Rinascita alchemica in corsoA new beginning

Dopo tanti anni – sei quasi – di attività  altalenante e d’aspetto pressoché immutato, AlchemicoBlu si incendia e incenerisce. E si prepara – a breve – a rinascere da queste ceneri bianche in un pulsare  di colori nuovi, di voglia di fare e di racconti.

Presto il bianco accecante e il grigio che vela gli occhi si trasformeranno nel colore della rinascita.
Tornate a trovarmi!After many years – six, actually – of up and down activity and of the same skin, AlchemicoBlu is burnt to the ground and is turned into ashes.
And then it gets ready to see the light again, from this white and grey ashes, in a colourful cascade of new strenght, will to do and stories.
Come back soon!

La cura per il cancro

In effetti, dovendo ricostruire a posteriori com’era arrivata lì, in quel preciso momento, con quella meravigliosa scoperta tra le mani, Ludovica Centi non riusciva a pensare ad altri che a sua nonna.
Era stato seguendo il suo calvario per il cancro alle ossa che aveva cominciato a frequentare gli ospedali. Non che ne avessero girati molti, anzi a dire la verità  uno solo, ma ricordava nettamente di essere rimasta affascinata da tutte quelle provette colorate, dagli zoccoli morbidi delle infermiere e dal fatto che la gente malata andasse lì perché altra gente, all’apparenza del tutto normale, poteva aiutarli in qualche modo magico a stare meglio. Aveva otto anni ed era allora che aveva deciso che sarebbe diventata medico.
Non era stato facile, in effetti, convincere la sua famiglia che quella era la sua strada. Un po’ perché di soldi in casa non ce n’erano tanti e non era facile tirare avanti, un po’ perché avrebbe dovuto andare a studiare chissà  dove e questo non stava bene, chissà  cosa avrebbero detto in paese. Ma Ludovica era una bambina gentile, e poi una ragazza gentile, che senza alzare la voce riusciva a fare sempre quello che voleva – quello che era giusto, continuava a ripetere. Era come se sentisse di avere una missione, ma invece di buttarsi nella religione (cosa facile dalle sue parti) aveva deciso di imparare a fare magie ancora più grandi e di salvare la gente che era morta come sua nonna.
La vita di Ludovica Centi sembrava una vita normale, da fuori. Sempre più brava degli altri quando si trattava di studio, sempre la prima ad arrivare e l’ultima ad andare via quando c’era da lavorare sodo, all’università , lontana anzi lontanissima da casa, si era distinta per la sua precisione e la creatività  che riusciva ad applicare ad altrimenti sterili procedure cliniche. Il dottorato di ricerca era stato il passo naturale successivo alla laurea e alla specializzazione, poi una borsa da ricercatrice all’estero, presso uno degli istituti oncologici più prestigiosi d’Europa, ogni tassello della vita di Ludovica Centi, osservata dall’alto, sembrava convergere verso quell’unico momento in cui avrebbe – e aveva – trovato la cura per il male incurabile per eccellenza. La persona più importante del pianeta, così l’avrebbero definita, ora che l’ennesimo ciclo di sperimentazione era andato a buon fine e del cancro non restavano nemmeno gli effetti più lievi. Avrebbe avuto le copertine di tutti i giornali, e non solo delle riviste scientifiche. Ne era certa.
Questa era la parte alla luce del sole, della vita di Ludovica Centi. La parte più facile, quella che lei aveva sempre visto chiara nella sua testa, da quando aveva otto anni, e che ora era arrivata alla sua conclusione naturale: la cura.
Tuttavia, Ludovica Centi aveva un segreto che non aveva mai confessato a nessuno. Un segreto bizzarro, a dire il vero, ma che per tutti gli anni della sua vita aveva costituito uno strano interrogativo. L’unico, in effetti, ora che anche il cancro era stato sconfitto. Ricordava bene sua nonna e ricordava bene tutto il decorso della malattia alle ossa che l’aveva portata alla morte. Ricordava i letti bianchi rifatti una volta al giorno, ricordava le lacrime di sua madre quando, a casa, nella penombra, parlava con suo padre e sapeva che era solo questione di tempo, ricordava tutto perfettamente, anche il funerale, i fiori sulla tomba, ricordava ogni cosa.
