MU – Segretezza della malinconia

E’ ancora acerbo.
E’ ancora, veramente, “in progress”.
Ma questa volta questo ennesimo progetto ipermediale si sta conquistando una forma. Sta prendendo corpo, nelle nostre menti, e tra poco anche nell’etere.

E’ difficile parlare di anti-psichiatria senza nominare il termine.
E’ difficile prendere spunto da quello che ci succede, da quello che ci è successo, senza lasciare che prenda il sopravvento.

Non vogliamo scrivere un’autobiografia stentorea e scontata.
Non vogliamo fare i soliti detrattori del sistema.
Vogliamo – vorremmo – mostrare come la gioia chimica sia solo un’illusione e come, invece, l’equilibrio non sia nella stasi dell’anima, ma nel movimento della nostra tempesta interiore e nell’accettazione di questo movimento, di questa costante e imperitura instabilità .

Quale cornice migliore per mostrare questo scempio se non una città , anzi, La Città , quella che sembra catalizzare e risucchiare tutte le energie dei milioni di persone che ci vivono (anche senza abitarci, a volte) e che annega sotto uno strato di smog soffocante le speranze e il desiderio di vivere una vita piena di sentire.
Ecco di cosa vogliamo parlare.
Di un’anestesia generale di cui non ci accorgiamo più.
Della morte emotiva e dell’impianto di un “microchip emozionale” che dovrebbe sopperire a tutti i nostri bisogni di sensazione.
Ma non è così.
E allora urliamo immagini e testi innocui per dire che può essere diversamente. Che può andare diversamente. Che a volte no, ma a volte sì.
A volte sì.

E forse anche noi, con quest’opera in travaglio, stiamo cercando di ricordarci quanto sia bello sentire tutto, sentire il bene e il male, la leggerezza e lo spleen. Di quanto siano incantevoli le malinconie.
Le nostre Malinconie Urbane.

Cazzöla con Parenti – 2004

Succede ogni anno, è inevitabile, ormai, peggio delle feste comandate. Succede che si deve espletare questo rito barbaro animale di mangiare chili di carne di maiale con chili di cavoli auto-coltivati. E’ una cerimonia complessa, che richiede un intero giorno di preparativi e, di conseguenza, un’intera giornata di “fruizione”.
Il Giorno della Cazzöla. La Cazzöla, abominio della cucina lombarda. Quante famiglie la cucineranno? Tante. Per gli altri sarà  un normale piatto, magari un po’ più indigesto degli altri. Non per noi. Qui la questione di complica.

Quella di seguito riportata è la formula rituale che la Famiglia (la mia) ha ideato, sperimentato e perfezionato in anni e anni di lavoro per il Giorno della Cazzöla.
Non deve valere per tutti. Non può valere per tutti. Non sono mica tutti come noi. Perché la Famiglia non è normale…

1- La Ricetta
Il numero totale di partecipanti al rito è, solitamente, mai inferiore ai dieci e, finora, mai superiore ai quindici (ma non c’è nessun limite vincolante). Nonostante il numero di persone sia sempre più o meno lo stesso, ogni anno, al momento dell’acquisto e della preparazione degli ingredienti, scoppiano guerre furibonde tra il Padre e la Madre per i quantitativi. Secondo il Padre, qualunque quantità  è poca. La Madre, per fortuna, ha più senso della misura. E, nonostante abbia sempre ragione lei, ogni anno il Padre passa giorni e giorni in paranoia più totale ripetendo, quasi fosse una litania (d’altra parte, è un rito…), “Ohhh… No… Troppo poco… Troppo poco… Non bastano… Non basteranno mai…”
Per fugare i dubbi, propongo qui una ricetta (gli ingredienti e le quantità ) che tornerà  utile nei giorni bui dell’anno prossimo, quando il problema si riproporrà .

Cazzöla, ingredienti per 12 persone:
Cavoli (verze): 15 chili
Puntine di maiale: 5 chili
Salsicce (piccole e tonde): 15 pezzi
Cotenna: 1 chilo

I cavoli devono essere quelli dell’orto dello zio Roberto. Quest’anno ne aveva 18, ma le farfalline glieli hanno mangiati (ma che farfalline erano?!). Ne abbiamo usati circa 10. La carne deve essere ottima, di maiali non grassi alimentati a cibi biologici e sottoposti a severo allenamento fisico. Devono essere in carne e in forma, non sovrappeso! Cotenne, salamini si confondono nel mucchio. Fanno colore.

Spero in questo modo di evitare giorni di angoscia e di titubanza.
Conoscendo il Padre, so che non sarà  possibile. Ma va bene così.

