Paola Caruso e la dignità

E mentre io intraprendo la mia ennesima dieta fallimentare, sommersa tutta da problemi probabilmente inesistenti, c’è una Paola, da qualche parte, che conserva ancora molta dignità .

Se cercate “Paola Caruso sciopero fame” su Internet, se leggete il link che ho appena postato, potete facilmente capire di cosa si tratti: una giornalista precaria che, esasperata da 7 anni di contratto a progetto nella stessa azienda (il Corriere della Sera) e con la stessa mansione (giornalista), ha deciso di urlare al mondo il suo sdegno.

Io Paola Caruso non ho idea di chi sia, veramente. Mi stava anche un po’ antipatica perché è così magra pesa poco più di 40 chili (pesava), ha 40 anni e sembra così giovanile. Voglio dire, cosa ti lamenti. Invece è da sabato, quando la notizia del suo sciopero è trapelata, che seguo con morboso interesse quello che le sta succedendo. Lei vuole che si prendano provvedimenti perché chi, come lei, lavora nello stesso posto da SETTE anni sia minimamente tutelato. L’azienda risponde a spizzichi e bocconi (lo stesso direttore della testata ha pubblicato una lettera decisamente algida e scostante), le testate “ufficiali” non pubblicano niente, sono i blog, le riviste indipendenti o i siti di notizie generiche che stanno cercando di sollevare un polverone.

Polverone su diversi fatti scandalosi che, prima di lasciarmi andare a considerazioni prettamente emotive, cercherò di elencare lucidamente:

1- Il precariato come nuova forma di oppressione sociale
I contratti a progetto servono per i progetti. Non per tenere gente senza diritti, al guinzaglio, per SETTE anni. Quanti anni ti ci vogliono, maledetto padroncino X di qualsiasi azienda, a capire quanto vale un collaboratore prima di assumerlo? SETTE ANNI? A me anche DUE sono sembrati tanti.

2- Che anno è? Che giorno è?
Nel 2010, in Italia, per far valere diritti minimi, come la dignità  del lavoro, la gente deve fare lo sciopero della fame. Questo è deprimente. E’ disarmante. Una quarantenne che io non conosco mi sbatte in faccia una modalità  di protesta dura, cattiva, pericolosa, anche arrogante, che si usa come urlo supremo per dire “Guardami negli occhi, guardami morire di fame, perché tanto o così oppure morirò tra un po’ più di tempo, ma senza dignità “. E’ anacronistico. Ed è umiliante che, nel 2010, le persone siano spinte ancora a questi livelli di esasperazione e disperazione. Mondo civile a chi?

3- La “macchina del fango”
(Grazie Roberto per questa splendida definizione)
L’onta e l’infamia che si scatenano subito su chi ha osato alzare la testa. Anche dentro di me, che ho subito un trattamento analogo (non penso peggiore, ma posso capire, insomma). Penso subito: “Questa qui non l’avrà  combinata giusta. Sarà  lei ad essere mancante in qualcosa, se non l’hanno assunta. Alla fine non valeva così tanto”.
Sono pensieri che mi hanno fatto venire da vomitare non appena li ho formulati. Che mi fanno inorridire per quanto efficace è questo sistema che squalifica gli individui facendoli passare solo per arroganti che cercano privilegi qua e là . Perché Paola è il “fastidio”. Paola è la spina nel fianco. La voce stonata che non si rassegna. E quindi dev’essere “pazza” (cito De Bortoli che le consiglia di “ritrovare serenità  e misura” e cioè di farsi vedere da uno bravo e di non dare di matto così). Dev’essere pazza, o strana, o stronza, o qualsiasi cosa squalifichi la sua opinione, perché così è più facile.

Questa quarantenne di quaranta chili, questa Paola Caruso che mai conoscerò, sta facendo PER ME, sta facendo PER TANTE, TANTE PERSONE, più di quanto non facciano i colleghi conniventi con il potere che abbassano la testa e stanno zitti quando uno entra nell’ufficio del capo e ne esce senza un rinnovo di contratto. Paola sta generosamente mettendosi alla berlina per difendere con un gesto estremo tutti quelli che sono stati lasciati soli in questi anni: dai colleghi, dai sindacati, dallo Stato, da tutti.

