per terra, muri scrostati, porte divelte. Le strutture cigolano, i pezzi di lamiera o di plastica appesi e pericolanti che sporgono dai soffitti si lamentano al passare del vento leggero.
C’è anche un “edificio peloso”…
E, nel caso servisse un telefono…
Il contrasto è feroce: mura dilaniate, vecchie e cadenti, rifiuti ovunque, vetri rotti, e poi, fuori, dai buchi nei muri, il cielo, le nuvole bianche che sembrano batuffoli bassi.
Continuiamo a camminare, passando da un edificio all’altro, come bambini curiosi in un parco giochi.
Continuiamo a camminare, ma presto ci accorgiamo di non essere soli. Per terra, nelle stanze abbandonate, troviamo alcune cosiddette “tracce umane”, bottiglie di birra, scatole di prosciutto sparse, lattine, maglioni di lana lurida e marcia buttati negli angoli o, peggio, appesi alle travi in posti apparentemente inaccessibili.
E troviamo un uomo. Un anonimo quarantenne seduto su una sedia in una stanza un po’ isolata, in mezzo alle macerie, con una maglietta rossa. Giacomo lo saluta. Lui ricambia. Ce ne andiamo in un scena semi-felliniana, un po’ spaventati dall’incontro imprevisto.
E io comincio a chiedermi: “E se ci fosse una colonia di senzatetto che occupa abusivamente la fabbrica?”
In effetti è così. Oddio, non proprio una colonia. Però sentiamo altri rumori, provenire da un edificio lì vicino.
Ci infiliamo nell’enorme deposito su più piani, il cuore di questo luogo tra il magico e l’agghiacciante. Dall’interno non riusciamo a scorgere la fine, tra colonne di cemento e pali di ferro.
Non riusciamo ad arrivare all’ultimo edificio, una specie di enorme raffineria di non so cosa, che sembra peraltro il più pericolante. Tornando alla macchina vedo l’uomo dalla maglietta rossa e un altro individuo che passeggiano per il cortile tra gli edifici.
Arrivati alla macchina, notiamo che il cancello da cui siamo entrati è stato accostato. Usciamo senza problemi, ma con un vago senso di disagio.
La tipica sensazione da “Mi hanno osservato tutto il tempo e non me ne sono accorta”.
Poi, in realtà , penso un’altra cosa.
Che la diversità ci terrorizzi è cosa normale. E’ così da sempre. La cosa difficile è rendersene conto e smetterla di essere paranoici, forse.
Dico sempre di essere affascinata dalle situazioni un po’ al limite, quantomeno fuori dalla norma. E quando mi ci trovo davvero davanti, mi faccio assalire dai miei civilissimi complessi e dalle mie legittime paranoie da cittadina modello.
Mah, a ogni modo.
I più penseranno che mi è “andata bene” stavolta. Che siamo incolumi e sani e salvi.
Io penso che poteva andarmi “anche meglio”. Che potevo scoprire di più. Che potevo farmi raccontare, da chi in quel posto evidentemente ci vive, cosa succede davvero quando il mondo non guarda. Chi ci va, cosa fanno, perché.
Perché, ad esempio, decidere di passare la propria vita in stabili abbandonati e diroccati, tra i fumi chimici della zona industriale più inquinata del nord Italia. Perché spendere e anzi buttare il proprio tempo in quel modo? Perché rifugiarsi in quell’ammasso di rovine? Per nascondere vite altrettanto rovinate? Per evitare di rovinare ancora di più?
Non lo so e, chiaramente, non lo saprò mai.
La paura e il buonsenso a volte sono troppo più forti della curiosità e della voglia di sapere.
Purtroppo.