2- La Preparazione
Parafrasando una famosa pubblicità , “Per cucinare dei grandi cavoli, non ci vuole un grande pentolone, ci vuole un pentolone grande!”
E un pentolone grande (molto grande), guardacaso, fa proprio parte dei beni più preziosi della Famiglia.
Poi ci vogliono mani e adepti pronti a sezionare e preparare i cavoli ad arte, lavando foglia per foglia, con amore e dedizione. Infine, tutte le foglie vanno inserite nel suddetto pentolone, che sarà  portato a spalle in cantina dai membri più forti della Famiglia (che fortuna, il Padre ed io). Infine, nei bui anfratti del garage, avverà  la cottura dell’innominabile. Ore ed ore di ribollitura abominevole. Solitamente, l’unico membro che resta ad assistere a questa parte del rituale è il Padre. Con un enorme bastone, in modalità  Stregone, rimesta senza pace (dicono che, durante il resto dell’anno, nelle notti di luna piena, il Padre si aggiri cercando cavoli e pentolone, che però vengono debitamente nascosti). Gli altri membri della Famiglia vengono dispensati da questa parte ripugnante del rito. Le Figlie escono (o meglio, fuggono), la Madre si dedica ad attività  di preparazione ambientale (tavola, bevande et similia).
Ma non è tutto. una volta cotti i cavoli, ricomincia la fase del lamento: visto che durante la cottura il volume delle verze diminuisce visibilmente, il Padre ricomincia i suoi gridi di angoscia, minacciando e mettendo tutti in guardia. Quest’anno non sarà  abbastanza.
Viene, a questo punto, inserita la carne (precedentemente trattata in modo opportuno dalla Madre), e i cavoli e la carne vengono suddivisi in pentole di dimensioni più umane che verranno piazzate (rigorosamente tutte insieme) nell’unico forno di casa. E’ la Madre che sovrintende ai lavori. Cucina e sala la carne, assaggia i cavoli per capire se saranno troppo insipidi, effettua calcoli matematici e inventa algoritmi complessi per inserire un egual numero di puntine, cotenne e salsicce nelle varie pentole, controlla che la cottura in forno abbia buon esito.
Un dettaglio quasi insignificante che stavo per dimenticare. La famiglia del Padre è lombarda da generazioni. Anche un po’ veneta, a dire il vero. Però del freddo Nord, insomma. La famiglia della Madre è Meridionale da generazioni. La Madre, addirittura, è nata in Libia, a Tripoli. Eppure, adottata da questa terra, ha saputo imparare a cucinare il piatto tipico rituale lombardo come nemmeno il Padre e i suoi fratelli sanno fare.
Quindi, ricordare: per una cazzöla ben riuscita, si consiglia l’uso di un cuoco (o una cuoca) del Sud. Più del sud è, meglio è. Capirete che noi, con la Libica, abbiamo un’arma segreta.

La preparazione dell’abitazione ad accogliere 12 persone è affare di ciascuno. Noi dobbiamo recuperare sedie dai loci più indescrivibili. Ognuno se la sbrigherà  come meglio crede.

3- Il Giorno della Cazzöla
Solitamente il Rito del Giorno della Cazzöla si svolge la domenica a mezzogiorno. Come ogni festa “religiosa”, anche questa non ha una collocazione temporale casuale: la giornata del sabato è interamente dedicata ai preparativi. La giornata della domenica è dedicata all’assunzione. Il pomeriggio della domenica è dedicato al cosiddetto “ripiglio”.
Svegliarsi con odore di cavolo, maiale e cotica la domenica mattina non è un’esperienza per tutti. Noi ormai siamo abituati. Anzi, siamo quasi affezionati. Ma per uno “straniero” sarebbe un momento duro da superare.
Dopo gli ultimi frenetici preparativi, i parenti arrivano all’una, precisi e affamati come sempre.
I parenti, nell’ordine sono. La zia Rosalba (la Sorella del Padre), lo zio Roberto e il Marco. Lo zio Gino (il Fratello del Padre), la zia Mariarosa e il Simone. Quest’anno, new entry, c’era la ragazza del Simone. Si trovata nel bel mezzo di un nuovo film di “la Famiglia Entertainment”: La mia grossa, grassa Cazzöla lombarda. Chissà  se tornerà  l’anno prossimo.
Poi, ovviamente, c’è la Famiglia: il Padre, la Madre, la Vale, la Giulia.
(nota bene: gli articoli davanti ai nomi propri sono parte integrante dei nomi stessi.)
La zia Rosalba si occupa dei dolci. Lo zio Gino si occupa delle bevande. Quest’anno ha portato una bottiglia leggermente più grossa del normale
Spumante con la cazzöla, direte voi? Ebbene sì. Perché secondo lo zio Gino, lo spumante frizzantino aiuta il famosissimo processo del disgà¶rg. Permette, cioè, di mangiare a volontà  il “cibo degli dei” e di evitare che si cementifichi nello stomaco. Il disgà¶rg è la novità  di quest’anno. Abbiamo passato circa mezzora nella spiegazione del suddetto meccanismo e un’altra mezzora a bere per dimostrare di saperlo mettere in atto.
Il trucco, quando si mangia, è quello di assumere piccole porzioni. Il famoso “bis” viene effettuato per ben più di due volte. Tutti mangiano soddisfatti. Il pranzo è accompagnato da bevute di dimensioni ciclopiche, e contornato da discorsi di ogni tipo. Dalla politica (che però viene affrontata en passant e senza nevrosi), al mal di testa permamente della zia Rosalba, alle rispettive prese in giro delle paranoie soggettive. Purtroppo, nonostante partecipi da ormai ventiquattro anni al Giorno della Cazzöla, non posso effettuare un resoconto obiettivo e fedele del pranzo, perché dopo poco tempo la mente di tutti (compresa quella della sottoscritta) è annebbiata, confusa, e le immagini, i suoni, i volti, si mescolano in un tutto indistinto.
Quello che posso dire è che da un contesto di composta quasi-serietà  si arriva ad un baccanale forsennato, pieno di gente che parla contemporaneamente, con bottiglie (e bottiglioni) di vino che finiscono in un istante e cibo letteralmente spazzolato via dai piatti.
Ovviamente il pranzo si protrae inevitabilmente fino alle cinque del pomeriggio. Dopo sei litri di caffè a testa per tornare padroni di sé, ci si comincia ad alzare e ci si rende conto che forse è ora di terminare questa giornata annuale dedicata ai cavoli e al maiale, ma forse anche un po’ allo stare insieme e al ritrovarsi. E, soprattutto, al bere in Famiglia.

Per noi il Giorno della Cazzöla annuale è una festa come la Pasqua: non cade mai uguale, ma arriva di sicuro ogni anno.
Grazie alla Madre perché tiene le redini di tutto e di tutti.
Grazie al Padre perché rompe le balle come solo lui sa.
Un saluto tutta la Famiglia.

