Malinconie Urbane è on-line!

Dopo varie settimane di duro lavoro, nonostante la distanza e tutti gli altri piccoli accidenti della vita, il sito web del progetto Malinconie Urbane è finalmente on-line!
La prima storia, o meglio la prima “Malinconia” è ancora in fase di lavorazione…
Intanto potete esplorare il sito, usare il Forum, o contattarci per partecipare o aiutare!

Cercate di scoprire cosa succederà , cos’è davvero la Malinconia…
Sta a voi…
E’ solo un gioco? Non ne sono sicura…
Date un’occhiata!

Urban Melancholies is finally on-line!

After severl weeks of hard, hard work, despite the distance and all the other little matters of life, the web site of the Urban Melancholies (Malinconie Urbane) project is finally on-line!
The first story, or better, the first “Melancholy” is still in development. Meanwhile, you can explore the site, use the Forum, or contact us if you want to participate or help!

Try to understand what will be going on, try to discover what Melancholy really is…
It’s up to you…
Is it just a game? I’m not sure…
Check it out!

La creazione terapeutica

Il fatto che mi senta così bene quando lavoro alle mie (o alle nostre) creazioni e che mi sento uno schifo quando faccio altro vorrà  dire qualcosa, no?
Però non si può fare sempre quello che si vuole e bla bla bla, tutte quei noiosi discorsi sulla responsabilità .
Ad esempio, il sabato sera detesto uscire e infilarmi in locali affollati pieni di sottoprodotti umani. Preferisco starmene con il mio BlueMac a lavorare a Malinconie Urbane.
Ho finito il file .po per la traduzione in italiano. Sono bravissima. Natan sarà  fiero di me.
Tra poco arriviamo.
Ci manca veramente un soffio e siamo on-line.
E poi cominceranno i problemi veri… La prima Malinconia (Gioia Chimica) ci metterà  alla prova. Ma almeno sarà  creare, e non subire passivamente la pseudo-arte altrui.
Sono felice, quando creo. Proprio felice.

Therapeutic creation

The fact that I feel really good when I work at my (or our) creations and that I feel so bad when I do anything else must mean something, I suppose.
Yes, I know, we can’t do only what we want, and bla bla bla all those boring matters of responsibility.
For example, I hate going out on saturday night and to squeeze in those so sad discos, full of human by-products. I prefer passing some quiete hours with my BlueMac, working on Urban Melancholies, for example.
I have just ended the .po file for the Italian translation. That’s really great. Natan will be proud of me.
We are nearly there.
Just a little and we’ll be on-line.
And then the real problems will start. The first Melancholy (Chemichal Joy) will put us to the test. But it will be a creation, and not a passive undergoing of the pseudo-art of others.
I am happy, when I create. Really happy.

Bosco di Gioia – la Fine?

