Lou Reed alla Milanesiana

Me ne sono andata per un po’ per evitare di parlare di argomenti banali come il caldo, il nostro primo ministro latin lover, il caldo, le partenze intelligenti, gli italiani e la ricchezza (che non ci riguarda), il problema siccità , il Live 8, quella merda della Milanesiana di Milano.

Voglio dire.
Inviti Lou Reed e sua moglier Laurie Anderson. Hai l’ottantacinquenne Fernanda Pivano che, con la sua solita classe, sensibilità  e con tutto il peso dei suoi anni viene nel tuo “salotto bene” per parlare di beat generation, arte, artisti, creazione, esperienze. Insomma, potenzialmente una serata impagabile.
Ingresso libero, altra nota positiva. La cultura non ha prezzo e tutti devono e possono accedere. Ovviamente c’è ressa, davanti al Teatro dal Verme. Il fatto che piova a dirotto e che fino alle 20.30 non aprano le porte (non si capisce per quale arcano motivo), è trascurabile. Alla fine stiamo parlando di Lou Reed, Laurie Anderson e Fernanda.

Entriamo, e quasi una signora della Milano bene mi stacca la testa a morsi, lei, col suo vestito rosso sgargiante di raso giapponese, i polpacci ben nutriti e i capelli neri tinti, i cinquantasei anni peggio portati che abbia mai visto, mi apostrofa (me e la mia amica simil-punkabbestia, per i suoi gusti, le sfighelle Valentina&Daniela), dicevo, mi apostrofa dicendo che “Non si può fare così [tenevo occupato UN posto per il ragazzo di Daniela], che non c’è prenotazione e allora io mi siedo [Sbram, sessanta chili di culo sulla borsa della Dani], che non esiste, che certe cose non si possono vedere…”.
Signora della Milano bene, tu e la tua sotto-cultura dell’alta-borghesia potete andare affanculo direttamente con il mio beneplacito e benemerito, brutta schifosa maledetta, senza sensibilità , viziata bastarda, abituata a comprare tutto con i tuoi soldi che puzzano di marcio e inadeguata alla competizione diretta con la gente normale, al contatto fisico con quella che tu chiami “feccia”, con la gentaglia che popola il mondo e che è tanto diverse – e inferiore – da te e da quella Barbie stronza di tua figlia.
Signora della Milano bene, son sicura che a te la serata è piaciuta e che non hai capito perché quel “pubblico ignorante” ha reclamato e protestato e si è indignato quando l’intellettuale Antonio Gnoli ha chiesto a una Laurie e un Lou in completa a-sintonia con l’ambiente: “Ma ditemi, come avete vissuto voi l’11 settembre?”
Basta con i facili sensazionalismi. Il fatto è che avevamo a disposizione tre persone che, probabilmente, insieme non rivedremo più, almeno non in questa vita. E il coordinatore, il nostro “rappresentante intellettuale”, non è riuscito a fare altro che domande scontate, sentite e risentite, banali e insignificanti.

Ricostruzione libera (mia) del “salotto letterario” successivo alle letture di Laurie Anderson e Lou Reed:

1
D: Laurie, so che voi abitate a New York. Com’è la città  dopo l’11 settembre? Come vanno le cose?
[Lou mugugna, mi pare, una specie di “No way, no way”, che liberamente traduco “Due coglioni, ancora ‘sta storia?”, mentre il pubblico, letteralmente, urla “Noooooo, basta, non è possibile, un’altra domandaaaa!”]
R: [Laurie, signora di classe indicibile e aplomb invidiabile, sorride e risponde] “Guardi, mi rincresce dirle che da più di un anno, per lavoro, sono poco a NY, ma comunque è una bella città , ricostruiscono molto, ci sono parchi, attività … Insomma, un bel posto. Sì sì.”
Fine.
Applauso di gratitudine.
2
D: Lou, lei era amico di Andy Warhol, ci parli un po’ del periodo della trasgressione dei vostri anni. Insomma, la vostra arte, la vostra trasgressione, il trasgredire, la trasgressive art [questa domanda effettivamente me la sto un po’ reinventando, ma è per far capire come puntasse tutto sulla trasgressione, ecco].
R: Lou risponde raccontando una storia. Dice proprio così, “Vi racconto una storia”. E parla di Andy, del lavoro, dei Velvet Underground, dei film di Andy che nessuno voleva vedere. Del fatto che era sempre il primo ad arrivare sul posto di lavoro e l’ultimo ad andare via, che si incazzava se qualcuno dotato, come Lou appunto, era troppo pigro.
“Quante canzoni hai scritto oggi?”
“Cinque.”
“Come cinque? Solo cinque? Perché non ne hai scritte dieci? Perché non stai scrivendo, in questo momento?”
Fine.

