bianco_elettrico

Ci vuole del tempo, a volte, ma poi le cose arrivano.
Sono passati 4 anni e tanta acqua sotto i ponti (di Pisa e di altre città  più lontane) ma è piacevole rivedere, dopo tanto tempo, qualcosa che si era quasi dimenticato.

Un esperimento, un parlare al mondo a modo loro (o nostro?)…

bianco_elettrico

Scuola – Lavoro – Matrimonio – Collasso nervoso – Operazione – Insegnamento – E imparare a essere pazzo…

Post it

Udine
Vorrei avere post-it come questo di questo posto per tutta la vita.
In giro.
A caso.
Vero-falso.
Luce-buio.

Cinema.

Il Far East merita.

E anche il Friuli non è niente male!

Anzi, come dice Giacomo…

FRIULIIIIIII (con aria di rispetto imperituro)!

Riprese – Raduno Philanthropy

Era una mattinata fredda e nebbiosa, con il cielo bianco tipico dei pomeriggi senza fine trascorsi sul divano a nullafacere d’inverno. Di certo, però, quella giornata non era sarebbe stata devoluta al dio Ozio, come qualche altra indifferente domenica. Era giorno di riprese alla ormai famigerata Acciaieria. Che poi è un’Alluminieria, ma nessuno ha il coraggio di dirlo. Che poi, in buona sostanza, è un cumulo di macerie.
I nostri baldi giovini si ritrovano tutti con macchine cariche, armamentari vari, costumi, armi finte, trucchi e, da non dimenticare, videocamere professionali e macchine fotografiche DiUnCertoLivello davanti al solito buco nella rete. Le 7 macchine dei presenti restano fuori alla polvere a all’inquinamento di Marghera, mentre i nostri impavidi si avventurano tra finto vetro-resina e vero amianto alla ricerca del setting giusto.
Soldati di softair, che saranno a breve comparse, compaiono insonnoliti con Gabro e Ilaria, accompagnata a sua volta dalla febbre e da un sacchetto di cracker e biscotti che costituirà  il pranzo di 12 persone. Qualcuno prepara le riprese, la luce, le videocamere, qualcun altro vaga alla ricerca di cose interessanti da fotografare.
Il materiale di scena, dal nuovo arrivato, un generatore Honda verde pisello fosforecente al cavalletto da mille euro (ma buono solo per le videocamere e non per la fotografia) è sempre e inevitabilmente pesante e va ripetutamente trasportato a destra e a sinistra del set di fortuna da braccia volenterose.
Le riprese procedono bene, con soldati che fingono di cadere, Snake che si apposta dietro le colonne e fa il figo, omini buffi che si aggirano per il set e capre che lasciano palline di merda ovunque, sì, anche sul tetto.

FINE DELLA PARTE IMPERSONALE

Ho scattato fotografie per tutto il giorno, recuperando il piacere della pellicola che scorre nella macchina fotografica, del click elettrico e meccanico dello scatto della foto, della messa a fuoco, degli obiettivi con cui giocare, della sensazione di avere una sola opportunità  per scattare la fotografia bene, o giusta o sbagliata, o bene o male, senza vie di mezzo, senza possibilità  di rifare, di riscrivere. La macchina e la borsa con gli obiettivi erano pesanti e nonostante questo me li sono trascinati volentieri dietro per tutto il giorno, con affetto, come si fa con un bambino a cui si vogliono mostrare tante cose e che si tiene continuamente per mano, con entusiasmo.
Le riprese sono andate bene, ma la parte più emozionante, come sempre, è mettersi in “controluce” e guardare le persone, guardare come partecipano, come si rendono utili, come sono disponibili. Si è riso tanto, anche se come sempre c’è l’assillo del tempo e anche se la stanchezza, presto, arriva a farsi sentire.
Ho passeggiato per un un po’ da sola tra gli edifici svuotati di metallo e ruggine, ascoltando gli scricchiolii e le strane voci che provengono dalle cose quasi morte. Enormi stomaci ormai vuoti che sembrano chiamare cibo, che sembrano supplicare di essere riempiti, di vivere ancora per un po’. E invece niente, ci sono rottami, detriti, tetano a perdita d’occhio, piccole capre che brucano erba probabilmente arricchita con il cromo e l’amianto e un silenzio più inquietante dei rumori.