Il primo “racconto” di Malinconie Urbane è ambientato alla fermata della metro milanese Gioia. Ho scoperto solo dopo che Gioia era il cognome di Melchiorre Gioia, probabilmente uno dei tre Re Magi, ma non ne sono sicura.
Di gioioso Gioia non ha un bel niente. E’ una grigia strada centrale della città , piena di smog, semafori e auto. Rumori, clacson, confusione molesta, pochi negozi e squallidi, enormi cartelloni pubblicitari in stile 1984 di Orwell, messi a bella posta per inculcare nei pendolari e nei passanti inebetiti cosa è meglio e cosa comprare.
Di gioioso a Gioia non c’è niente, tranne una cosa, che fra poco non ci sarà  più, ma che ora ancora c’è, ed è stupenda: un enorme giardino pieno di alberi secolari, con un vivaio riccamente popolato da piante di ogni specie, una specie di oasi nello squallore di quel centro milanese così basso borghese e lontano dall’idea platonica della Milano da Bere che tutti hanno. Beh, sono mesi che se ne parla, sono mesi che molte persone si impegnano e cercano di far cambiare il folle piano di “recupero dell’area” ideato dalle menti malate a capo della Regione Lombardia, ne ho parlato io, ne ha parlato Beppe Grillo, ne hanno parlato i giornali, ma niente. Se hanno deciso di farci un palazzo, il palazzo ci faranno. Infatti i lavori sono cominciati, senza che nessuno abbia potuto o possa farci nulla.
Ora, non voglio scrivere l’ennesimo articolo di denuncia, ma voglio scrivere di sensazioni, di tristezza e anche di un colpo di fortuna.
Per il primo racconto di Malinconie Urbane, dicevo, avevamo bisogno di fotografie dell’interno del Bosco per ambientarci una parte della narrazione. Ci siamo purtroppo svegliati tardi, perché ad aprile, quando io e Natan abbiamo provato a entrare nel giardino (con tanto di cavalletto e macchina fotografica), ci hanno detto chiaramente che nessuno avrebbe più potuto mettere piede lì dentro fino alla fine dei lavori (leggi: fino alla totale rimozione degli alberi e alla fatidica colata di cemento).
In questi mesi abbiamo fatto altro, portando avanti altre parti del progetto. Ma in questi giorni ci stavamo chiedendo a che punto fossero i lavori. E i lavori sono iniziati, purtroppo. Lunedì ci siamo avventurati nel gioioso grigio di Gioia con l’intenzione di spiare da fuori quanto accadeva nel Bosco. Il cancello principale però era apero. E dentro, oltre a un inizio di spianata e di cemento, c’erano tre operai e, alle loro spalle, il Bosco, ritratto e timoroso, in attesa di farsi abbattere.
E’ che non ho resistito. E come se fosse un mio diritto, come se quel parco fosse davvero ancora di tutti, mi sono avvicinata e ho chiesto: “Vorrei fare quattro passi nel giardino, posso?”
Gli ometti non dovevano sapere nulla della questione dei mesi passati, perché pur vedendomi con la macchina fotografica in mano, mi hanno lasciato passare senza problemi. Anzi, ci hanno lasciato passare. E allora ci siamo buttati tra le braccia di questo piccolo gigante verde condannato a morte da gente senza lungimiranza, senza sensibilità , senza onore. Le piante secolari che loro dicono malate stanno in realtà  benissimo. Sono sane, sono vive, e stanno piangendo. Piangono perché stanno per morire e lo sanno, lo intuiscono, credo.
Insomma, ci siamo avventurati tra i “Dead Trees Standing” e abbiamo osservato gli sprazzi di verde, le lacrime di rosso, le foglie morte gialle, ancora attaccate con fierezza ai loro rami. E poi tutti quei rumori, quegli odori, le foglie sotto i piedi, la terra umida, la clorofilla ovunque, i tronchi…
E’ stata una passeggiata lunga, di quasi un’ora, piena di tristezza e di angoscia. Era come parlare un’ultima volta con un malato terminale. Sai che non ci sarà  una prossima volta, e cerchi di assaporare il più possibile di quel momento.
Ci siamo sentiti privilegiati, io e Natan, per aver potuto camminare un po’ in un Bosco condannato a morte.
Ce ne siamo andati senza essere notati, aprendo e richiudendo alle nostre spalle il pesante cancello di ferro. Se non fossimo capitati lì per caso, in quel giorno, a quell’ora della mattina, non avremmo mai visto il Bosco di Gioia con i nostri occhi. Mai, perché tra poco scomparirà .
Il pensiero che queste ultime (?) foto del Bosco di Gioia contribuiranno, insieme a quelle degli altri, a mantenerne viva la memoria non mi consola più di tanto.
Ma almeno ora so che in Gioia Chimica ci sarà  anche il Bosco di Gioia. E che sarà  un modo per non dimenticare un luogo magico vittima dell’amministrazione di un inutile Semprevergine. Se solo chi sta permettendo tutto questo capisse che c’è vita anche nell’immobilità  silente, e non solo nella forsennata frenesia tipicamente milanese, forse le cose cambierebbero. Ma la classe dirigente deve essere ottusa per contratto.
Ecco le (forse) ultime foto che ritraggono il giardino… Non ci resta che rifugiarci nel sogno.