Perché gli individui fanno schifo, sono dei codardi, la maggior parte delle volte sono solo degli egoisti infami che si tengono stretto il proprio orticello appassito e che non danno una mano a nessuno, a meno che non si trovino in pericolo a loro volta, o che non scorgano un tornaconto personale o professionale.

Perché anche i sindacati fanno schifo, tutti concentrati a difendere 20.000 persone quando ce ne sono 20 milioni nella merda fino al collo, che non sanno nemmeno che le donne hanno diritto alla maternità  se lavorano o che ammalarsi non è una colpa punibile dall’azienda.

Perché lo Stato, che poi siamo noi, fa schifo e i suoi esponenti ci hanno affossato in un paese che potrebbe essere splendido e che invece vede gente che si impegna, che lavora, in gamba, rimanere ai margini della società , povera, a chiedere aiuto alla famiglia, quando c’è, e quando non c’è ad arrangiarsi nella miseria, mentre esalta la prostituzione politica, le raccomandazioni, le furberie.

In tutto questo schifo, a me verrebbe da dire basta, ciao, getto la spugna, depongo le armi, volto pagina, qui non c’è niente per me.

Ed è qui, è proprio a questo punto che mi accorgo che Paola Caruso, che gente come Paola Caruso, si merita un applauso DUE volte: perché fa quello che fa per cambiare una situazione contingente e perché, mentre lo fa, dimostra con la sua persona e la sua coscienza, che non tutta l’umanità  fa schifo, che ci sono ancora degli italiani dignitosi, che hanno valore, che lottano e che ti difendono anche se non ti conoscono.

Io, cara Paola Caruso, non ti conosco, ma ti vorrei abbracciare, senza stritolarti, però (e ricomincia a mangiare, anzi vieni qua che ti faccio qualcosa di buono, in barba alla mia dieta), e ti voglio dire grazie perché non mi sento più sola, perché tu (più forte e più caparbia di me, senza dubbio) hai alzato una voce in mia difesa, senza neanche sapere chi sono, senza neanche sapere cosa faccio, ma lo hai fatto, ed è un gesto che non può e non deve passare inosservato.

Post scriptum: io sto bene. Sono una di quelle che sta bene. Posso dividere le disavventure (e le spese ^_^) con qualcuno di speciale, ho una famiglia pronta a sostenermi se sto per cadere, ho degli amici che mi stanno accanto e, infine, ho anche un lavoro da traduttrice e autrice freelance che mi piace tanto. E freelance vera, non quelle che devono dirsi freelance ma poi lavorano in ufficio. Io sono una fortunata. Le cose che mi sono successe negli ultimi anni e che pensavo “brutte” sono servite in realtà  a farmi crescere, alcune hanno fatto male, ma le cicatrici non si vedono quasi più. Io sono fortunata. E forse è perché non sono abbastanza disperata che non ho fatto come ha fatto Paola Caruso. O forse, meglio, perché non sono altrettanto in gamba.

Incrociamo le dita?

Incrociamo le dita? Incrociamo-le-dita? Ho capito bene?

Stiamo parlando di lavoro, di un lavoro qualsiasi, un lavoro che cerco, un lavoro che spero, un lavoro che magari è disponibile per me, e tu mi parli di “incrociare le dita”? Eh, no, però, è proprio così che mi si manda in bestia. E’ il modo perfetto, proprio. Sovrapporre la “fortuna” con il “merito”.

Dimmi che sono un cane. Dimmi che non ho esperienza. Che c’è un candidato più adeguato di me. Che non devo rompere le palle e restarmene qui a contare le lettere sullo schermo. Dimmi qualsiasi cosa che riguardi un merito, una competenza, ma non dirmi “incrociamo le dita”. Io non ci credo. Il lavoro non è questione di fortuna. Non è questione di incrociare le dita. E’ questione di essere la persona migliore per svolgere un certo incarico. Questo è il punto.