FINE DEI CAZZI MIEI

Non sono mai stata una persona diplomatica, ma a quanto pare sono “abbastanza” da convincere la gente che sono una brava persona, perché altrimenti non si spiega come due poliziotti decidano di lasciarci finire le riprese su una proprietà  privata (ma decisamente abbandonata) senza, nell’ordine, denunciarci, arrestarci, tenerci una notte al fresco, sequestrarci tutto, darci delle saponette da far cadere al momento opportuno nella doccia.
Con lo sguardo contrito ammettiamo il nostro errore (di cui eravamo comunque ben consapevoli, tutta quella menata socratica che se conosci il bene, fai il bene e non il male è una cagata, abbiamo il libero arbitrio e per qualche strana coincidenza le cose illegali sono come i dolci: ci attirano di più ma ovviamente fanno male), insomma, ammettiamo l’errore e finiamo le poche inquadrature che ci mancano prima di tornare a casa, dicendo addio per sempre all’Alluminieria, che non ci vedrà  mai più. Torniamo a casa, ma non a casa nostra. Andiamo in massa, con cacche sotto le scarpe, amianto nei polmoni e polvere tra i capelli, a casa di Patrizia, che ci accoglie con diverse bottiglie di vino con il chiaro obiettivo di ubriacarci, visto che per pranzo avevamo mangiato due Rigoli Galbusera e un cracker ai più fortunati. In effetti il suo tentativo riesce bene, e ci ritroviamo alle sette di sera alticci che ci dirigiamo verso la pizzeria, saltellanti e affamati come lupi.

FINE DELLA PARTE OGGETTIVA DELLA SERATA

La cena è piacevole, così come la chiacchierata di aperitivo da Patrizia. Parliamo, in ordine sparso, di cose come la Chiesa, l’entità  vetusta e demodè della Chiesa, l’intransigenza della Chiesa e l’ipotesi di curare le persone oggi con il Codice Hammurabi. Parliamo anche di come Hive conquisterà  il mondo, del fatto che forniamo un servizio socialmente utile, che i telegiornali dicono sempre che la società  non crea luoghi e occasioni che permettano ai giovani di esprimersi e invece noi facciamo esattamente questo, ossia creiamo un’illusione per tutti, ma in cui tutti credono, quindi funziona.
La pizza è buona, ma dopo mezza birra non riesco più a capire cosa sto mangiando. Patrizia nota con stupore l’ossessione ano-genitale di Giacomo, tutti ridiamo ma non otteniamo spiegazioni.
La serata si conclude con le seguenti ipotesi:
1- conquistare il mondo
2- prenderci tutti 4 mesi di tempo, ritrovarci a vivere insieme in un’enorme casa e finire le riprese di Philanthropy in 4 mesi e non in 4 anni
3- un montaggio grezzo del filmato del giorno da parte di Giacomo ENTRO SERA

Ci salutiamo e andiamo tutti via, tranne Rob che resta incastrato col filo dello yo yo nella porta d’ingresso di Patrizia e tutti pensiamo con malizia a chissà , perché in fondo siamo delle comari di paese. Dopo Philanthropy, Beautiful!

A casa ci facciamo una doccia per scacciare via il nero del diavolo del demonio che ci si è incollato addosso e poi io mi metto a letto a fare l’imitazione di un tronchetto della felicità , con spalle, braccia e schiena bloccate in una morsa di dolore, mentre Giacomo, non so con quali forze, monta (porcoh) le scene del giorno. Mi addormento e nel dormiveglia ricordo solo un bacio all’arancia. Poi è mattina.