MU – L'unico appiglio

E’ sempre stato un progetto importante, per me.
Da quando mi è nato in testa, così come un lampo, come un racconto, ho sperato di portarlo a termine. Anzi, no, di portarlo a inizio. Perché è un progetto lungo, modulare, complesso e articolato, su cui sarà  necessario lavorare per anni prima di raggiungere la forma del sogno.
Questo non mi spaventa. Lavorare per anni, intendo, assolutamente. Ne ho voglia, anzi, ne ho bisogno.
Temo spesso di sprofondare in angoli grigi di me stessa, dove non vedo più nulla se non il microcosmo contingente che mi circonda. E invece voglio ricordarmi sempre che c’è dell’altro, che c’è questo sogno, che c’è il sogno, da qualche parte, che il bianco e il nero sono solo un punto di partenza, da cui fuggire, da cui andarsene.
E me ne andrò, dal grigiore del mio non scrivere, me ne andrò dal bianco abbacinante della pagina vuota. Me ne sto già  andando. A dire il vero, ce ne stiamo andando.
Non posso lasciar morire MU, non un’altra volta. Quando il continente del sogno si è inabissato qualcosa è finito, e ora, con Malinconie Urbane, voglio riportarlo alla luce.
Ecco cos’è, la mia Atlantide, un luogo immaginifico di bellezza e magia.
Poco importa che sia una città . E ancor meno che sia grigia e squallida e crudele e disumana.
Il fatto è che, per una volta, non me ne starò a guardare. Non starò ferma immobile a subire.
Sarò io a creare qualcosa, da qualche parte. Visto che nella mia vita non ci riesco, ci proverò almeno nella mia arte.

(e se tutto naufragasse, naufragherei anche io, in un mare rosso sangue. Il dolore mi affogherebbe. Anzi, no. La mia stessa vita mi affogherebbe, e nel mio corpo non scorrerebbe più il variopinto fluido arcobaleno dell’immaginazione e della creatività , ma solo un dozzinale e comune sangue rossastro, come quello di tutti gli altri, come quello di tutti gli altri)

Immagine della malinconia

Dialogo surreale

“Beh, dimmi, ad esempio, che forma ha per te la malinconia?”
“Una persona seduta di spalle con le gambe a penzoloni nel vuoto, che guarda l’orizzonte”.

The Image of Melancholy

Surreal dialogue

“Well, for example, what do you think the form of Melancholy is?”
“It is a lonely person, seen from her back, sitting with her legs towards an obscure nothing, looking a far horizon”.

MU – Segretezza della malinconia

E’ ancora acerbo.
E’ ancora, veramente, “in progress”.
Ma questa volta questo ennesimo progetto ipermediale si sta conquistando una forma. Sta prendendo corpo, nelle nostre menti, e tra poco anche nell’etere.

E’ difficile parlare di anti-psichiatria senza nominare il termine.
E’ difficile prendere spunto da quello che ci succede, da quello che ci è successo, senza lasciare che prenda il sopravvento.

Non vogliamo scrivere un’autobiografia stentorea e scontata.
Non vogliamo fare i soliti detrattori del sistema.
Vogliamo – vorremmo – mostrare come la gioia chimica sia solo un’illusione e come, invece, l’equilibrio non sia nella stasi dell’anima, ma nel movimento della nostra tempesta interiore e nell’accettazione di questo movimento, di questa costante e imperitura instabilità .

Quale cornice migliore per mostrare questo scempio se non una città , anzi, La Città , quella che sembra catalizzare e risucchiare tutte le energie dei milioni di persone che ci vivono (anche senza abitarci, a volte) e che annega sotto uno strato di smog soffocante le speranze e il desiderio di vivere una vita piena di sentire.
Ecco di cosa vogliamo parlare.
Di un’anestesia generale di cui non ci accorgiamo più.
Della morte emotiva e dell’impianto di un “microchip emozionale” che dovrebbe sopperire a tutti i nostri bisogni di sensazione.
Ma non è così.
E allora urliamo immagini e testi innocui per dire che può essere diversamente. Che può andare diversamente. Che a volte no, ma a volte sì.
A volte sì.

E forse anche noi, con quest’opera in travaglio, stiamo cercando di ricordarci quanto sia bello sentire tutto, sentire il bene e il male, la leggerezza e lo spleen. Di quanto siano incantevoli le malinconie.
Le nostre Malinconie Urbane.