Pensi di ferirmi, se mi dici che non sono adeguata? No, è un lavoro. Non mi stai dicendo che sono un essere umano inadeguato. Non stai squalificando il mio sistema emotivo, relazionale, sociale, la mia famiglia, i miei amici, tutto. No, mi stai dicendo che non vado bene per un lavoro. Posso rimanerci male, ma supero la cosa con nonchalance e vado oltre.

Però, per favore, non dirmi “incrociamo le dita” o “buona fortuna”. Buona fortuna cosa? Dove lavori tu assumono la gente con l’estrazione del lotto? E’ così che funziona? Cosa diavolo mi sono laureata, dottorata e ho lavorato negli ultimi 10 anni a fare, stupida io. Bastava un po’ di fortuna. Bastava incrociare le dita e sperare che San Gennaro facesse il miracolo.

Ora, tutto questo non mi avrebbe scossa tanto se tu fossi stato italiano. Abbiamo una mentalità  fatalista, qui, e poi siamo un popolo abituato ad aspettarsi qualcosa da Dio, dal destino o dai maghi della televisione (o anche dagli amici politicanti), più che a lavorare sodo per averla.

Ma tu sei inglese. O americano, non ho capito. E mi dici “Incrociamo le dita”? E’ la fine, veramente.

Io passo oltre. Questa cosa che il lavoro nobilita l’uomo, secondo me, la devono rivedere. Almeno in alcuni posti, in altri no, c’è ancora gente (e sì, ITALIANI, non solo stranieri) che lavorano a modo, che si impegnano e che pretendono veramente la qualità  da quello che si fa.

Io, a lavorare con uno che mi dice “incrociamo le dita” e il progetto andrà  bene, non ci vado e non ci andrò mai.

Cos’è successo a Ginevra?

Intendo, nel corso della storia. Esattamente, cos’è successo a Ginevra? Un sacco di cose, suppongo, e io le ignoro tutte, perché sono un’ignorante, nel senso, appunto, che ignoro.

Abbiamo presentato il film in lungo e in largo, qui in Italia, a diversi eventi, ma all’estero mai, questa è la prima volta che “espatriamo”, con tanto di gentile  invito, alloggio e scarrozzo a carico degli organizzatori. Sono un po’ emozionata, se non altro perché non ho idea di come sia questo festival (a cui ci hanno invitato, non siamo stati noi a presentarci, in prima battuta), di come ci accoglieranno.

Il problema più grande, in effetti, è che ho già  finito di fare la passata di pomodoro per l’inverno, quindi sarà  un problema gestire gli ipotetici pomodori che la platea ci tirerà . O magari no, ci lanciano fiori e inneggiano a un’Italia che ce la può fare, visto l’impegno di alcuni suoi figli.

Insomma, c’è dell’aspettativa e molta emozione, almeno da parte mia. Giacomo è un fatalista senz’anima che prende tutto quello che arriva con tranquillità  e posatezza. Io sono qui a casa con le mani sudate che mi alleno a distribuire biglietti da visita. Insomma, il tutto è alquanto comico, ma sono di ottimo umore, fuori c’è il sole e la cosa più bella è che domani viaggeremo in treno, il che significa relax e bei panorami dal finestrino.

Ci sentiamo al nostro ritorno, così vi faccio sapere com’è andata, se dovremo produrre litri e litri di passata con le verdure che ci avranno tirato o se potremo aprire un negozio da fiorista, grazie ai fiori ricevuti.

Se trovo una wi-fi, magari, aggiorno anche Twitter, per la prima volta in vita mia durante un evento…

Quando ho la febbre…

… sto sempre nello stesso modo. Prima mi viene da piangere e non capisco perché, è come se il mondo stesse per finire. Una sensazione netta e precisa, ma che ogni volta mi frega e mi sembra solo di essere triste.

Poi è sempre buio. Buio come le sette di sera quando stavo male da piccola e mia madre tornava tardi dal lavoro e io restavo con la nonna. Quando stavo male, guardavo tantissima TV. Più del solito. E la sera arrivava presto, troppo presto, anche alle cinque a volte, e dalle cinque alle sette era tutto così strano. Buio, nero, sembrava notte e mia mamma non c’era e io stavo male e mi sentivo un po’ sospesa, ma avevo qualcosa di preciso da aspettare, che lei con i suoi tacchi ovattati e le calze di nylon chiare, un profumo sempre uguale e il foulard di seta viola screziato tornasse e mi desse un bacio e mi facesse passare la febbre.