Un unico, inquietante dettaglio della morte di sua nonna stonava con tutto il resto, ed era l’immagine che aveva di lei sul letto di morte. Perché in effetti, non c’era nessun letto e sua nonna sembrava morta di tutto fuorché di cancro. Ludovica ricordava un rombo. E poi vedeva sua nonna come spezzata a metà  da una delle travi di legno della loro casa. La vedeva orribilmente massacrata, con sangue ovunque e anche viscere e soprattutto ricordava che aveva gli occhi sbarrati e che stringeva tra le mani un inutile rosario – quello con cui si coricava ogni sera, dopo le preghiere. Ricordava polvere e calcinacci. E sua nonna morta non di cancro. Poi tutto il resto tornava normale. Tornava ordinato. La vedeva nella bara, composta come avrebbe dovuto essere. Vedeva suo padre e suo fratello, sua madre, e tutto andava bene, perché era morta una donna anziana che stava soffrendo.
Ovviamente tutto questo non aveva senso. Ludovica Centi aveva votato la sua vita alla scienza e sapeva di non essere pazza. Così aveva semplicemente cercato di liquidare la questione di questa incongruenza con una spiegazione di psicologia da bar, per cui l’immagine di un’altra morte si era sovrapposta, nella mente di lei bambina, a quella di una persona che amava. Rimozione, la chiamano. O qualcosa del genere. Ludovica Centi non avrebbe prestato attenzione a questo dettaglio insignificante se non fosse stato per il fatto che, dall’età  di otto anni, ogni notte, ogni singola notte, alle 3.32 si svegliava con quella visione chiara negli occhi. All’inizio si era spaventata, era piccola e la violenza di quella morte l’aveva lasciata sconvolta. Poi, lentamente, vi si era abituata, anche perché era una visione così prevedibile e costante che ormai faceva parte della sua routine quotidiana, come cenare o andare in bagno. Dopo dieci anni aveva addirittura imparato a riaddormentarsi quasi immediatamente. A distanza di trent’anni, considerava quella stranezza un piccolo ma accettabile inconveniente nella sua vita. Ovviamente aveva provato a non addormentarsi e farsi sorprendere sveglia, alle 3.32. In quel caso, però, non succedeva niente. Restava lì, il minuto passava e tutto era come prima. Solo che tendenzialmente a quell’ora di notte lei era solita dormire e, da persona totalmente razionale e illuminista qual era, non intendeva sconvolgere le sue abitudini per una bizzarra stramberia senza spiegazione.
Questo non faceva di lei una persona speciale, al limite solo una persona con problemi. In effetti, fino a quel 5 aprile 2039, Ludovica Centi era stata una persona ordinaria, molto dedita al suo lavoro, sicuramente brillante, ma senza quella verve da prima donna che caratterizza molte delle persone che contano in questo secolo. Riservata, solitaria, una strenua e onesta lavoratrice, una donna “in carriera” ma a modo suo, che aveva dedicato tutta se stessa a un’intuizione d’infanzia e che, da adulta, poteva vantare la maternità  della scoperta scientifica più importante di sempre. Perché parlare a qualcuno di quell’insulso frammento polveroso che assillava le sue notti? Perché cercare di sistemare qualcosa che funziona quasi perfettamente? Non ce n’era bisogno. A volte si fanno danni peggiori quando si cerca di scoprire. E Ludovica Centi non voleva scoprire niente. Niente che non fosse la cura per il cancro, in effetti, e tanto le bastava.
Cosa provava, ora che da razionalista, illuminista e ovviamente ricercatrice affermata sapeva con certezza che, grazie alla sua scoperta, il cancro sarebbe stato lentamente ma inesorabilmente debellato, come era successo in passato col vaiolo, ad esempio? Soddisfazione. In realtà  Ludovica Centi si sentiva come se avesse spuntato l’ultima voce di un lunghissimo elenco di cose “da fare” che era stato compilato – da lei stessa – molti anni prima. Un lavoro ben fatto, ecco. Il suo contributo. Una di quelle cose che fanno piangere la gente quando muori. Una rivoluzione copernicana che avrebbe alleviato le sofferenze fisiche e psicologiche di moltissime persone, che avrebbe reso tutto più controllabile, che avrebbe reso l’uomo un po’ più libero dal fattore “casualità â€. Era forse questo il secondo motivo, oltre all’affetto per sua nonna, che l’aveva spinta su quella strada: il cancro ti colpiva così a casaccio, un fumatore recidivo che consumava 40 sigarette al giorno poteva morire investito da un’auto a 94 anni mentre un ragazzo di 25 anni sportivo e salutista poteva contrarre