[Da qui in avanti sono pensieri miei, eh]
Eccola qui la trasgressione. Gente che si faceva un mazzo così per esprimersi. Ti può piacere o no la pop-art, ma intanto questa gente, questi Artisti, non passavano solo le loro giornate a farsi di eroina, a dedicarsi all’amore omoerotico e ad andare in giro nudi. Era gente che creava. E se per te il processo creativo è trasgressione, vuol dire che sei solo un bieco burocrate dell’arte, che considera ogni sortita fuori dagli schemi come “trasgressione”, senza capire che il bello della vita è sorprendersi e non seguire una cazzo di linea retta pre-ordinata, stile massaia di Voghera, precisa e inutile.
Oh.

Ci sono un altro paio di domande.
Del tipo
D: “Come mai tu e tua moglie avete scelto Melville e Poe come autori da rivisitare, Lou, trovami, indicami qualche analogia tra loro due, quali sono i loro punti in comune”…
[Laurie ha recuperato degli scritti di Melville per farne uno spettacolo e Lou ha riadattato-reinterpretato Poe in alcuni suoi scritti-poesie]
Silenzio.
Silenzio.
R: Lou alza lo sguardo, come a dire “Ci sono”.
“Ecco, dunque, sono entrambi due scrittori americani morti.”
Risate dal pubblico.
E’ che non c’erano motivi particolari. Ma, si sa, gli intellettuali devono sempre trovare un perché ontologico dietro le cose. Se no “non valgono, se no valgono di meno”, ecco. Non si può fare una cosa “Perché ti piace, perché te lo senti, perché ti sei svegliato un giorno così, perché ti è tornato in mente da quando l’hai studiato a scuola, l’hai ripreso, ti è piaciuto e lo hai riscritto”. No.
Ultima domanda, a Fernanda Pivano.
Cosa ci si aspetta? Parla della Beat, parla di Andy, Ferlinghetti, Corso, Keruac, Hemingway, non so. No.
D: “Fernanda, tu hai scritto, a DICIOTTO ANNI, una tesi su Melville. Ci parli di Melville, cosa ci può dire di lui.
R: La Pivano, mitica ottantenne dei miei sogni, lo guarda basita e ripete “Scusa, vuoi che ti parli di Melville? Ho capito bene, di MELVILLE?”.
E alla risposta affermativa, parte con un breve e interessante resoconto dell’autore. Ma anche lei sembrava sentirsi un po’ “sprecata”.
Voglio dire. Lei ha visto questa gente al lavoro. Li ha conosciuti. Li ha frequentati. E ha dovuto parlare di uno scrittore dell’ottocento morto, che, per quanto sia vecchia, nemmeno lei ha potuto mai incontrare.

Fine della serata alla Milanesiana. Qualcosa mi dice che è stata la mia prima e ultima volta. Potranno portare anche Paul Auster, in futuro, ma non c’andrò. Perché è ridicolo. Qui non si tratta di arte, ma di cultura per i milanesi che devono sentirsi colti e inseriti nel jet set degli alti livelli culturali del mondo.

Complimenti per l’impegno, agli organizzatori, e continuate così. Alla fine, il vostro lo fate bene: attirate tutti questi medio-alto borghesuncoli che si devono sentire in pace con se stessi affrontando qualche attività  colta tra uno shopping e una cena al Rotary.
Amen.

