Palle al balzo – Dodgeball

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E’ un film per spegnere il cervello. No, non è uno di quei casi in cui il titolo è stato mal tradotto ed è fuorviante. Palle al balzo è proprio quello che sembra: la possibilità  di passare un paio d’ore con la mente in stand-by.
Però per fortuna c’è Ben. Il film merita di essere visto anche solo per la sua espressione nella locandina. La storia è la stessa: buoni contro cattivi, fighi contro sfigati, fasulli e cinici contro innocenti e disillusi. Il colore deriva tutto da Ben Stiller, dal suo personaggio dai ridicoli baffi, dalla sua ignoranza incolmabile, dal suo stile di vita tipico del “self made man” che è riuscito a perdere mille e mille chili di troppo e a diventare un uomo felice.
E ora, con grande “spirito di altruismo”, cerca di aiutare gli altri a capire che “fanno schifo” e, quindi, a cambiare. Non a caso, il motto della palestra di White Goodman, che di goodman non ha molto, è

“Siamo meglio di voi, e lo sappiamo!”

Sì, perché grasso non è bello, grasso è vergognoso. Come dice uno dei clienti della palestra dei cattivi,

“Prima di conoscere White ero grasso, ma mi piacevo com’ero. Dopo poche lezioni con lui ho capito quante cose in me facevano schifo…”

Per fortuna non tutti la pensano così, anzi. Qualcuno che fa parte dell’esiguo gruppo deli “sfigati” cerca di spiegare la famosa morale alla “Forrest Gump”: ognuno può raggiungere i propri obiettivi con impegno, dedizione (ma anche sarcasmo, cinismo e tanta buona sorte). In tutto questo, ovviamente, la grande occasione della vita consiste nel partecipare al torneo mondiale di uno sport inesistente e molto simile a “Palla guerra”, il Dodgeball, appunto.

Volendo ben guardare, c’è anche un senso, il solito. Accettarsi come si è, impegnarsi a fondo per ottenere quello che si vuole e, se va tutto bene, alla fine la bella gnocca di turno potrebbe anche starci (o magari è lesbica).
Comicità  un po’ triviale, piena di “volgarismi” e scorrettezze. Situazioni assurde e paradossali all’interno di una trama al limite dello scontato. Non rende un granché, a parlarne, perché in fondo sono due ore di gag e mimica corporea. Ma vale la pena.
Meglio di tanti film spacciati per seri che sono molto più tristemente squallidi.

Eternal sunshine of the spotless mind

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Per motivi già  ampiamente dibatutti non mi soffermerò sul titolo di questo film, spettacolare e a dir poco poetico in inglese, dozzinale e da commedia basso-popolare in italiano (Se mi lasci ti canello. Maddddai).

Non farò nemmeno la solita apologia-elogio di Jim. Penso che sia un grande attore e se qualcuno non è d’accordo, è un problema suo.

Mi son vista il film con una specie di enorme aspettativa: dallo sceneggiatore di Essere John Malkovich mi aspettavo un bel po’. E grazie al cielo, non è stato l’ennesima commediola americana con battute brillanti, hamburger, serenate notturne e amici tutti d’un pezzo che ti aiutano a riconquistare la donna che ami.
No, niente idiozie simili, ma una storia sull’essere se stessi, sulle proprie pulsioni, forse anche sul proprio destino. Sull’amore (ok, ancora questo tema che permea proprio tutto, ultimamente), ma in generale su quello che siamo e sul fatto che certe esperienze e certe persone, nella nostra vita, le dobbiamo affrontare per forza, senza via di scampo.
Una cosa tremenda è perdere i propri ricordi. Soprattutto certi ricordi. Chiacchiere sotto le coperte, palle di neve, cene giapponesi inventate, pomeriggi spalmati insieme sul divano, litigate e voglia di maternità , viaggi, stazioni, dormire insieme, dormire a casa tua. Tremendo dimenticare e smarrire tutto questo tesoro. Ma ancora più agghiacciante e doloroso è rendersene conto. Essere consapevoli che si sta per perdere una parte di noi stessi. Non volerlo ma non poter fare niente per impedirlo. Ecco, trovarsi nel proprio cervello cercando di rifugiarsi con chi o cosa amiamo di più dove niente e nessuno potrà  raggiungerci. Impossibile. Tutto svanisce, grazie (o per colpa) della mitica Lacuna Inc.
Mi sono accorta che ero tremendamente depressa per la perdita di ricordi altrui. Figuriamoci se succedesse a me. Mica per altro. Certo, conosci uno un po’ stronzo, incontri una insopportabile, hai esperienze che era anche meglio di no. Ma perché privarsi del divertimento del risentimento, della gioia dell’insulto, dell’orgoglio, alla fine magari, del perdono e della compassione. Magari ti cancello e poi un giorno ti rivedo e ti tratto anche in modo civile. No, grazie. Preferisco ricordare (e, se posso, infierire).