la leucemia fulminante e andarsene nel giro di tre mesi. Troppo, troppo arbitrario. Già  siamo in balia di tanti fattori randomici, perché non cercare almeno di eliminarne qualcuno? E lei ce l’aveva fatta. Il suo fattore randomico l’aveva ridotto a zero. Sì, perché credeva fermamente che ognuno, nella propria vita, può ridurre al minimo i rischi che il caos e l’imprevedibilità  comportano. Ognuno può dare il proprio contributo e, come le ali che sbattono qui e creano una tempesta marina là , tutti noi possiamo fare un’azione in un certo modo e stabilizzare la vita di qualcuno, altrove. Ecco, lei aveva stabilizzato quella torre di carte che le era stata consegnata da piccola e l’aveva trasformata in un albero, con le radici ben infisse nel terreno, stabile e proteso verso il cielo. Quella torre-albero non sarebbe crollata, anzi: sarebbe cresciuta e avrebbe sparso i suoi semi intorno e intorno e lentamente si sarebbe affiancata alle altre torri-albero realizzate dagli altri uomini e donne e tutta la Terra sarebbe stata una meravigliosa foresta, immortale e bellissima.
Strani pensieri, pensò Ludovica Centi, non sono da me. Di solito penso per formule e numeri, non per immagini e poesia. Dev’essere l’emozione. Sì, sono emozionata.
Quella però non fu l’emozione più forte della giornata, perché fu quella notte che Ludovica Centi finalmente ricordò cos’era successo a sua nonna. Fu quella notte che Ludovica Centi scoprì qual era il senso della sua vita.
Quella notte, alle 3.32 la visione, la solita, tornò per l’ennesima volta, prevedibile e identica a se stessa come sempre. Quella notte, alle 3.33 Ludovica Centi non si svegliò. Per la prima volta in trent’anni riuscì a vedere cosa avveniva dopo. Ludovica ricordava un rombo. E poi vedeva sua nonna come spezzata a metà  da una delle travi di legno della loro casa. La vedeva orribilmente massacrata, con sangue ovunque e anche viscere e soprattutto ricordava che aveva gli occhi sbarrati e che stringeva tra le mani un inutile rosario – quello con cui si coricava ogni sera, dopo le preghiere. Ricordava polvere e calcinacci. E sua nonna morta non di cancro. Quella notte ricordò anche il pianto di un bambino, un bambino piccolo. Ricordò un dolore sordo alla cassa toracica e all’occhio destro e le sembrò di essere in gabbia. Osservava la scena attraverso delle sbarre. Il tempo si dilatò. Ludovica si rese conto di essere lei a urlare e piangere, si rese conto che le sbarre attraverso cui guardava la scena erano quelle del suo lettino ribaltato che l’aveva schiacciata per metà , mentre la casa crollata aveva ucciso tutta la sua famiglia. Rabbia. Ricordava di voler scappare, ma non poteva muoversi. Ora faceva tutto male e se piangeva la mamma non arrivava. E la nonna era lì, spaccata in due, come la sua casa, come la sua vita. E come la cura per il cancro che non avrebbe mai scoperto e come tutte le notti in cui non si sarebbe svegliata alle 3.32.
Ludovica Centi si ricordò di essere morta.
Sapeva che c’erano troppe cose che non aveva avuto il tempo di fare, che era ancora troppo piccola anche per essere famosa e che, in quel terremoto, sarebbe stata solo un nome, una data di nascita e un numero, non qualcuno di cui si sarebbe sentito la mancanza. Perché non aveva cantato canzoni altrui. Perché non aveva potuto godere dei suoi quindici minuti di notorietà . Perché era troppo piccola e troppo concentrata su cose più importanti, destinata, in effetti, a cose più importanti, come scoprire la cura per il cancro.
Solo che non le avevano dato tempo. Qualcun altro aveva abusato del suo fattore randomico e aveva costruito male la sua casa. Aveva costruito male il suo ospedale. Qualcuno aveva costruito gli spazi della sua vita sulla sabbia e, si sa, quello che viene costruito sulla (e con la) sabbia non è destinato a durare. Per risparmiare. Lo fanno tutti. Cosa vuoi che succeda. E intanto la sua casa era crollata come il castello di carte che lei, nella sua ipotetica vita, aveva costantemente cercato di tramutare in quercia. E niente di tutto quello che avrebbe potuto essere della sua vita sarà . D’altra parte, non è detto che il nostro destino debba essere quello di sconfiggere il caso. Ludovica Centi questo l’ha capito ed è morta, a meno di un anno, più tranquilla di come avrebbe vissuto.