Tri Muzike al Melo

Mentre nella piazza principale della ridente cittadina merdona e retrograda di Gallarate si svolgeva il Primo Gran Galà  della Musica Italiana, una delle manifestazioni più squallide, basso-popolari e pseudo-trash del mondo, al Melo, centro poli-valente e poli-funzionale per giovani e vecchi, nonché amabile ripiego quando il Comune ti revoca due giorni prima il permesso che ti aveva concesso da settimane per fare il tuo sano concertino, al Melo, dicevo, si è tenuto un mereaviglioso e coinvolgente aperitivo musicale, con ottimo cibo e vino e decisamente ottima musica.
I Tri Muzike (voci di corridoio mi dicono che abbiano composto e musicato la colonna sonora di Tren de Vie) hanno suonato, intrattenendo gli sparuti ma calorosi spettatori e hanno dato un bellissimo colore “mediterraneo” a una tiepida serata di giugno.
E mentre in piazza Garibaldi dei cantanti da quattro denari “dis-animavano” (cito Lorenzo) la folla, noi ci scolavamo vino rosso e ascoltavamo un po’ di sana melodia, al di là  delle rime banali sole-cuore-amore a cui tutti facevano “Ohhhh” solo qualche centinaio di metri più in là .

E’ spesso triste constatare la massificazione della gente. Popolo bue che non siete altro.
Però è confortante vedere che, nonostante tutto, nonostante sia difficile, c’è gente che continua a far sentire un po’ di suono dell’animo, senza scadere in deprimenti rime commerciali e demagogia artistica da due soldi.

A quando il prossimo concerto dalle nostre parti? Non fatevi scoraggiare dalla plebaglia che c’è in giro, va bene?

Non ho voglia di vacanze

So che mi pentirò di averlo scritto, ma quest’anno non ho voglia di vacanze.
O meglio.
Non ho voglia delle classiche vacanze da italiota, mare-sole-amore.
Ho voglia di fine settimana casuali in posti sempre diversi. Stare fuori una sera o due, senza l’estenuante obiettivo dell’abbronzatura e del divertimento. Non so perché. Forse perché abbronzarmi non mi piace per niente?
Insomma, penso che opterò per qualche fine settimana in città  che non conosco. O in campeggi sperduti in loci sconosciuti e solitari.
Mi piacerebbe andarci con qualcuno. Ma in questo periodo non sono molto “aggregante” (leggi: non mi caga nessuno). O mi attacco a mo’ di cozza all’Ali, oppure non è che giri molto.
Vedremo.
Intanto ci sono due mostre “in locale” che posso vedere tranquillamente:
1- Il Periplo Immaginario di Hugo Pratt, uno dei viaggi che mi va di fare, tra gli acquarelli del personaggio più figo dentro della storia dei fumetti
2- La Mostra su Star Wars (ebbene sì, non ho ancora visto il film, ma voglio vederlo con Natan e ci rivediamo solo giovedì prossimo). Ma ce l’abbiamo *la dipendenza*?

Ecco, mi va di viaggiare con la mente. Non ho voglia di nudisti muscoluti unti d’olio e di bambini pestiferi che mi saltano sulla pancia distratti.

