Far East Film Festival 2018 – A volte ritornano

Sia messo agli atti che questo è il mio tredicesimo Far East e che non ne ho mai saltato uno. Nemmeno quando Ubisoft mi stava per assumere. Nemmeno quando ho affrontato il mio primo periodo di ansia stellare. Nemmeno quando è nato nostro figlio e me lo sono portato in giro per Udine in lungo e in largo nella fascia. Nemmeno quando ci sono venuta col cuore pesante. Nemmeno quando ci sono venuta senza soldi. Nemmeno quando ero innamorata da far schifo. Ancora.

Questa volta ci vengo col cuore leggero. La mia amica Alice dice che è perché ho “un aiutino”. Secondo me invece è perché dopo gli attacchi di panico, di vomito e la depressione ansiosa di ottobre-novembre-dicembre, ora mi sento sulla giusta via.

Il 2017 è stato un anno orribile, e non è nemmeno morto nessuno. Però in un certo senso sono morta io. àˆ morta una versione di me per lasciare spazio a una nuova Valentina. O a una vecchia Valentina, non so bene.

Quello che so è che mi sento nel posto e nel momento giusto. Non solo perché sono qui al Far East, ma anche perché ho smesso di avere paura è ho deciso di seguire le mie aspirazioni, una volta di più. Ho deciso di scrivere, con sistema, con metodo, con due obiettivi chiari. Prima un libro per bambini, che parla di draghi e montagne, poi un romanzo, che sto covando da tempo, che si intitola “Il Paziente Zero”.

Quindi, in tutto questo, essere al Far East è, per l’ennesima volta, uno scandire il tempo che passa e i momenti importanti della vita. L’anno prossimo ripenserò a quest’anno e a quando sono venuta al Far East quest’anno e a come mi sentivo. Per questo ricomincio anche a scrivere le recensioni dei film che vedo qui. Perché la recensione di un film porta con sé anche dei “collaterals” che poi sono l’ingrediente fondamentale: le chiacchiere con Giacomo, le discussioni con gli amici, le passeggiate in centro, i pranzi e le cene, le dormite. Così potrò ricordare, di anno in anno, tutti i miei Far East.

Nel posto sbagliato, al momento sbagliato

Le passioni ti fregano. Tu sei lì, che cerchi di vivere la tua vita con quanto basta, con misura, con equilibrio, lasciando da parte l’inutile superfluo, concentrandoti solo sulle cose essenziali, che contano davvero, ma non è affatto detto che questo ti metta al riparo dal sentire l’intensa mancanza di qualcosa.

Leonardo è l’esempio lampante, povera cavia umana del mio essere madre: l’ho voluto, l’ho desiderato, adoro averlo, ogni giorno che passa mi diverto sempre di più, colleziono ricordi che non avrei mai immaginato, eppure, a volte, sento lo strisciante disagio di non stare scrivendo una nuova storia. O di non essere sul set. O di non stare viaggiando per cercare un nuovo set e inventare una nuova storia. Che poi, a ben vedere, sto inventando una nuova storia in un altro modo, in senso più ampio, ma il disagio resta. Allora, con giochi di incastri e scatole cinesi riesco a organizzare una settimana dedicata solo al lavoro, in cui lui sta con i nonni, ed ecco che un secondo dopo che non è con me mi sento di nuovo a disagio, perché sto raccontando una storia, ma non è la sua, sono sul set, ma lui non c’è, e mi manca incredibilmente in tutte le piccole cose: quando mangio senza dovermi alzare seicento volte, quando il cibo resta tutto nel piatto, quando la cacca va direttamente nel water quasi da sola, quando non ci sono psicodrammi perché Miglio il Coniglio è finito fuori dal lettino… Mi manca tutto, di lui, anche se sto scrivendo la mia storia preferita, e suo padre non aiuta, mostrandomi tenere foto amarcord e ricordandomi che anche lui è umano e ne sente la mancanza.