Tutti piangiamo potenzialità  scomparse.
Ma nessuna vita sarà  più bella di quelle che ci possiamo immaginare.

I'll be back soon

Torno Subito

Non ho mai voluto un “blog”, ho sempre voluto scrivere.

La mancanza di un progetto, in tutto quello che faccio, è così evidente da essere abbagliante.
La forma non conta, conta la sostanza, che dovrà  cambiare per prima cosa nella mia testa.

TORNO SUBITO e con cose nuove. Con progetti nuovi. Spero. Sì.

Glimpses of life

Per chi si chiedeva che fine avessero fatto le mie Malinconie Urbane, un aggiornamento.
In effetti non sono “morte”, ma, dopo troppi anni dalla concezione, si devono svecchiare e devono evolvere.
Intanto, per tutti i curiosi (i miei 3 lettori, altro che 10), c’è un Wiki-spoiler della prima Malinconia disponibile online (metà  in inglese, metà  in italiano) e la Galleria di immagini di alcune delle centinaia di fotografie che ho scattato per il progetto.

La cosa più inutile che possiate fare è scrivermi un messaggio dicendo: “Bello, mi piace” oppure: “Che schifo”.
Se vorrete spendere un quarto d’ora spiegandomi perché vi piace oppure no, ve ne sarò grata.

In vino veritas

Se non trovi bellezza né armonia in quello che fai nemmeno quando sei ubriaco, nemmeno quando tutto dovrebbe avere senso, allora sei mediocre.

I know it’s the price of love
I know it’s not cheap…

Oh, come on… Baby, baby, baby, light my way…

Perché mi sento al buio?

Dormo con un coltello vicino al comodino.
Non si sa mai.
E poi fa così Ottocento.
O Settecento.
Insomma, quando morivano di coltelli.
Tipo.

Del perché sono un'idiota

1- Penso di essermi accettata come sono, poi scopro che non ho capito come sono e che ho accettato un fake di me stessa. Poi ho pensato che quel fake fosse reale, poi mi sono fermata a pensare ma in realtà  non ho capito, ho mangiato del sushi e ho scritto a matita sul mio quaderno per soddisfare la mia parte finto-bohemienne e mi sono auto-definita ‘borghese’ con disprezzo

2- In una stradina della mia città , ho visto un ragazzo di colore e una ragazza di colore che cercava di salire su una bicicletta. Appena mi hanno visto, si sono immobilizzati, interrompendo qualunque cosa stessero facendo e io ho pensato che lui la stesse molestando, ‘D’altra parte è negro’, mi sono detta. Ho fermato la macchina poco più avanti e ho guardato nello specchietto retrovisore. Lui le stava insegnando ad andare in bici, lei non era capace, li ho sentiti distintamente ridere, si sono baciati