Ciak, si gira

A minuti cominciano le riprese.
E’ tutto pronto? Credo di sì.
La Wara prepara la Ultimate Bandana.
Ale viene sconfitto da Nicola a PES.
Anna sistema i capelli e la barba a Giacomo.
Gatsu è scettico come sempre.
Ecaterina è tornata dalla Colombia giustappunto per evitare che la fotografia del film sembri quella dell’Ispettore Derrik o di un deprimente film tedesco.
Io e Paolo abbiamo finito la scena da tradurre, l’abbiamo postata, e ora c’è tutto il resto da fare.
Nikita ha recuperato un capannone ideale per evitare che i partecipanti alla prima di Philanthropy muoiano schiacciati dai calcinacci.
Insomma.
E’ tutto pronto.
E io sono qui a guardare un cielo sereno e a immaginare.
Immaginare come, tra cinque minuti, si manifesterà  la fatica di tante persone dell’ultimo anno e mezzo.
Immaginare com’è strano sentirsi sempre a un passo dall’emozione e riuscire sempre a evitarla così prontamente.
Sapere, conoscere, come si sta, quando si è così divisi, così lontani, così spettatori della vita da protagonisti di qualcun altro.

Poi però penso che ci sarò anche io, qualche volta. E che mi godrò il momento perché l’avrò aspettato com il Natale quando sei piccolo.
Come ho sempre fatto nella mia vita, ricostruirò le emozioni dalle parole, dalle fotografie, dalle immagini che si muovono su uno schermo, e riuscirò, forse, a godere del momento ancor più che se fossi stata presente.
Perché è così, per me. L’attesa, l’assenza, la potenzialità , la mancanza, tutto questo è il sostrato su cui si costruiscono i miei sentimenti, il mio sentire, il mio non dormire o dormire troppo per cercare di sognare, invano, quello che vorrei.
E’ stupido da pensare, forse, ancora più stupido da dire, ma c’è una tacca, nelle vite di tante persone, stasera, e non tutti ne sono consapevoli.
C’è una tacca indelebile che scandisce uno di quei momenti della vita che, se diventi famoso o se muori dopo aver compiuto una strage, verranno ricordati nella tua biografia come: “Dopo quella sera niente sarebbe più stato lo stesso”.

E io sono qui davanti al mio monitor e alla mia tastiera a scrivere parole, e non in carne e ossa nel luogo di vita a sentire sulla pelle. Ma è questo il mio modo di conoscere. E più che conoscere è un intuire, è un immaginare, ancora e sempre, una vita possibile.
Devo dire, però, che questa vita possibile sta diventando vera, non è più una possibilità  tra tante, è quasi l’unica che mi riguarda ora. Viaggiare, spostarsi, non sentirsi più a casa in nessun luogo e, nello stesso tempo, essere a casa ovunque, sempre, continuamente, perché il rifugio ce l’hai dentro, e in un quaderno, e in una persona lontana che, nonostante tutto, ti pensa.
O almeno io mi illudo che sia così.
“Chi vive sperando muore cagando”. Questo proverbio francese che la mia amica Alice mi ripete da anni (o forse anche ora sto solo immaginando lei che me lo dice, quando in realtà  non è mai successo), mi fa capire quanto labile siano i ricordi, le speranze, i sogni e le preveggenze.

E allora prenderò i miei Tarocchi, quelli nella scatola con il cordino, quelli consumati sugli angoli, dipinti con pennellate di colori sobri e uniformi. Li disporrò sul tappeto buio della mia camera, nel prenderò cinque a caso e cercherò di capire davvero cosa mi sta succedendo. Anche se forse già  lo so e non me ne rendo conto.

E’ una sera che è come un solco, questa, e resterà  insieme ai tanti solchi profondi della mia vita, in un cassetto dell’animo.
Non è tanto importante cosa si fa, a volte, ma il solo processo, il solo atto creativo, il solo tentare, il solo scagliarsi contro montagne invalicabili e mostruosi mulini a vento che ci rende degni di memoria.
Non è lo spettacolo finale, ma le prove, la fatica, il sudore, la disperazione delle notti che hai paura che non nascerà  niente che va ricordato.
E’ nato tanto, da tutto questo. E’ nato più di quanto ognuno di noi osasse sperare.
E quando c’è così tanto già  all’inizio non si può essere disperati, perché siamo già  andati più lontano che se non fossimo mai partiti.