La teina mi mette ansia

Ebbene sì. La teina mi mette più ansia della caffeina. Il the mi fa stare peggio del caffé. Non so esattamente come mai, ma quando bevo il caffé sto sveglia e lavoro a oltranza, quando bevo il the sto sveglia, lavoro a oltranza ma con una specie di disperazione negli occhi e nelle mani. Scrivo compulsivamente, guardo ovunque smarrita. Insomma, non è proprio un bel vivere.
Sono qui, a sudare sangue sulla Tesi. Mi odio. Scrivo troppo, oppure troppo poco. Trovo (o ritrovo) il materiale utile quando ormai ho già  scritto, e allora devo riscrivere, compulsiva e paranoica. E’ massacrante. Il mio morale è ottimo, stranamente. Questa iperattività  ansiogena mi fa sorridere di isteria. Ma va bene così. Meglio delle fasi di morte cerebrale-apatia.
Solo che come si fa a condensare in poche pagine la situazione attuale dei Games Studies? Come si fa a tracciare un panorama decente della situazione italiana? Come si fa a parlare di narrazione, rimediazione, performance e a mantenere il sorriso sulle labbra?
Non ce la posso fare. Non ce la posso fare.
Così, poi, quando ce la farò, potrò dire: “Non pensavo che ce l’avrei fatta.”
Ma ce la farò?

Portami al mare, oggi.

Il pomeriggio stava per iniziare e poteva prendere due direzioni.
Un’alternativa consisteva nel restare seduti a una scrivania cercando di partorire idee e di compilare codici, facendo sforzi immani per non guardare fuori dalla finestra e per mantenere la concentrazione. Certo, le cose da fare erano ancora tante ed entrambi avevano delle scadenze pressanti. Era ragionevole che le cose andassero cosàƒ¬, se non altro perchàƒ© non c’erano mostre da vedere, non c’erano film per cui si erano “prenotati” a vicenda, non c’era niente, in quella strana sospensione autunnale. La domenica àƒ¨ un giorno pessimo, fatta di strade silenziose, gente che si accalca nei centri commerciali aperti o che fa la coda al multisala per vedere l’ultimo film horror in programmazione. No, niente da fare. Al cinema ci si va il mercoledàƒ¬, costa meno e non c’àƒ¨ nessuno. La sala tutta per sàƒ© àƒ¨ una prerogativa irrinunciabile. Peràƒ² resta comunque la domenica da affrontare, làƒ¬, fuori da quella finestra del secondo piano, e tre computer accesi su un tavolo troppo piccolo.
Lei si veste a festa, con la sua gonna nera preferita e un maglione un po’ infeltrito, ma caldo e arancione. Si mette gli stivali e si siede sul letto. Nella pausa tra una canzone e l’altra, lo guarda e gli dice:
“Portami al mare, oggi.”
Lui si gira e la guarda. Si alza e si veste.
E’ questa l’altra alternativa. Alzarsi e uscire insieme, nelle tre del pomeriggio piàƒ¹ silenziose dell’autunno, con tutta la gente chiusa in casa perchàƒ© le previsioni davano pioggia e un tiepido sole addosso.
Lei capisce che la meta saràƒ  solo una parte accessoria del viaggio. E’ sempre stato cosàƒ¬, con lui. Il tragitto da un punto all’altro non àƒ¨ mai il piàƒ¹ breve, ma il piàƒ¹ adatto. E’ confortante, tutto questo. E’ confortante stare con qualcuno che ha il potere di farti passare per i posti giusti al momento giusto, che sa farti scivolare via di dosso la malincoina, che ti fa osservare il mondo fuori anche quando non hai voglia di vedere, che ha un cd di mp3 con tutti gli album dei Depeche Mode in auto e che ti dice “La musica la scegli tu, oggi.”

La strada comincia e lei neanche se ne accorge. All’inizio sono i soliti luoghi conosciuti di passaggio. Peràƒ² si inizia giàƒ  da làƒ¬ a vedere cose diverse. Le montagne sono ancora verdi. Come se l’autunno non riuscisse a intaccarle. Il cielo àƒ¨ indeciso. Il sole di prima àƒ¨ affiancato da nubi bianche e grigie che si contorcono solleticate dal vento.
La strada àƒ¨ sgombra, ma lui va comunque lentamente, accarezzando le curve, scivolando sui rettilnei incorniciati dai pini marittimi, alti e zitti. Lei osserva con il paio di occhi che sfodera nelle occasioni in cui “cerco uno sguardo incontaminato sul mondo perchàƒ© la mia realtàƒ  mi sta stretta.”
E comincia a vedere.

Nello specchietto dentro l’aletta parasole dell’auto vede se stessa. Il sole batte sul suo maglione arancio e contamina di passato i suoi capelli, che, partendo dalle punte, trasmutano e diventano rossi come quelli del suo mai conosciuto bisnonno.
“Oggi qualcuno rivive in me”, pensa lei distratta.
Lui guida silenzioso, senza disturbarla, senza essere turbato dal suo silenzio di riflessione, senza essere seccato dal tragitto solitario, ma in due.
Lei guarda fuori dal finestrino chiuso.
Rose rosse che crescono davanti a una tomba sul ciglio della strada.
Cima di roccia illuminata dal sole, verde scuro e buio sotto.
Alberi di Acilia, in Toscana, peràƒ².
Montagne oscurate da montagne. Di nubi.
Campi di pannocchie essiccati, lunghi piàƒ¹ di quanto lei possa scrivere.

Pensa che tra lei e la realtàƒ  si frappongono sempre strani e diversi vetri opachi.

Piccoli cimiteri gialli lungo strade provinciali poco frequentate.
Giunghi che si piegano, quasi a toccarli mentre passano.
Ancora rose, stavolta che cercano di evadere dalle solite reti verdi a quadrati.
Cave di pietra abbandonate e arrugginite le ricordano gli scenari di un videogioco.
San Giuliano. Passano sopra un corso d’acqua e lei si aspetterebbe di vedere una novella Ofelia annegata. Strani pensieri per una domenica pomeriggio.
Ma in realtàƒ  àƒ¨ confortante vedere posti che non pensavi esistessero, che dimentichi un attimo dopo che ci sei passato, che scompaiono dalla tua mente ma che la hanno abitata per qualche istante almeno.
E’ tutta cosàƒ¬, pensa, la vita. Abitare la mente di qualcuno per intervalli indeterminati di tempo. Poi si muore o si scompare o si litiga e resta solo un impreciso ricordo modificato da noi.