E poi ci sono i giganti. Quando la febbre è alta, ma alta davvero, sento come la presenza di un essere enorme, dalle mani giganti, con la barba, che mi osserva dalla porta della stanza. Sempre. E poi è anche un po’ come se ci fosse qualcosa di enorme, che però non è una persona, ma un’idea, che mi attanaglia, e non importa se mi giro sul fianco sinistro e cerco di non vederla. Lei sta sempre lì, con il suo gigantismo disagevole.

La fine del mondo. Il buio. I giganti. Questo è quello che mi accompagna quando ho la febbre.

Ora, perché ne scrivo? Perché da qualche giorno non ho la febbre, eppure mi accompagna la fine del mondo e il buio. Ogni tanto – ma solo una o due volte – anche i giganti. E io non capisco cosa significa, perché a parte il raffreddore sto bene, non ho la febbre e sono alquanto “conscia”. Però loro sono lì. Il buio, ad esempio, adesso è qui fuori dalla finestra, e mi guarda, e mi ha anche fatto dimenticare che ore sono. Mi sembra un momento eterno prima di cena, dalle 19 alle 20, in cui sono in camera e aspetto.

O la fine del mondo. La fine del mondo è qui, hanno ragione quei predicatori pazzi che a L.A. se ne stanno con un cartello in mano ai bordi delle strade ad avvertire tutti. Loro hanno capito, hanno capito che il mondo è finito. Certo, il pacco è che non sanno come spiegarlo. Anche io, ad esempio, me ne sto qui al margine di una strada virtuale a gridare continuamente che moriremo tutti, che il mondo è finito, che l’apocalisse è vicina, e però non è che so spiegare esattamente perché. Quindi forse mi prendono per pazza. Non che mi interessi un granché.

Sarà  forse per colpa dei giganti. Queste presenze che sembrano protettrici e che invece forse sono cannibali, che aspettano un minuto in più che tu abbassi la guardia, che la febbre salga di un grado, che la forza diminuisca di un joule, per aggredirti e strapparti anche la pelle, dopo che ti hanno tolto tutto quello che avevi intorno. Non so se sono davvero cattivi, i giganti, so però che sono lì che mi guardano da sempre, e non so che farci con loro, perché almeno fossero un qualcosa da combattere, imbraccerei le armi e saprei cosa fare, invece sono lì zitti, e magari sei tu che ti sbagli, magari la stronza sei tu che pensi sempre male. E quindi non fai niente. Niente di niente. Il peggio.

Forse sto impazzendo sul serio. Forse la mia mente si è stancata di aspettarmi e si sta psicanalizzando da sola, come può.

Mi chiamo Valentina e sono incatenata alla mia roccia di Prometeo da tre cose: la fine del mondo. Il buio. E i giganti.

Il mio “programma”

Sono anni, da una chiacchierata delle nostre nel giorno di Natale, quando c’era ancora il Pietro, sono anni che quando scrivo qui penso che nemmeno questa volta ho un “programma”. Che è l’ennesimo sbrodolare di parole senza senso, il solito insulso diario online, e che invece gente come Calvino, come la Dickens, come la Wolf, come chiunque fosse un vero scrittore, ecco loro avevano un programma. Erano partiti da un punto e volevano arrivare a un altro punto e hanno “remato” con la penna per tutta la vita.

Io invece mi siedo colpevole dietro la mia comoda tastiera e scrivo cose a casaccio, con questo peso sul cuore di non sapere dove sto andando, che storie sto raccontando, perché.

E’ per questo che ho sempre paura di morire, perché non riesco ad essere significativa. Non significativa per il mondo, intendo per me stessa.

E’ per questo che per me la gente è insignificante. Tutti con i loro album di nozze, con le loro feste per rimarcare con amici e parenti la felicità  conquistata, le vacanze, i Natali passati, la poesia degli sguardi… Per me sono carne insignificante che si aggira per il mondo, credendo di valere qualcosa e invece non valete un cazzo di niente. Avete capito? Un cazzo di niente. Voi e i vostri vestiti per l’occasione giusta, voi e il vostro Faccio questo lavoro da trent’anni, voi e la banalità  delle vostre facce.