E ora una sigaretta e uno sguardo al cielo. Possiamo andare ovunque. Basta che ci ricordiamo che abbiamo le ali e che dobbiamo lasciar cadere la corazza, per volare via leggeri.
Basta corazze. Basta lacrime. Stiamo volando.

La Meglio Gioventù

La Meglio Gioventù
Giusto per riprendere il titolo: meglio tardi che mai.
Come si può pensare di fare qualunque cosa sull’anti-psichiatria quando non si è visto nemmeno questo film?
Sono le quattro di notte e mi appresto a vedere la seconda parte, perché non resisto, perché è irrinunciabile.
L’adolescenza, il viaggio, l’amore, l’abbandono, l’ideale e la realtà , la disumanità  e l’anti-psichiatria, e mille altri temi che non posso, non posso non continuare a scoprire, ora, adesso, subito, perché per troppo tempo non ho guardato, perché per troppo tempo ho ignorato, anche se credevo di no.
Mi fa impressione notare come gli “illuminati” degli anni ’70 avessero capito tutto, come ci fosse nell’aria quella sensazione di sfacelo imminente che ci sta travolgendo oggi e come alcuni se ne accorgessero.

“Lasci questo paese. L’Italia è un paese da distruggere. Un posto bello e inutile, destinato a morire.”
“Cioè, secondo lei tra un poco ci sarà  un’apocalisse?”
“E magari ci fosse. Almeno saremmo tutti costretti a ricostruire. Invece qui rimane tutto immobile, uguale, in mano ai dinosauri. Dia retta a me, vada via.”
“E lei, allora, professore, perché rimane?”
“Come perché? Mio caro, io sono uno dei dinosauri da distruggere.”

Che già  uno fa fatica a prendere sonno, quando poi te lo dice un film, ci pensi davvero. Se te lo dicono tutte le persone che hai intorno e che ti stimano e che ti vogliono bene puoi far finta di non sentire. Ma quando te lo dice un film. E quando nel buio della sala senti che devi prendere il quaderno e devi prendere la penna e devi scrivere queste parole un po’ banali ma così reali, allora ti accorgi anche che devi agire, che questo immobilismo può travolgere tutto, ma non deve travolgere anche te, che devi scappare, con la mente e col corpo, se puoi.
Che poi sono anni che scappi, anni che non stai ferma, anni che vaghi alla ricerca di qualunque cosa che non sia quello che hai già .
Da una parte mi sento confortata. Quando qualcun altro parla e dice quello che pensi anche tu, beh, allora ti rendi conto che non hai proprio sbagliato strada, che non stai sbagliando tutto.
Da una parte mi sento fuori tempo. Come sempre. E’ per questo che parlo veloce, che dormo poco e che fumo in fretta. Sono in ritardo, su qualunque cosa, quasi sempre. E anche stavolta. O forse no, forse devo smetterla di vederla come una “gara” e cominciare a dire quello che ho da dire. E stavolta sì, stavolta non mi lascio scappare l’ennesima idea.
L’anti-psichiatria, chi l’avrebbe detto che proprio mentre io stavo cercando di partorire, invano, Malinconie Urbane, qualcuno, nello stesso istante, nelle stesse notti, stava girando un film che parlava della stessa cosa. Un film in cui il protagonista dice:
“E’ il mio maestro, Franco Basaglia.”
“Quello che vuole liberare tutti i matti.”
“Lui c’ha questa strana idea che i malati non siano dei detenuti, ma delle persone. Che la malattia mentale non sia una colpa da espiare. Bizzarro, no?”
E non mi consola sapere che Marco Tullio Giordana ha 56 anni, non mi consola pensare che a vent’anni posso aver avuto un’intuizione che ha avuto anche uno di cinquanta. Non mi consola nulla, in questo momento, ma sento sento la responsabilità  delle mie (non) azioni, sento quantomeno la consapevolezza.
Quindi ora basta.

Come mi ha detto lo Zio Angelo, devo “trovare la leva che sta alla base del meccanismo. Inventa un’interferenza semplice ma costante, che condizioni tutto dalle fondamenta.
E avrai il tuo sistema.
Il tuo mondo.”

Ok, io vado. Poi vi faccio sapere. Il vostro numero ce l’ho. Vi chiamo io.