[nel frattempo i Depeche Mode cantano Judas e lei pensa di essere stata un’ignorante superficiale ad averli ignorati per cosàƒ¬ tanti anni]

Passano sotto una casa-luogo comune: una bandiera della Pace àƒ¨ issata su un lungo bastone che spunta dall’alto di un ulivo. E’ tutta lacerata e sbiadita. Vorràƒ  dire qualcosa. Sempre la solita cosa.
Si fermano per un istante davanti a un’abitazione bianca con quegli infissi vecchi e stantii che sanno di pocoprezzo e di cattivogusto, quelli color ottone-simil oro, per le doppie finestre esterne, cosàƒ¬ entra meno freddo. Terrificanti. Ecco, in case cosàƒ¬ nascono e crescono i depressi cronici e i serial killer. In case con i lampadari arancioni in cucina e le piastrelle marroni. E quella casa àƒ¨ cosàƒ¬, anche se la vedono dall’esterno, anche se non si vedono i mobili, dentro, sanno che c’àƒ¨ un salotto comprato in qualche mercatone color legno scuro, con i pomelli in oro, un divano coi fiori gialli e beige e una camera da letto con la testata in ottone (stavolta ottone vero) tutta arzigogolata.
Per fortuna àƒ¨ solo la pausa di un semaforo, per fortuna ripartono silenziosi e si allontanano rapidamente da quella vita che non vorrebbero mai. Una vita terrificante e costante.

Lei prende un quaderno e scrive qualche parola. Per non dimenticare. Quando torneràƒ  a casa scriveràƒ  un piccolo strano racconto di questa giornata di paesaggi e le àƒ¨ appena venuto in mente l’inizio. Un inizio bellissimo, di quelli da non sprecare.
“Oggi mi ha presa e mi ha portata via.
All’inizio non voleva.
Poi, vedendomi scrivere ogni cosa che vedevo, ha pensato di regalarmi tutto un pomeriggio di paesaggi, gente, cose, luoghi.”

[mentre di Depeche ora sussurrano See you, loro passano accanto all’autostrada e lei vede una roulotte con le tendine alle finestre sotto il viadotto autostradale. Le sembra anche di vedere una luce accesa. Non puàƒ² essere. Chi vivrebbe làƒ  sotto? Com’àƒ¨ possibile, senza luce nàƒ© aria e tanto, troppo fango e insetti? Non puàƒ² viverci nessuno. Ma àƒ¨ un attimo. E passano oltre.]

Il mare non àƒ¨ il solito, àƒ¨ una sorpresa. Effettivamente àƒ¨ sorprendente arrivare a Viareggio e vedere il cielo e le strade come se fossero di un altro Paese. Paese con la P maiuscola, nel senso di Inghilterra o America. Le mancano. Le rivede in ogni scorcio di paesaggio leggermente fuori dall’ordinario. Vorrebbe tornarci, ma per ora non ha tempo e poi non da sola, assolutamente non da sola.
L’ultima cosa che vede dalla macchina àƒ¨ un padre che insegna al figlio ad andare in bicicletta. La bici àƒ¨ troppo grande per tutti e due, ma il padre regge il figlio e il figlio si fida di lui. E impara, piano, a fidarsi anche di se stesso.

Dopo pochi passi fuori dalla macchina, comincia a piovere.
Ma àƒ¨ una pioggia strana. Non àƒ¨ la solita pioggia che ti fa dire “Oh no, che pomeriggio rovinato.”
No, àƒ¨ quella pioggia che infastidisce tutti, ma non loro due. E mentre inesorabili camminano sotto le gocce sempre piàƒ¹ grosse, notano che tutti stanno scappando dalla spiaggia e dal molo. E notano che piàƒ¹ camminano piàƒ¹ sono soli, lontani da tutti. E’ il paradiso. Si addentrano nella spiaggia bagnata, ma non troppo, mentre le gocce simpaticamente si diradano. Tutto intorno c’àƒ¨ la tempesta, ma loro sanno che per un po’ di tempo làƒ¬ sopra non pioveràƒ . E infatti non piove. Infatti camminano come gli Intoccabili o come due mimi o come due folletti, e si avvicinano sempre piàƒ¹ alla riva.
I loro occhi, all’unisono, osservano intorno. Spettacolo inenarrabile, impossibile imprigionarlo nelle quattro pareti di una fotografia. Forse àƒ¨ possibile ricordarlo con le parole.

Il mare. E dietro le Apuane, nere come la roccia millenaria, stagliate contro un cielo celeste, riempito da leggere nuvole color panna. Altre montagne, d’acqua stavolta, che scendono fitte e silenziose in lontananza, confuse con le nubi. Prima uno, poi due arcobaleni interi, che partono dalla cittàƒ  e finiscono fuori, e racchiudono tutto, le persone, le case, le nuvole, la pioggia, anche il sole e le montagne. Sono cosàƒ¬ netti e definiti che sembrano delle proiezioni. Degli ologrammi. Non sembrano reali.

Lei dice ࢀœChe strano, gli arcobaleni sono come la maggior parte delle cose importanti della vita: bellissimi e inesistenti.ࢀ?
Lui ci pensa un attimo e risponde ࢀœNo, gli arcobaleni sono come la maggior parte delle cose importanti della vita: bisogna saperli vedere.ࢀ?
Lei ci pensa ancora. Eࢀ™ vero. E allora corre sulla spiaggia con la sua sciarpa di lana leggera e la fa sventolare e osserva la sua ombra danzante.