Perché tutti si dovrebbero accorgere che sono sbagliati. Che sono incompleti, ridicoli, ottusi, conformisti. Che non hanno un programma. Che non stanno lasciando nessun segno.

Che vivete in case da milioni di euro o in appartamenti angusti nella periferia di Milano, che passate la vita a fare i passacarte, i burocrati, gli impiegati, i ricercatori e fate pena, fate, nel vostro essere così convinti che tutto abbia un senso. Andate a messa, pregate il Signore, fate volontariato. Comprate i vestiti ai saldi, comprate i vestiti a Roma perché costano di meno, leggete Il cacciatore di aquiloni e lo trovate un bel libro, ecco voi, sì proprio voi mi fate pena. E non sono migliore di voi. Solo che non capisco come facciate a non vedere il vostro essere insignificanti. Non capisco quanto bisogna essere egoisti ed egocentrici per essere davvero convinti di stare facendo qualcosa di importante, anche solo di sensato, di passabile, di decente.

Io un programma non ce l’ho. Ho solo questa sensazione che sta andando tutto a rotoli, che il mondo è finito e noi stiamo ancora qui a mandare cazzo di curriculum vitae cercando un lavoro, e non ci sono più lavori, non c’è più niente. Non ci sono più sogni, perché quando hai fatto la brava tutta la vita, trent’anni di inutile vita, e ti ritrovi ancora che non ce la puoi fare da sola ti ritrovi a dover pensare Vaffanculo, io lo faccio e se poi non ci riesco qualcuno mi parerà  il culo, quando hai lavorato, hai studiato, tanto e bene, ti sei impegnata, ci hai provato e no, non funziona, non funziona mai da nessuna parte, e ci sono articoli di giornale con i pallini colorati sbagliati e un sacco, UN SACCO di bugie scritte dentro e tu ti arrabbi e fai le polpette di melanzane perché nessuno ti veda e porca merda non hai un cazzo di programma, non hai un’idea di come uscire da tutto questo e non puoi nemmeno decidere il nome di un cazzo di gattino… Ecco allora capisci che è tutto finito. Che non c’è speranza. Non c’è speranza, niente da fare, il mondo è finito e non ce ne siamo accorti, è come nei film in cui muori ma non lo sai e giri da fantasma nel tuo ex-mondo e nessuno ti vede, e non riesci a toccare le cose, e non riesci a far sentire la tua voce, e sei da solo in mezzo a tutti gli altri e vai fuori di testa.

E anche scrivere tutte queste cose al nulla, al niente, a gente che nel migliore dei casi farà  finta di nulla, nel peggiore fingerà  di interessarsi a come sto per 5 minuti, a cosa serve? Non serve a niente.

Quindi no, a distanza di anni ancora non ce l’ho un programma, perché me lo devi spiegare tu come si fa a costruire sulle macerie che ci avete lasciato, come si fa a fare un passo se poi c’è sempre bisogno che ci siate voi a tenerci la mano, come si fa a sognare ancora la notte quando sai benissimo che è tutta una presa in giro. Qualcuno me lo deve spiegare, perché poi da noi ci si aspetta il futuro, ci si aspettano i figli, ci si aspetta di tutto, ma noi non siamo capaci.

E allora almeno smettiamola, per favore, di far finta di essere speciali. Siamo solo forme di vita casuale che cercano modi originali di intrattenersi da qui alla morte. Non c’è niente di speciale. Niente di niente.

Autunno

E io ho voglia di poesia più che mai.

Come in primavera. Più che in primavera.

Ho voglia di poesia, di Chopin e delle foglie dei viali. Viali di ippocastani.

Che poi, sono tutti la stessa cosa.

Dammi il mio giorno (S. Quasimodo)

“Dammi il mio giorno;
ch’io mi cerchi ancora
un volto d’anni sopito
che un cavo d’acque
riporti in trasparenza,
e ch’io pianga amore di me stesso.