Questo, però, è un dualismo delle patatine: tutte le madri e tutti i padri sanno di cosa parlo, del lacerante spallamento che si prova quando si passano intere giornate con esseri che grugniscono e basta, e dell’altrettanto lacerante disagio che si prova quando ci si allontana da quegli stessi esseri. Fenomeno che tutt’ora difficilmente mi spiego, comunque.

C’è poi un altro modo di sentirsi fuori posto, che è quello delle disgrazie. Quando dovresti mollare tutto e andare a fare due chiacchiere con un amico che ha affrontato una delle tappe dolorose della vita. E io non c’ero, non ci sono stata, se non con un tardivo messaggino sul telefono. Eppure, ero a fare qualcosa che ritengo estremamente significativo, qualcosa per cui lotto tutti i giorni, qualcosa che non considero solo il mio lavoro, ma la mia passione. Niente, anche in questo caso ero al posto sbagliato, al momento sbagliato. Ma lo sono sempre, a ben vedere, perché c’è sempre un altrove che ha bisogno di me, c’è continuamente qualcuno che sto deludendo perché non ci sono col corpo o con la mente, e poi ci sono io, che sono costantemente delusa da me stessa.

Oggi ho letto che il tono con cui parliamo ai bambini diventa la loro voce interiore. Ora, io non so come mi hanno parlato da piccola, ma è troppo facile dare la colpa a qualcun altro per il fatto che quando “mi ascolto” sento solo critiche, rimproveri, rimbrottii e sensi di colpa. Non so da dove nasce, da che profondità  arriva, e non so nemmeno come metterla a tacere, questa voce, anche se ci provo tutti i giorni a volte mi ritrovo da sola, lontano da tutto e tutti quelli a cui dovrei essere vicino, e mi viene da piangere perché mi sento fuori posto, un’accidiosa madre, amica, amante, scrittrice, socia, figlia, sorella, un’accidiosa-ogni-cosa. Devo respirare a fondo e pensare che no, non è colpa mia, che sì, posso fare di meglio, ma che non mi devo mettere in croce nel mentre.

(Comunque, a scanso di equivoci, io a Leonardo ripeto sempre cose positive, anche quando ha un diavolo per capello e vorrei dirgli che è tremendocattivo, dispettoso, gli dico che è avventurosoenergicogiramondo… Così magari gli risparmio lo psicanalista da grande…)

Domani è il primo settembre. Si “ricomincia”, io non sono un granché con le fini e gli inizi, vado sempre in corto circuito. Ormai è un anno che dico a Giacomo che “sono in crisi” – professionalmente parlando, intendo – e che non riesco più a capire qual è il mio centro, qual è il mio scopo. Ho passato un’estate lavorando lentamente per trovare un nuovo centro e per potere, da domani, da oggi, da ieri, concentrarmi su di esso, dargli spazio, farlo crescere e, insieme far crescere di nuovo me stessa. Far crescere mio figlio, far crescere la Valentina che scrive, che inventa, che si occupa di cose che ama, che si occupa di cose che odia, la Valentina che pulisce casa e quella che si sdraia di notte da sola a guardare le stelle, quella che legge libri in un soffio e che scorre PDF con le istruzioni. Quella che racconta storie per il mondo e quella che le racconta per suo figlio. La Valentina che si vuole bene e si stima, e quella che si odia e si denigra e si umilia

La mia speranza è che tutte queste parti, tutte questi modi di essere “Valentina” riescano a gravitare meglio e con più leggerezza attorno al centro che ho deciso essere il mio polo di gravità , quello per cui faccio ogni cosa e quello che mi dà  un senso, al di là  di tutto.

Speriamo. Perché finora il qui e adesso sono sempre stati sbagliati, e ce ne sono sempre meno. Di qui e adesso e di occasioni per fare la cosa giusta.