Un tronco secco e robusto àƒ¨ stato messo làƒ¬ apposta da qualcuno per loro. Si siedono e si riparano sotto il velo grigio di lei, che lascia entrare le gocce piàƒ¹ grosse ma che nasconde qualche bacio.
Tramonto su un tronco al limite della battigia.
Loro due soli su tutta la spiaggia perchàƒ© ࢀœPiove, mi cola il truccoࢀ? oppure ࢀœPiove, mi si arricciano i capelli.ࢀ?
Il mare.
Il mare.
Il mare.
Lei lo guarda mentre scrive qualche parola sul suo taccuino.
Abbassano lo sguardo e lei dice ࢀœGuarda le gocce di pioggia tonde nella sabbia compatta in riva al mare.ࢀ? Lui guarda e pensa che non le avrebbe notate senza di lei. Come tante altre cose.

Dopo un indefinibile lasso di tempo, di solitudine e di cielo apocalittico, il temporale arriva su di loro. Si bagnano. Ma almeno sono stati a guardare quello spettacolo di cielo irripetibile.

La cioccolata che lei beve quel pomeriggio le sembra speciale. Le sembra che sia la prima volta in cui si rende conto che il cioccolato àƒ¨ il cibo degli dei.

Tornano indietro. Tornano a casa. Lei adesso àƒ¨ tranquilla. Non si ricorda piàƒ¹ dei suoi pensieri. Sa solo che ci sono degli scarabocchi neri su un quadernetto rosso che la aiuteranno a ricordare.
Sa che il viaggio non àƒ¨ ancora del tutto finito, manca la parte conclusiva. Manca il racconto, senza il quale non esisterebbe niente. O meglio, qualcosa esisterebbe, ma solo nella loro mente, nel loro ancora impreciso ricordo. E allora scrive e riscrive.
E solo alla fine si sente soddisfatta.
Solo adesso, insomma.

Seconda prospettiva

A volte mi chiedo come sia possibile che qualcuno viva veramente cosàƒ¬. Eࢀ™ disumano. Non sono ancora riuscita a darmi una risposta. Ci penso, ma non riesco a farmene una ragione.

Sono a casa di questo amico di unࢀ™amica, G. Non dovrei starci, qui. Non ho proprio niente da fare in questa asettica casa da copertina di CasaModerna. Ma ci sono, non almanacchiamo oltre a riguardo. Resto nellࢀ™atrio per un quarto dࢀ™ora infinitamente noioso. Casa perfetta, giardino perfetto, prato letteralmente pettinato. Cࢀ™àƒ¨ anche un pozzo, fuori, uno di quei pozzi antichi che vengono estirpati dal loro borgo natio per abbellire ed impreziosire queste case della nuova classe dirigente del paese. Mi piacerebbe sapere, poi, un giorno, dove si e ci sta dirigendo, questa classe.

Pozzo estirpato, sarai la mia rovina!

Insomma, sono qui ad aspettare, in questo atrio tirato a lucido, a metàƒ  tra un open space e una casa di lusso. Mobili dal design ricercato, sedie di gran pregio, quadri alle paretiࢀ¦ Quello, ad esempio, mi pare un Modigliani. Ma non puàƒ² essere un originale. Non puàƒ² essere. No, no.
Mi osservo intorno, scruto tutto con aria giudicatoria, con molta arroganza e altrettanta insofferenza. Non si puàƒ² vivere cosàƒ¬. Circondati da un lusso artificiale, in questa seconda casa, utilizzata solo raramente (loro vivono in una vera villa dࢀ™epoca a meno di mezzo chilometro da qui). Invidia? Assolutamente no. Eࢀ™ un sentimento che non contemplo. Disgusto, quello sàƒ¬. Disgusto per queste prioritàƒ  di infima importanza, per questa ostentazione, per questa ricostruita e ricercata falsitàƒ . Resto quindici minuti immobile in questo ingresso, guardando di sottecchi lࢀ™ambiente. Mi sembra di essere completamente avulsa dalla realtàƒ , come proiettata in un dipinto terrificante. Vedo me stessa come se non fossi io, come se fossi dietro di me, mi vedo immobile, a disagio, inquieta e insieme atterrita.