Lasciando da parte gli istinti vendicativi, credo che sia inutile dimenticare. Credo che ci si possa facilmente dimenticare degli eventi. Ma non possiamo mai scordarci di noi stessi, dei nostri impulsi, dei desideri, di quello che amiamo o che odiamo, al di là  di tutto. La memoria può svanire, possiamo davvero (grazie magari più alla rimozione freudiana che alla Lacuna Inc.) eliminare quello che non ci va, ma il nostro percorso, le nostre scelte, tutto quello che siamo, tornerà  sempre nello stesso modo. Forse è vero, come diceva quel pazzo in K-Pax, che l’universo si espande e si comprime all’infinito, e ogni volta rinasce uguale a se stesso, e noi con lui. E ogni volta facciamo le stesse, identiche scelte, gli stessi identici sbagli, lo stesso identico percorso.
Forse questo succede anche nel microcosmo della nostra vita. E allora anche per noi potrebbe splendere “l’alba eterna della mente immemore”, ma a che scopo, se, comunque vadano le cose, non potremo cambiare la nostra essenza?

[sì, il film mi è piaciuto, non si capisce?]

Big Fish – O di come piangemmo entrambi

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Ci sono certi film che è destino vedere. Rimandi sempre, ci sono mille imprevisti, il div-x che hai scaricato non funziona. E te ne dimentichi per un bel po’. Poi, una notte, torni a casa all’una e trovi il dvd sul tavolo della cucina. Sai che dovranno restituirlo domani, quindi aiutata dall’insonnia del periodo e dal fatto che anche Natan vuole vederlo da un pezzo, questo film, ti piazzi in sala con la fantomatica ciotola di pop-corn e il succo di frutta. Ah, delizia. La casa è silenziosa, tutti dormono di là  e nessuno interromperà  la visione. Ti sistemi più comodamente che puoi, incastrandoti con l’altro sul divano troppo piccolo e creando una specie di capanna con il plaid, così non fa freddo. E comincia lo spettacolo.
E’ la storia di una vita portentosa, di un ragazzo, un uomo, un padre, che cerca di raccontarsi a tutti, sempre, e che condisce con fantasia e stranezza ogni aneddoto del suo passato. Incontri mirabolanti, avventure verosimili e insieme fantasmagoriche, c’è una sfilata sterminata di personaggi, luoghi, situazioni, colori, musiche e sentimenti. L’amore è il motore di tutto e il punto di arrivo, la meta. Detta così sembra banale. Detto così, sembra un filmetto da tre soldi con effetti speciali e sentimentalismo di bassa lega. Non saprei, forse lo è. Però era un po’ che un film non mi faceva questo effetto.
E allora, mentre eravamo lì abbarbicati sul divano aspettando di sapere l’ennesimo incontro eccezionale di quella vita, io mi sono resa conto che l’amore che provo per la scrittura ha la stessa origine dell’amore che il protagonista aveva per i suoi racconti fiabeschi: raccontando, scrivendo, trasmutando, si ha il potere non tanto di cambiare la realtà , non di dare “una propria versione”, ma proprio di creare altri mondi. Oh, sì, i cultori di Calvino e di tutta la letteratura che è venuta prima di ora mi rideranno
in faccia: sai che novità . Non è questa la scoperta. La scoperta è quella di rendersi conto di avere il potere. Un conto è pensare che sia possibile in generale, un altro è invece capire di poterlo fare. Poi, non che uno ci riesca.
Io, per esempio, mi struggo per raccontare storie, ma i risultati sono sempre deludenti. Annoio persino me stessa, figuriamoci. Però comunque posso continuare a provare. E, come nel film, posso plasmare anche la mia morte e decidere di morire come mi andrà . Magari non nella realtà  contingente, ma sicuramente nella mia realtà  fantastica sì.
Insomma, alla fine di questo film che mi ha investito peggio di una tempesta ormonale, io e Natan ci siamo ritrovati a piangere come due agnelli (o vitelli, papà ?) e non abbiamo avuto parole per commentare di più.
Ora basta. Questo è solo un punto di partenza. Poi c’è la fantasia. Poi c’è la realtà . E il loro tanto amabile miscuglio.