Far East 2013 – Juvenile Offender

juvenile offender

Juvenile Offender

Corea del sud, Kang Yi-Kwan, 2012, 107′

Un buon inizio, al Far East, significa anche imbattersi molto presto nel film pacco-imbarazzo. E infatti eccoci. Un ragazzo cresciuto con il nonno finisce in riformatorio per un furto e ritrova la madre che lo aveva abbandonato 16 anni prima. Il riavvicinamento con la donna è dapprima fonte di affetto e speranza, perché il protagonista non si sente più solo e disperso in un mondo in cui nessuno sembra volergli bene, poi la vera personalità  della donna riemerge con prepotenza, con conseguenze non del tutto imprevedibili. Al di là  di una trama un po’ forzosamente ricattatoria (all’inizio del film il ragazzo si prende cura del nonno gravemente malato, è responsabile, gentile, e però chiaramente arrabbiato per via dell’abbandono e della solitudine), la regia è lenta e noiosa, i personaggi stereotipati e al limite del ridicolo, le situazioni grottesche e insensate. La madre, in particolare, dà  il suo meglio/peggio con (non volutamente) comiche scene di isteria, lacrime e strepiti, nessuna parvenza di lungimiranza e un destino segnato dalla sua stessa stupidità . Il figlio è un personaggio dolce, che meriterebbe un po’ più di introspezione, ma che viene accantonato in favore della tanto ingombrante quanto inutile madre. Gli altri sono solo delle comparse nella vita solitaria di due persone, una delle quali farà  la scelta giusta, mentre l’altra patirà  le giuste conseguenze.

Il film può fondamentalmente essere definito, più che uno “youth-drama”, un mattone sud coreano su drammi familiari con un’ingiusta indulgenza nei confronti di una madre di merda. Avrei sicuramente preferito che il tutto prendesse una piega horror-splatter, con ipotetica morte violenta (nonché lenta) di una madre che non solo abbandona il figlio una volta, ma che è in grado di ritrovarlo solo per farlo soffrire atrocemente anche una seconda. Mi sono chiesta, come sempre in questi casi, dove finiscano i diritti del genitore e dove comincino quelli del figlio e se sia meglio estromettere per sempre dalla propria vita un genitore così mediocre oppure no. Io vorrei arrogarmi il diritto di dare una risposta a questa domanda, ma non posso, perché non è la mia storia. Dovrei forse trovare il coraggio di chiederlo a chi questa vicenda la vive ogni giorno, anche se con situazioni e “personaggi” diversi, e sa cosa significa non poter contare su chi ami. Probabilmente lo farò.

2 su 5

Far East 2013 – New World

new world

New World

Corea del sud, Park Hoon-jung, 2013, 134′

Inizio il Far East di quest’anno con un film di buon auspicio. Un film “Gangster epic” in cui si notano tratti in comune con Donnie Brasco. La lotta per la successione a un boss della malavita da parte dei suoi scagnozzi porta a galla la vera personalità  di chi gli stava attorno. Non solo, la connivenza/doppio gioco di alcuni con la polizia rende ancora più intricate le carte sul tavolo. Molto interessante l’approfondimento delle meccaniche che stanno alla base dei meccanismi di infiltrazione nelle strutture criminali: il regista evita il melodramma facile e più che sui sentimenti si concentra sui processi che portano a determinate conseguenze, senza però rendere il tutto asettico come un verbale di polizia, ma arricchendolo con la giusta dose di azione, suspense e colpi di scena.

Ottima fotografia, buona regia, qualche colpo di scena memorabile e un finale decisamente apprezzabile. Forse, come vuole il trend dei film orientali ultimamente, ci sono 20-30 minuti di troppo, in un’ipertrofia narrativa che diluisce i sentimenti e le emozioni, anziché acuirli, e porta lo spettatore alla fine del film con un po’ di fatica.