No, questo àƒ¨ troppo. La mia amica C àƒ¨ ancora con G. Arriva la padrona di casa, la madre di G. Mi prega di seguirla in cucina. Potrei comunque dare una mano. Una mano a preparare la sangria. Pessimo indizio. Non mi dica sangria, signora. Eࢀ™ meglio per lei.
Ma questa insiste. E continua. E continua. Mi piazza in mano un coltellaccio (ovviamente un ottimo coltellaccio, un coltello di marca, Miracle Blade serie perfetta, con lama in acciaio inox e tutto il resto, impugnatura in legno di palissandro del Libano o qualche altro pregiatissimo materiale del genere), mi spinge davanti a un tagliere e con la sua insopportabile erre moscia mi incita a ࢀœtagliave tutte le avance e lࢀ™altva fvuttaࢀ?.
Questa àƒ¨ unࢀ™altra cosa che detesto. Le persone con la v, perdonate, con erre moscia tendono a dire quante piàƒ¹ parole contenenti questa consonante riescano. Non poteva dirmi ࢀœTaglia le aVance (e va bene) e le meleࢀ?? Che altva fvutta cࢀ™àƒ¨? Ci sono solo le mele, quindi dimmi ࢀœTaglia le aVance e le meleࢀ?.
Sono insofferente, ebbene sàƒ¬, sono profondamente insofferente. Questa donnina di cinquantࢀ™anni e un figlio, con sei o sette case sparse per il mondo, con una mentalitàƒ  lussuosa ed irritante, con un corpicino scolpito dalle sedute di liposuzione e da qualche farmaco strano. Questa donnina mi risulta insopportabile. E continuo ad aspettare che quei due bastardi, C e G si facciano vivi. Lui non àƒ¨ nemmeno venuto a salutarmi. Saràƒ  in piscina, con i suoi piedi nudi e il suo costume di Valentino, con il suo laptop a creare qualche squallida compilation alla moda per la festa della serata. Me lo vedo davvero. Con tutto il suo amore non corrisposto per C, con tutta questa incredulitàƒ , come àƒ¨ possibile, sono ricco e nemmeno tanto male ma lei sta con un altro. Tanto io non lo invito stasera. Non lo faccio entrare. Eࢀ™ la mia festa e lui non entreràƒ . Come si fa a vivere cosàƒ¬, me lo chiedo continuamente. I bisogni primari dellࢀ™uomo non sono quelli che questa casa e i suoi discontinui abitanti vogliono farmi credere. Non àƒ¨ questa la vita che mi aspetta o che io spero. Lo so, àƒ¨ cosàƒ¬, non àƒ¨ cosàƒ¬.
Mi rassegno e taglio le arance. Le taglio con indolenza, lentamente, annoiata, demotivata, altrove, senza entusiasmo. Io, che adoro cucinare, che considero tutto un rito, questo lo faccio per forza.
Vedo il succo rosso sul coltello. Forse àƒ¨ un rito anche questo, in fondo.
Taglio e taglio e la signora dal corpo liposunto prima tace e si affaccenda fintamente, poi si getta a capofitto in una intimistica conversazione-flusso di coscienza con me, perfetta sconosciuta e probabilmente anche di classe sociale inferiore: tanto non potràƒ² capire o riferire quello che mi diràƒ .
ࢀœLa vita non àƒ¨ proprio giusta, certe persone sono cosàƒ¬ buone e altre persone, non altrettanto buone, non le capiscono.”
Dovevo capire dall’incipit di cosa si sarebbe trattato, mollare il coltello sporco di sangue, no, cioàƒ¨, di sangria, e scappare. E invece no.
“Prendi mio figlio, ad esempio, àƒ¨ un bravo ragazzo, e non puoi certo dire che non sia carino, certo, forse àƒ¨ un poࢀ™ basso, ma alla fine gli uomini alti non sono mai piaciuti a nessuno. Ecco, lui àƒ¨ làƒ¬, sono anni che sono amici, ma lei no, fa la preziosa, e sta con quellࢀ™altro, quel comunista, dai, ma come si fa dico io! Guarda, guardati intorno! Cࢀ™àƒ¨ tutto! Ed àƒ¨ roba di gran classe! Esattamente quello che anche sua madre si aspetta per lei. Quello che tutti vorrebbero dalla vita. E invece lei no, fa la civettaࢀ¦à¢€?
Non ho piàƒ¹ espressioni per descrivere la mia incredulitàƒ . Le sue parole mi arrivano addosso e mi colpiscono come sassolini. Tuc, sassolino, tuc, sassolino, tuc, sassolino. E io zitta, làƒ¬ a tagliare le arance. No, le arance sono finite, ho meccanicamente cominciato con le mele. Un penetrante odore di frutta si àƒ¨ diffuso per tutta la cucina. Ora le mie narici cercano di distrarre le mie orecchie, annusando il piàƒ¹ possibile e concentrandosi sullࢀ™unico elemento piacevole di quella situazione, lࢀ™odore.
ࢀœOra, per esempio, dove pensi che siano? Sono di sotto, in piscina. E lei sicuramente staràƒ  facendo lࢀ™affascinante.”
Io penso solo che ne ho abbastanza. Vorrei piantare tutto làƒ¬ ed andarmene. Perchàƒ© non lo faccio? Perchàƒ© non prendo le mie gambe pigre e me ne esco da quella casa di lusso? Non lo so. Le scelte sono insondabili. E, soprattutto, non sempre il mio corpo risponde ai miei voleri. Come ora. Sono qui e affetto. Sminuzzo. Taglio a cubetti.
Da quanto dura questo supplizio? Non lo capisco. Appoggio il coltello e chiedo gentilmente dove sia il bagno. Fuori dalla cucina, in fondo, a destra. Strano, non rientra nei clichàƒ©à¢€¦

Esco e cammino nel corridoio. Il parquet di legno chiaro àƒ¨ splendente. Pulito, non cࢀ™àƒ¨ nemmeno un alone, neanche uno di quegli enormi batuffoli di polvere che ci sono sempre in qualche angolo dimenticato di casa mia. Le porte sono di acciaio e vetro temperato, quellࢀ™insieme moderno che va tanto di moda sui cataloghi. Le luci sono faretti alogeni di ultima generazione. Mi sento stringere la gola, mi sento soffocare.
Entro nel bagno, quello in fondo a destra, perchàƒ© sicuramente ce ne saranno altri sei o sette in questa reggia. Entro e mi chiudo dentro, cercando di ritagliarmi per qualche minuto uno spazio per sopravvivere. Appoggiata alla porta chiusa, tengo gli occhi altrettanto chiusi, per non vedere, per dimenticare. Quando mi decido a guardare, vedo esattamente quello che mi aspetto: un bagno completamente in linea con la casa. Alla moda, del tutto coordinato. Dagli asciugamani al colore del vaso che contiene la lavanda essiccata. Tutto perfetto. Mi avvicino trascinandomi al lavandino, per rinfrescarmi. Vedo la mia immagine nello specchio. Lࢀ™unica cosa che stona, làƒ¬ dentro, sono io. Sono io, cosàƒ¬ approssimata ed imprecisa, cosàƒ¬ raffazzonata e mal vestita. Sono io. Il contrasto mi fa male. Mi ferisce, perchàƒ© mi rendo conto che non posso cambiare quello che ho intorno, che non posso migliorarlo, liberandolo da quellࢀ™alone di perfetta organizzazione e intoccabile sterilitàƒ . Non posso modificare il mondo su di me e per me. Sono io che devo cambiare. Sono io che devo abbellirmi ed uniformarmi. Il processo appare cosàƒ¬ chiaro. Sono io che devo cedere, sono io che sbaglio, sono io che vivo nel vuoto della non moda, della non conformitàƒ .