King Arthur – Solo perché devo

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Mi sono proposta di scrivere almeno un breve commento su tutti i film che vedo, da ora in avanti. Questo per giustificare questo post su un film che (a dire il vero) non meriterebbe commenti organici.
Sinceramente, temevo che fosse un vilipendio alla storia, in realtà  si è rivelato plausibile per certi aspetti, un po’ troppo romanzato e fantasioso per altri, tutto sommato relativamente verosimile.
A parte i sette “sopravvissuti” Cavalieri della Tavola Rotonda, che non si battevano solo per spirito umanitario ma perché coerciti dall’esercito romano (ovviamente erano i Magnifici 7, belli, bravi, buoni, valorosi), erano interessanti anche i Woads, i nativi, che difendevano la Britannia da Roma ma anche dai Sassoni, i super-cattivoni di turno.
C’è un motivo per cui, però, vi consiglio di andare a vedere questo film. Giulia, Ali, sostenetemi: il film merita di essere visto solo per Tristano.
Ogni altro commento è superfluo. Storia e personaggi già  visti e già  vissuti, paesaggi di ordinaria campagna inglese, musiche indifferenti, finale da Boh.

E poi, in fondo, Artù era un mezzo celto-mezzo romano che difendeva la Britannia dai Sassoni. Ora è stato nominato Eroe Nazionale Inglese. Peccato, però, che gli inglesi attuali discendano proprio da quei Sassoni che il loro Eroe Nazionale cercava di sgominare…
Ridi Pagliaccio.

Anime – Ma come si pronuncia?

Bene, un normalissimo giovedì qualunque, di notte, uno non riesce a dormire e naviga qua e là , pigramente. Poi, così per caso, si scopre una notizia su un sito amico e si decide.
E così è stato: non sono una grande esperta del settore degli Anime ma quale migliore occasione per acculturarmi? Sono una fanatica di tutto quello che riguarda cinema et fumetti, quindi non potevano non piacermi tutti questi Lungometraggi di Animazione Giapponesi. E infatti mi sono molto, molto piaciuti.
Questo Festival di Animazione Giapponese era un po’ un esperimento, per tastare il terreno e vedere quale sarebbe stato il riscontro e l’adesione.
Dopo i tre giorni, l’umore era alto e, con l’affluenza di più di duemila persone si può dire che questo esperimento sia proprio ben riuscito.

Il programma era vario e raccoglieva “pietre miliari” del genere, registi e disegnatori famosi, personaggi conosciuti, ma anche novità .