Urlo

Sono andata a vedere Urlo, della compagnia di Pippo Delbono per tanti motivi, tutti poco validi. Prima di tutto perché Natan conosceva il gruppo teatrale e ne parlava in maniera entusiastica. Poi perché era tanto che non andavo a teatro. Infine (ma oserei dire “soprattutto”) perché avevo letto in giro che è una compagnia “strana”, con uno che è stato in manicomio che recita come attore, con tante persone sui generis, un po’ matti, un po’ emarginati.
Sì, lo confesso: sono andata con uno quel tipico senso di voyeurismo molto macabro che mi suscita sempre la diversità .
Sono andata perché pensavo di vedere fenomeni da baraccone. Gente che faceva “il pazzo”.
E l’ho pagata cara. Sì, perché questo spirito di divertimento scanzonato, di curiosità  semi-intellettuale, semi-popolare mi ha, letteralmente, fregato.
Quando Urlo è cominciato me ne volevo andare. E non perché gli attori non fossero bravi, perché la compagnia non fosse professionale, perché non vedessi bene dal mio posto. No, me ne volevo andare per evitare di essere così coinvolta come poi sarei stata. Per il primo quarto d’ora mi sono sentita male. Una sensazione di disagio profondo, di malessere, il tipico “pugno nello stomaco” di cui si parla sempre. Vedevo queste persone sul palco scenico, i loro corpi, le loro forme. Ascoltavo queste urla sgraziate e disperate, pianti isterici e risa di follia, parole di Ginsberg, di Wilde, di Shakespeare, recitate dall’unico personaggio “normale”. Normale? L’eco di questa parola mi ha martellato nel cervello per tutta l’ora e tre quarti di spettacolo. A cosa stavo assistendo? A una fiera di fenomeni da baraccone “felliniani e bunuelliani”, come sono stati definiti? No, non ne sono convinta. Stavo assistendo a sensibilità , a prospettive, a immaginazioni, a delirii, a colpi di genio. Era l’anima di un’umanità  molto più che normale, quella vomitata fuori dalle casette della scenografia. Erano corpi e carne e allegria ed estrema sofferenza, erano esseri umani. Non esseri umani “di seconda scelta”. Questa è l’umanità  che mi piace. Probabilmente – lo spero – questa è l’umanità  di cui faccio parte. Non quella dei borghesi bendati seduti al tavolo delle leccornie. Non quella dei Papi altolocati e potenti, non quella di una politica abietta e senza significato.
Preferisco la nenia popolare di una voce di donna che viene da lontano. Preferisco Bobò, che pensavo solo fosse “uno strano ometto basso”, all’inizio, per poi capire, invece, che era lui quello estirpato a forza da Delbono da quarantacinque anni di ospedale psichiatrico. Preferisco donne androgine alte e con le gambe muscolose o ragazzotte basse e in carne. Preferisco questo sottomondo di artisti e geni compresi, perché mi hanno fatto scoprire il teatro e il suo potere, dopo anni che pensavo di conoscerlo.
Nel buio della sala gremita ho pianto. Ho pianto tanto. Prima con vergogna. Sono grande, non si deve piangere a teatro. Poi con soddisfazione, perché era l’emozione più bella e dolorosa che potessero farmi provare.
Il dannato disagio iniziale era dovuto al crollo totale delle mie barriere, al fatto che degli esseri umani fossero riusciti a mettermi davanti a una realtà  che ben conosco ma che non avevo mai davvero capito.
Normalità .
Pazzia.
Se già  questi deprimenti termini non avevano senso prima, per me, ora ne hanno ancora meno.

“I saw the best minds of my generation destroyed by
madness, starving hysterical naked,
dragging themselves through the negro streets at dawn
looking for an angry fix,
angelheaded hipsters burning for the ancient heavenly
connection to the starry dynamo in the machin-
ery of night…”

Dali' – Venezia, dicembre 2004

dali_biglietto
Una mattina alle cinque ho preso un treno con mia sorella e sono andata a Venezia per vedere la mostra di Dalí. Questa è un’altra storia, ma la mostra merita sicuramente qualche parola.

Anche solo arrivare alla sede della mostra, Palazzo Grassi, è suggestivo: si deve attraversare Venezia di dicembre, piena di mercatini natalizi, di negozi addobbati a festa, di strade silenziose e labirintiche.
Io e Giulia ci prepariamo mentalmente già  durante il percorso, per farci travolgere dalla fantasia immaginifica dello spagnolo coi baffi all’insù.