Torno in cucina.
ࢀœCome sei pallida cara.”
Lo sarebbe anche lei se solo si rendesse conto. Se solo capisse o lontanamente intuisse. Invece non intuisce un bel cazzo. Nulla di nulla. Statica, nella sua consapevolezza, nella sua visione, tra le sue mura ben arredate, ecco tutto quello di cui avete bisogno, ora capisco. Di un posto fittizio dove rifugiarvi, di convinzioni solide inattaccabili. Di denaro. Di unࢀ™apparenza elegante per coprire il vuoto marcio che avete dentro.
Mi guarda con compassione, la liposunta, con infinita compassione. Arrivo anche a pensare che, dal suo univoco punto di vista, fa bene a considerarmi cosàƒ¬, un essere infelice senza un posto al Tennis Club. Cosa sono? Ho speso questi anni a convincermi della mia diversitàƒ , quando invece sono solo una copia mal riuscita di questa gente. Loro almeno sono andati in fondo alla loro scelta, con la loro ostentazione e la formalitàƒ  indispensabile. Io resto qui, a guardare il coltello e a pensare che starebbe meglio dentro un petto, che dentro ad unࢀ™arancia. Il legno di palissandro del Libano comincia a farsi sudaticcio, sotto la stretta della mia mano nervosa. Sarebbe spettacolare, uccidersi qui, cosàƒ¬, davanti a questa donnetta, spargendole tutto il mio sangue sulla sangria in preparazione e sul parquet prezioso, macchiandole i mobili con schizzi diseguali di sangue, sconvolgendo la sua triste monotonia e regalandole qualcosa da raccontare alle sue amiche del Circolo.
Non sono mai stata una persona generosa. Quindi niente regali alla liposunta.

C e G non si fanno vedere. Ormai saràƒ  passata unࢀ™ora buona.
Appoggio il coltello e vado a cercare C, io tra poco dovrei tornare a casa. Esco in giardino. O meglio, esco nel parco stile riserva naturale che hanno. Qui, a cinque minuti dalla cittàƒ , una perfetta oasi per rimarcare il proprio status sociale. Di solito adoro la natura. Mi restituisce equilibrio e serenitàƒ , mi fa respirare, meditare, mi rilassa. Qui àƒ¨ completamente diverso. àƒˆ tutto cosàƒ¬ incanalato ed organizzato che mi sembra di non essere nemmeno uscita di casa. Il vialetto àƒ¨ pulito e lavato, senza un granello di polvere. Il prato àƒ¨ immacolato, lࢀ™erba àƒ¨ tutta della stessa altezza e cresce tutta nella stessa direzione. Gli alberi hanno poche foglie attaccate e, inverosimilmente, sul prato non ce nࢀ™àƒ¨ neanche una. Eࢀ™ un ulteriore artificio, un costrutto, una finzione. Non àƒ¨ natura, àƒ¨ manipolazione dellࢀ™ambiente secondo un macabro gusto dellࢀ™inibizione.
Cammino sul sentiero lastricato e tirato a lucido e arrivo fino alla piscina. Niente, non cࢀ™àƒ¨ nessuno neanche làƒ¬. Eppure avrei giurato di trovare G con i suoi piedi nudi e le gambe poco pelose appollaiato su uno dei lettini, con il portatile tra le gambe, il torso nudo e C seduta accanto ad osservare con fasullo interesse le sue noiosissime operazioni.
Invece trovo solo il silenzio e lo sciabordio dࢀ™acqua che lo rompe. Si sta facendo buio, tra un poࢀ™ cominceràƒ  anche la festa. E io sono ancora qui. Immagino che anche la liposunta avràƒ  una certa fretta di mettermi alla porta, prima che i prestigiosi amici danesi e non del figlio mi vedano.
Sempre piàƒ¹ stranita e insofferente, torno sui miei passi, fino a rientrare in cucina. Lei àƒ¨ ancora làƒ¬ ad armeggiare inutilmente nellࢀ™anta di una dispensa per prendere qualcosa di ovviamente altrettanto inutile. Riprendo in mano il coltello, non si sa mai, magari cࢀ™àƒ¨ qualcosࢀ™altro da sminuzzare.
Penso, ad un certo punto, che la pulsione di ucciderla, la liposunta dico, accoltellandola ripetutamente con questo coltello delle televendite, prenderàƒ  il sopravvento. Penso che per liberarmi delle cose e delle persone e delle situazioni ࢀ“ ma in questo caso delle cose ࢀ“ che tanto odio, potrebbe davvero bastare un immotivato e incontrollato atto di violenza. Una tzunami di sangue mi travolge la vista. Sono accecata dallࢀ™impulso violento di sfogare tutta la mia rabbia e la mia frustrazione su di lei. Me la immagino giàƒ , contorta e agonizzante, nei suoi bei pantaloni color panna e sangue, mentre cerca di divincolarsi dalla mia presa. E poi ancora, me la vedo laggiàƒ¹, a strisciare come un verme da pesca in fondo al pozzo.

Pozzo estirpato, sarai la mia rovina (e due)!