3- Prima di cena passeggiavo nell’ennesimo squallido centro commerciale della mia grigia città . Vedo Angela, una ragazza disabile di una decina d’anni più grande di me, che conosco di vista perché frequentava le magistrali mentre io andavo alle elementari dalle suore. Non abbiamo mai parlato, ma io me la ricordo, perché quando ero piccola mi aveva fatto molta impressione. Non può camminare e ricordo distintamente che quelle puttane delle magistrali del mio paese la tiranneggiavano e la prendevano in giro. Una volta che doveva andare in bagno le avevano fatto credere che non ci fosse nessuno, poi in realtà  dentro c’ero io che avevo 7 anni e quando lei ha aperto la porta, ed era sulla sua sedia a rotelle motorizzata e aveva la faccia un po’ storta io mi sono spaventata e loro hanno riso e lei si dev’essere sentita una merda.
Fatto sta che stasera la rivedo, sempre su una sedia motorizzata, ma bella, con un viso dolce e truccato gentilmente, i capelli neri, mentre, da sola, beve qualcosa a un bar e mangia qualche stuzzichino. Passo oltre, mi blocco, ci ripenso e torno indietro. Le chiedo se lei è veramente lei. Mi dice di sì e mi dice che si ricorda di me. Forse per quello stesso episodio del bagno, non posso saperlo, non glielo domando. Però parliamo per qualche minuto e scopro che è una psicologa e che aiuta i ragazzi all’università . Guardo il suo bicchiere solo e lei capisce: mi dice che sta aspettando suo marito e che devono fare la spesa. Le dico che la capisco e che lavorare a Milano è una fatica, ma si possono fare molte cose belle. Non abbiamo detto niente più di così, ma io ho capito e forse anche lei ha capito quello che ho capito io. E non è sola, e sembrava serena e probabilmente lo era. E se cerco di ricordare di che colore era la sua sedia motorizzata non lo ricordo, ma so benissimo che ha dei begli occhi marroni e i capelli lisci. E che è una persona gentile.
E so anche che quelle puttane che la deridevano staranno tristemente succhiando cazzi dopo squallide serate in discoteca, senza aver capito niente di quello che si può arrivare ad essere nella vita

4- Riesco sempre a restare in bilico e a portare sul bilico anche chi in bilico non sarebbe. Hai presente quando ti guardi indietro nella vita e ti dici ‘Se non ci fosse stata quella persona non ce l’avrei mai fatta?’
Ecco, io NON sono mai quella persona, io sono il grillo parlante, quello che sta sul cazzo a tutti e che dice cose ovvie, sono il classico essere che nella divisione del mondo tra ‘Geni’ e ‘Chi dice di essere genio’ si inserisce nella seconda categoria, sono la mediocrità  mascherata da brava ragazza e sono la mia falsa ambizione, la mia falsa facciata, la mia vera idiozia, la mia falsa voglia di fuggire, il mio senso di inadeguatezza eccetera eccetera eccetera

5- Passo per una strada dove una volta io e la mia amica Alice ci siamo nascoste mentre bigiavamo da scuola e vedo che ormai anche lì arrivano i tentacoli della Gallarate bene: gentaglia che ha costruito la reggia di Beverly Hills con tanto di piscina. Le case ‘popolari’ e da poveri che ci sono intorno spiccano per contrasto e fanno sembrare la reggia ancora più sontuosa. Poi mi ricordo che le testedicazzo proliferano ovunque e che ovunque andrò mi seguiranno. Nel frattempo mi dò dell’imbecille perché, nonostante tutto, sono ancora qui

6- Il silenzio e la solitudine di stasera non aiutano affatto. E so già  che, dato che non ci sei, non riuscirò a dormire, mentre quando sei qui mi addormento come un bambino in giro per casa.
D’altra parte questo post si intitola Del perché sono un’idiota, quindi…