Il Festival si è tenuto nei giorni 1, 2 e 3 ottobre presso il Cinema Palestrina, a Milano.
La sala era piccola, intima, duecento posti. Sono entrata spaurita, per comprare il biglietto per tutti e tre i giorni (ma sì, già  che c’ero…). Prima del primo lungometraggio, mi sono sfogliata attentamente molte delle riviste e delle pubblicazioni che erano all’ingresso (gentilmente fornite dalla Borsa del Fumetto. Ovviamente, appena potrò, mi farò una gita al negozio e tornerò a casa con la borsa piena…

Ma forse è meglio pararlare di quello che ho visto… Per iniziare c’è stato Cowboy Bebop – Il Film: Tutti quelli a cui ne ho parlato, lo avevano visto almeno qualche volta su MTV. Io no. Però mi ispirava. Infatti è stato uno spettacolo. Bei disegni, buona storia, personaggi simpatici e variegati. La regia era di Shinichiro Watanabe (che ha diretto anche Animatrix, mica poco…) e, appena li rifanno, mi guarderò anche gli episodi in tv…
Il primo giorno purtroppo sono dovuta tornare a casa presto, ma c’era anche Alexander -Il Film, di Yoshinori Kanemori, che meritava sicuramente. Lo recupererò (qualcuno ce l’ha, per caso?)…
Il secondo giorno è stata una vera e propria full immerision: prima Capitan Harlock, l’Arcadia della mia giovinezza, di Katumata e Matsumoto, che mi ha fatto capire un po’ di antefatti della vita del fascinoso Pirata (che poi io ero troppo piccola quando lo facevano per capire o ricordare bene tutto). Bello, sì, ma anche alquanto datato (è del 1985): c’erano dei momenti che dovevano essere di grande pathos e che invece si sono trasformati in momenti di ilarità  collettiva (del tipo: una bambina di quattro anni, morente, è attorniata da omoni grandi e grossi che esclamano affranti “Oh, no, è l’ultima donna della nostra specie”… Insomma… Imbarazzante). Bello però vedere come cambiano le cose. Di sera ho visto Vampire Hunter D: Bloodlust, un film su vampiri, dampyr, cacciatori e prede. Esagerato. Disegnato in stile gotico, è un misto tra fantascienza, horror, avventura, western e sentimentale. Insomma, meglio di così non poteva andare! Complimenti a Yoshiaki Kawajiri.
L’ultimo film di sabato è stato Lupin III e la leggenda dell’oro di Babilonia, di Seijun Suzuki. Alquanto deludente, la trama fiacca e i personaggi non “al loro meglio”. Da notare: una scena atroce che dura veramente troppo di Lupin inseguito da Zenigata su un cartellone-faccione appeso ad un palazzo. Io e Alice ci chiedevamo, angosciate, se sarebbe mai finita o se tutto il film sarebbe continuato così…
Domenica mi ha regalato un finale in grande: Interstella 5555, prima, Perfect Blue poi.
Interstella 5555 è un film realizzato da Takenouchi e Matsumoto in collaborazione con i Daft Punk. Io non vado pazza per il loro genere di musica, ma questo lungometraggio è speciale: non esistono dialoghi e tutto è accompagnato, commentato, esaltato dalla musica e dalle canzoni. Il disegnatore Matsumoto è lo stesso di Capitan Harlock, infatti si nota molto l’analogia di tratto e di stile. Tutti gli elementi sono sfruttati in maniera ottimale, dai colori ai suoni alle luci. Guardatelo, merita davvero.
Infine mi sono fatta inquietare da Perfect Blue, di Satoshi Kon. E’ un thriller molto giapponese, forse un po’ troppo, nel senso che alcune “incongruenze” e irrazionalità  non convincono del tutto “l’occchio occidentale”. Notevoli gli effetti di confusione e smarrimento che prova la protagonista (e che di riflesso proviamo anche noi). Accurati i disegni ma… Dopo aver visto il film non avevo comunque capito il titolo!

Il prossimo appuntamento deve essere a Febbraio 2005. Appena so qualcosa, lo segnalo qui!
Sono stati tre giorni allucinanti. Rinchiudersi in un cinema per così tante ore al giorno contribuisce non poco allo smarrimento sensoriale, risulta difficile capire cos’è reale e cosa no, una volta usciti. Sabato, per esempio, mi aggiravo tra la gente e pensavo “Guarda che colori spenti… E’ tutto così opaco…”.
Semplicemente era la realtà , e io, per qualche ora, anzi, per qualche giorno, me n’ero dimenticata.