Penso e immagino, ma sento che cࢀ™àƒ¨ qualcosa che mi sfugge. Penso e immagino e qualcosa sfugge.
Sono finite le mele, sono finite le arance, ma rimane il suo profumo fruttato, le sue cosce liposunte e la sua erre moscia.
Cosࢀ™àƒ¨ la mia? Mancanza di coraggio? Non credo proprio. Eࢀ™ quel qualcosa che mi sfugge che mi spinge a temporeggiare. Eࢀ™ proprio questa mancanza dellࢀ™ultimo pezzo che mi fa impugnare un coltello da cucina e non un coltello da omicidio.
Cosàƒ¬ comࢀ™era arrivata, lࢀ™ondata di sangue al mio cervello, al mio cuore e ai miei occhi se ne torna in giro normalmente per vene e arterie. Osservo la frutta tagliata. Sono compiaciuta, come alla fine di qualunque lavoro io faccia.
Guardo la liposunta. Indifferenza, ora. Quasi pena. Comprendo quello sfuggevole dettaglio che mi ha trattenuta dalla strage: la prospettiva.
Non appena usciràƒ² da questa casa, questa tempesta che mi ha investito non saràƒ  altro che un ricordo. Mi scrolleràƒ² di dosso la sensazione di mancata appartenenza che questo ambiente e questa gente mi incutono e torneràƒ² a respirare lࢀ™aria libera del mio disordine, del mio ࢀœnon importaࢀ?, dei soldi messi da parte in sei mesi per comprare un divano, ma anche dei miei amici, dei miei sogni e delle mie diversitàƒ .
Questa donna, ma anche suo figlio G e la mia/sua amica C sono degli animaletti di bellezza chiusi in una bella gabbia dࢀ™oro. Eࢀ™ bella, àƒ¨ preziosa, ma àƒ¨ comunque una gabbia. Da làƒ¬ si possono vedere ben poche cose. Non si ha ampiezza di visuale, non si ha mutevolezza di paesaggio, non si ha unࢀ™altra prospettiva del mondo che non sia quella che il luogo e le sbarre ti impongono. Io mi sto per allontanare da questo panorama che non mi piace, ma questi poveracci come potranno liberarsi da loro stessi?
Mentre la madre sistema armoniosamente le ciotole della frutta, tornano G e C. Sorrisi a profusione scambi di occhiate eloquenti ࢀ“ per loro, non certo per me ࢀ“ e poi un formale invito a partecipare alla festa serale rivolto, attenzione, a me, ࢀœvisto che hai aiutatoࢀ?. Declino altrettanto formalmente asserendo che ho giàƒ  impegni precedenti ࢀ“ non àƒ¨ vero ma fa sempre tanto effetto dirlo. Salutati padrona e padroncino di casa, mi avvio con C alla macchina.
Restiamo in silenzio per un poࢀ™. Io guido, lei guarda pensierosa fuori dal finestrino. Poi, poco prima di arrivare a casa sua, si gira verso di me con tutto il corpo (lo fa sempre quando siamo in auto e vuole fare una dichiarazione importante) e comincia a parlare.
ࢀœScusa, sai, se sono andata via cosàƒ¬, ma io e G dovevamo chiarire un poࢀ™ di cose. Certo, certo, abbiamo chiarito, àƒ¨ ovvio, quando si parla come persone matureࢀ¦ Il fatto àƒ¨ che io ero molto confusa e lui mi ha aiutato a chiarirmi le idee. Pensa, volevo anche portare stasera quel ragazzo che frequento da un poࢀ™, A, alla festa, giusto per mettere entrambi in imbarazzo. Ma poi, dopo i recenti sviluppi, come potrei? Senti, sentiࢀ¦ Le nostre famiglie si conoscono da tanto, sai facendo parte di questo paese da tante generazioniࢀ¦ Sua madre, per esempio, hai visto no, comࢀ™àƒ¨ carina e tutta elegante e ࢀ“ diciamocelo ࢀ“ che fisico per una cinquantenne! Insomma, àƒ¨ una grande amica di mia madre, vanno troppo dࢀ™accordoࢀ¦
Io e G abbiamo parlato. Lo sai, no, lui àƒ¨ innamorato di me da tanto, io peràƒ² non sapevo bene come comportarmiࢀ¦ Eࢀ™ come se ci fosse stato qualcosa che mi sfuggiva, come seࢀ¦ Peràƒ², come dice lui, non vale la pena pensarci troppo, sono tutte seghe mentali. Le nostre famiglie vanno dࢀ™accordo, io lo conosco bene e so che ci si puàƒ² fidare, oh, insomma, ci siamo rimessi insieme, non cࢀ™era nessun motivo per non farlo. A lui, a dirla tutta, non era mai passata. Io, sinceramente, posso dirmi soddisfatta delle esperienze che ho vissuto ma credo proprio che sia il momento di tornare con lui. Poi mia madre la smetteràƒ  di dirmi che non sono nemmeno in grado di trovarmi un ragazzo.
Giova mi ha detto che per festeggiare andremo una settimana ad Alassio. Sai, ha la casa, làƒ¬. Ma altro che casa, àƒ¨ una specie di reggia coi domestici, pure! Comunque, a parte tutto, mi sento bene. Perchàƒ© finalmente staràƒ² tranquilla, per certe cose, mi capisci no? Meglio cosàƒ¬ che ritrovarsi, magari, soli e per di piàƒ¹ senza un contesto. Pensa che fortuna, abbiamo gli amici in comune! Eࢀ™ troppo lࢀ™ideale. Mi sento cosàƒ¬ a posto. Cosàƒ¬ inserita. Chissàƒ  quando lo diremo agli altriࢀ¦à¢€?

Dentro la mia testa ci sono tre scimmie che si spulciano a vicenda. Eࢀ™ questa la reazione che mi suscita il monologo di C. Non riesco nemmeno piàƒ¹ a sorprendermi. Eࢀ™ cosàƒ¬ normale per loro comportarsi cosàƒ¬ che risulto sempre essere io lࢀ™alienata che non capisce. Sorrido con sorrisi circostanziali e aspetto che scenda e se ne vada.
Forse dovrei cercare di far loro capire. Forse àƒ¨ colpa mia che non mi sforzo nemmeno un poࢀ™ per loro. Ecco che ritorna il problema della prospettiva. Io le capisco le loro scelte. Non le condivido, ma le capisco. Capisco che ci sono tanti modi di vivere, e quello àƒ¨ uno. Non mi piace, ma lo contemplo. Io ho scelto e scelgo ogni giorno. Per loro invece, àƒ¨ tutto diverso. Non esistono seconde prospettive, non esistono vie di fuga, strade secondarie. Tutto àƒ¨ gabbia eterna, carcere infinito. Prigione costruita a poco a poco, ogni giorno, con una nuova regola o con un nuovo luogo comune, con l’ennesimo pregiudizio. Non si possono salvare certe persone, non si possono recuperare certe situazioni.
Silenzio. Ancora silenzio. Tiro un sospiro di sollievo. Mi guardo intorno e non vedo sbarre.
Sorrido e penso che, per ora, cambieràƒ² un poࢀ™ me stessa.
Attenuare realtàƒ  incomprensibili puàƒ² attendere.