3 su 5

Far East Film Festival 2013 – Finalmente

Far East Film 2013

Arrivo

Udine, Giacomo, Gian e Valentina, 2013, 6 giorni

Alienata. Così mi si può definire se, pur con il lavoro bellissimo che faccio, mi ritrovo ad arrancare, verso febbraio/marzo di ogni anno, aspettando il Far East come e più freneticamente di quanto si aspetta il Natale (che invece odio, ma mai comunque quanto odio Capodanno).
Quest’anno siamo arrivati col fiato corto: occhiaie, chiari segni di decadimento fisico vanamente contrastati dal tragitto casa-lavoro in bicicletta, aridità  di immaginazione a malapena compensata da Bioshock Infinite che mi ha dato lo spunto per una nuova raccolta di racconti, insomma, dei rottami, a 30 anni. Ma dei rottami con una speranza: quella, cioè, di ricaricare le batterie grazie alla combinazione perfetta di giorni insieme, Friuli, buon cibo, Udine e soprattutto Far East Film Festival. Sì, arriviamo che sembriamo tre pellegrini che raggiungono l’ambita meta dopo giorni e giorni di viaggio, coi vestiti laceri, assetati, affamati, senza quasi ormai speranza. E bastano un pranzo tutti insieme, due passi in città  e soprattutto l’accredito White Tiger attorno al nostro collo e la borsa del Festival, con programma e catalogo appena comprato, a tracolla per ridarci nuova vita e trasmutarci in animali da cinema.
Grazie a un ferreo programma stilato da Giacomo, possiamo quindi addentrarci nella visione di un minimo di minimo 13 massimo 16 film dalla Corea del sud al Giappone, passando per Cina, Hong Kong e forse, se ce la sentiamo, per Filippine e Malesia (anche se forse, dai Far East precedenti, ricordate che razza di mattoni queste due nazioni ci abbiano regalato). Verso la fine della settimana, poi, arriveranno anche Max e Claudia, a dare un ulteriore tocco di colore al tutto.
Ce la possiamo fare? Certo. La parte difficile sarà  poi aspettare un altro anno perché il Far East ritorni.

Far East 2011 – Aftershock

Aftershock

Cina, Feng Xiaogang, 2010, 135’

E mentre tutti – o quasi – si aspettavano Confessions come vincitore dell’Audience Award 2010, è la Cina a farla da padrona, con Aftershock al primo posto e Under the Hawthorne Tree al secondo. Aftershock è, in effetti, shoccante: è la storia di una famiglia che affronta e supera il terribile terremoto di Tangshan del 1976. Seguiamo le vite dei vari personaggi, vittime di una scelta atroce fatta in un momento di disperazione e, al loro fianco, attraversiamo trent’anni di storia cinese. Uno spunto interessante si piega però alla violenza di una trattazione visiva e narrativa retorica e forzosamente strappalacrime: il dolore è continuamente mostrato in modo plateale, le coincidenze diventano un po’ ingombranti e le motivazioni dei personaggi si perdono in una brodaglia di luoghi comuni senza speranza. Più di tutto, però, pesa la strisciante ombra ideologica che il film si lascia alle spalle: nessun proclama urlato, nessun pamphlet esplicito, ma un continuo riferimento alle basi della Cina moderna (leggi: Mao e la Rivoluzione Culturale) con nostalgia, gratitudine e con la convinzione che tutto ciò che c’è di buono venga proprio da lì. Assistere alla sequenza dei funerali di Mao (tenutisi a Pechino nello stesso anno del terremoto di Tangshan), dipinta con poesia, amore, bimbi con garofani bianchi all’occhiello e madri affrante in lacrime è stato alquanto disturbante, soprattutto considerando che non era assolutamente funzionale alla storia narrata. Due personaggi, che fanno parte dell’Esercito Popolare di Liberazione, sono tratteggiati con garbo, amore e sono, in fin dei conti, i veri “buoni” della storia. Attorniata da gente in lacrime, non ho potuto che provare un po’ di fastidio per le soluzioni retoriche e troppo plateali con cui il film cerca di coinvolgere lo spettatore emotivamente. E, dopo aver saputo della vittoria del film, il fastidio si è trasformato in seria preoccupazione per quello che ci raccontano e per quello che percepiamo di una potenza che sta diventando sempre più esportatrice non solo di merci, ma anche di cultura.

2 su 5, ma quante preoccupazioni