Dal produttore di Gatchi Boy mi aspettavo qualcosa di meglio. Voglio dire, Gatchi Boy era un film su un ragazzino con la passione del wrestling che, in seguito a un incidente, perdeva la memoria a breve termine e non riusciva più a vivere una vita normale, salvo trovare una qualche forma di riscatto proprio nel suo sport preferito. Film a metà tra una commedia dolceamara e una riflessione sull’essere uomini.
Già dalla locandina si intuisce che il rimando a V for Vendetta è esplicito, però vogliamo avere fiducia, c’è Takeshi Kaneshiro (che non si capisce perché ora chiamano al contrario, Kaneshiro Takeshi, è come se un giorno invece di dire Brad Pitt dicessimo Pitt Brad, ma non importa), paiono esserci valori produttivi interessanti, insomma: è il film delle 20 del lunedì, “we want to believeâ€.
L’ambientazione è altrettanto intrigante: un mondo di controstoria in cui la Seconda Guerra Mondiale non ha mai avuto luogo e in cui quindi l’umanità è rimasta in una sorta di anni ’20 della scienza e della tecnica. Tesla e la sua macchina per irradiare energia a distanza sono la forma tecnologica più evoluta (e quindi dimentichiamo le telecomunicazioni all’avanguardia, l’energia atomica e tutto quello che rende meravigliosamente terrificante il mondo contemporaneo). L’idea in sé può aver senso, peccato che poi il contesto diventi un pallido sfondo inutile e inutilizzato, perché se la storia fosse stata ambientata nel Giappone dell’800 non ci sarebbero state differenze strutturali nella trama e nei personaggi. Personaggi che, purtroppo, hanno quella che, in gergo tecnico, si definisce “psicologia delle patatineâ€: superficiali, stereotipati, causa e vittime di luoghi comuni senza fine, costruiti a tavolino con un approccio da “mestieranti†senz’anima. Se non cambio argomento passo agli insulti, temo. Il personaggio che si può considerare l’equivalente giapponese di V non spiega mai le sue motivazioni, sembra un cattivo che agisce così per salvare il mondo ma poi no, è solo un nichilista. O forse c’era altro, sotto la maschera (brutta) ma di certo non si è visto. Il personaggio femminile è lo stereotipo della brava moglie giapponese, con dei picchi di “originalità â€, del tipo la capacità di pilotare un elicottero o la perfetta conoscenze di tecniche di difesa e lo spirito di osservazione di una spia del KGB. Il protagonista, il mio beneamato Takeshi, è una macchietta a metà tra l’eroe tragico e l’eroe comico: buffo e goffo in alcuni casi, melò e contrito in altri, arrivando praticamente a somma zero e restando del tutto indifferente.
Best scene ever: Takeshi entra d’improvviso nella sala da bagno dell’umile dimora in cui è ospite la bella protagonista, la vede completamente nuda e bagnata e resta totalmente paralizzato, osservandola basito, fino a quando un sottile rivolo di sangue comincia a scendergli dal naso. Risate a profusione, una delle migliori rappresentazioni di un umorismo tipicamente giapponese che però mi ha sinceramente travolto. Ho riso per un quarto d’ora anche dopo, quando il film era tornato su un registro medio-tragico.
Best scena ever 2: quando – e non si capisce perché – lui e lei si devono separare, perché è logico, due che si amano, che non hanno nessun impedimento e che peraltro perseguono gli stessi obiettivi non possono restare insieme. Lei è triste e lui, per farla sorridere, le fa un gioco di prestigio facendo comparire una colomba dal nulla. Giacomo si gira e con aria sorniona mi fa: “Anche io la prossima volta che sei triste tiro fuori un uccello e ti faccio feliceâ€. Come dargli torto? Il bello è che la sceneggiatura è di una donna. Siamo irrimediabilmente compromesse.
In effetti il film è stato un po’ il cosiddetto pacco, ma il voto che si merita è tale proprio per la scena del sangue dal naso.
Voto: 2 su 5