Ti cammino sul cuore,
ed è un trovarsi d’astri
in arcipelaghi insonni,
notte, fraterni a me
fossile emerso da uno stanco flutto;

un incurvarsi d’orbite segrete
dove siamo fitti

Foglie morte (N. Hikmet)

“Veder cadere le foglie mi lacera dentro
soprattutto le foglie dei viali
Soprattutto se sono ippocastani
soprattutto se passano dei bimbi
soprattutto se il cielo è sereno
soprattutto se ho avuto,quel giorno,
una buona notizia
soprattutto se il cuore,quel giorno,
non mi fa male
soprattutto se credo,quel giorno,
che quella che amo mi ami
soprattutto se quel giorno
mi sento d’accordo
con gli uomini e con me stesso.
Veder cadere le foglie mi lacera dentro
soprattutto le foglie dei viali
dei viali d’ippocastani.”

Dualismo (A. Boito)

“Son luce ed ombra; angelica

farfalla o verme immondo

sono un caduto cherubo

dannato a errar sul mondo,

o un demone che sale,

affaticando l’ale,

verso un lontano ciel.

Ecco perché nell’intime

cogitazioni io sento

la bestemmia dell’angelo

che irride al suo tormento,

o l’umile orazione

dell’esule dimone

che riede a Dio,  fedel.

Ecco perché m’affascina

l’ebbrezza di due canti,

ecco perché mi lacera

l’angoscia di due pianti,

ecco perché il sorriso

che mi contorce il viso

o che m’allarga il cuor.

Ecco perché la torbida

ridda de’ miei pensieri,

or mansueti e rosei,

or violenti e neri;

ecco perché con tetro

tedio, avvincendo il metro

de’ carmi animator.

O creature fragili

dal genio onnipossente!

Forse noi siamo l’homunculus

d’ un chimico demente,

forse di fango e foco

per ozioso gioco

un buio Iddio ci fe’.

E ci scagliò sull’umida

gleba che c’incatena,

poi dal suo ciel guatandoci

rise alla pazza scena

e un dì a distrar la noia

della sua lunga gioia

ci schiaccerà  col pie’.

E noi viviam, famelci

di fede o d’altri inganni,

rigirando il rosario

monotono degli anni,

dove ogni gemma brilla

di pianto, acerba stilla

fatta d’acerbo duol.

Talor, se sono il demone

redento che s’india,

sento dall’alma effondersi

una speranza pia

e sul mio buio viso

del gaio paradiso

mi fulgureggia il sol.

L’illusion-libellula

che bacia i fiorellini,

-l’illusion-scoiattolo

che danza in cima i pini,

-l’illusion-fanciulla

che trama e si trastulla

colle fibre del cor,

viene ancora a

sorridermi

nei dì più mesti e soli

e mi sospinge l’anima

ai canti, ai carmi, ai voli;

e a turbinar m’attira

nella profonda spira

dell’estro ideator.

E sogno un’Arte eterea

che forse in cielo ha norma,

franca dai rudi vincoli

del metro e della forma,

piena dell’Ideale

che mi fa batter l’ale

e che seguir non so.

Ma poi, se avvien che l’angelo

fiaccato si ridesti,

i santi sogni fuggono

impauriti e mesti;

allor, davanti al raggio

del mutato miraggio,

quasi rapito, sto:

e sogno allor la magica

Circe col suo corteo

d’alci e di pardi, attoniti

nel loro incanto reo.

E il cielo, altezza impervia,

derido e di protervia

mi pasco e di velen.

E sogno un’Arte reproba

che smaga il mio pensiero

dietro le basse immagini

d’un ver che mente al Vero

e in aspro carme immerso

sulle mie labbra il verso

bestemmiando vien.

Questa è la vita! L’ebete

vita che c’innamora,

lenta che pare un secolo,

breve che pare un’ora;

un agitarsi alterno

fra paradiso e inferno

che non s’accheta più!

Come istrion, su cupida

plebe di rischio ingorda,

fa pompa d’equilibrio

sovra una tesa corda,

tal è l’uman, librato

fra un sogno di peccato

e un sogno di virtù.”

E buonanotte al secchio, anche.