La mostra era organizzata in modo coerente, divisa per periodi, dalle prime opere e le prime ispirazioni fino alle sperimentazioni e gli studi più recenti.
Un Paranoico Critico, ecco cos’era Dalí. E non sono io a dirlo, ma egli stesso si definiva in questo modo. Era grazie alla sua Paranoia Critica che riusciva a guardare il mondo diversamente, a scomporlo secondo le nuove teorie della relatività  appena scoperte e diffuse da un altro genio. Era grazie alla sua pazzia accettata come tale, inesorabilmente, e, anzi, sfruttata, accresciuta, stimolata, che è riuscito a produrre opere così visionarie e poliedriche.
Insieme alla costante disgregazione della materia, sono sempre presenti inquietanti ambiguità  nelle proporzioni. Osserva tutto con occhi nuovi, riconfigura gli oggetti e le loro funzioni. In un periodo, prende addirittura il corpo come metafora dell’archiettura, e costruisce schiene e dorsi di amanti sulla base armonica ed equilibrata di cupole di cattedrali. Passa a fasi più grottesche, in cui il corpo mutilato viene esposto in un equilibrio precario. La fisicità  viene scomposta e sezionata, ma non solo attraverso una geometria scientifica: Dalí lascia emergere anche le proprie viscere, sulla tela, fa sì che il sangue, il fango, la mente, l’immaginazione assoluta contaminino l’arte.
Interessante è l’accanimento critico nei confronti di Piet Mondrian. Dalí vuole inserire sangue ed elementi morbidi nella rigidezza pittorica di una certa corrente artistica, che egli non apprezza e in cui non si riconosce. Professa il caos come base assoluta della creazione (sia reale che artistica).
La sua Concretezza Irrazionale si sostituisce allo sterile perfezionismo che egli tanto disapprova. Il fatto che alla base dei suoi dipinti, in fondo, quasi inconsciamente, stiano la teoria atomica e la psicanalisi, novelle scoperte del 1900, è fortemente indicativo: Dalì cerca l’anima dell’uomo nella scomposizione fisica, ma non solo. Indaga irrazionalmente, seguendo un percorso in cui la guida è la sua fantasia sfrenata.
Certo, bisogna ricordare che alle spalle del genio c’era un artista che si è dedicato unicamente e per tutta la sua vita all’arte. Era un personaggio in grado affascinare il pubblico, accattivante, istrionico, che sapeva trasformare l’occhio di una statua neoclassica su una rivista patinata nella sua bocca baffuta e ghignante.
Mi sono resa conto di quanto sia faticoso seguire una mostra dei suoi dipinti. Non per altro, è che ognuno avrebbe bisogno di ore di contemplazione, un esempio su tutti, l’Enigma senza fine. All’interno di questo dipinto ci sono svariate figure (un levriero, un saggio che legge con la testa piegata, una donna di spalle, e altre) ed è alquanto complicato individuarle tutte.
Questi giochi ottici sono un tema ricorrente, i quadri nascondono più di quello che l’occhio può percepire ad una prima occhiata, hanno bisogno di un’analisi dettagliata, che però va oltre alla razionalità  dell’analisi formale e stilistica, prevede anche una sorta di immedesimazione fluente, di abbandono estatico e di coinvolgimento fisico.
L’opera che personalmente preferisco è La tentazione di Sant’Antonio dali_tentazione_santantonio_small: la trovo potente, incombente, mi ha trasmesso un vivo senso di fatica e di oppressione dell’uomo da potenze e tentazioni, appunto, più grandi di quanto si possa tollerare. Questo quadro mi causa una sensazione di smarrimento, in una parola è sublime. Sublime nel senso classico del termine, ossia affascinante, da cui è impossibile distogliere lo sguardo, che quasi ipnotizza e cattura, ma che insieme spaventa, destabilizza, fa quasi tremare. La leggiadria e la pesantezza si alternano incomprensibilmente, lasciando l’osservatore (o meglio, lasciando me) aggrappato con gli occhi e con la mente a un’enormità  deforme e confusionaria.
Sarebbe bello essere proiettati nei dipinti di Dalí. All’interno, proprio.
Sarebbe bello esplorare tridimensionalmente quegli spazi onirici.
Con molta concentrazione e lasciandosi andare ad una salutare sindrome di Stendhal, forse è possibile farsi risucchiare e immegersi in una sana contemplazione estatica.

Natura domestica

Non ho trovato tempo per raccontarlo prima, ma domenica mi sono infilata in giardino e mi sono immersa negli alberi, a raccogliere frutti di stagione. Non posso raccontare a parole, sarebbe riduttivo.
Posso solo mostrare questa “Natura domestica” come si è mostrata a me.
Limpida, nitida e fresca, inaspettatamente mattutina.

glicine_small cachi_small kiwi_small uva_small